Le facce di un prisma, il collo della bottiglia, i denti di un rastrello: queste le figure del linguaggio di cui si serve Amalia Pica per realizzare le ventuno sculture in mostra alla Fondazione Memmo, incentrate sull’idea di catacresi. L’esposizione “Quasi”, a cura di Francesco Stocchi, rappresenta la prima personale in Italia dell’artista argentina, che segue un soggiorno e un denso programma di visite nella capitale.
La sala d’ingresso presenta una delle sculture più elaborate della mostra. Composta da diversi bracci di candelabro in vetro verde, nocciola e trasparente, attraversati verticalmente da rastrelli di diversa foggia, l’installazione site-specific (Quasi) Catachresis (2022) sfrutta una trave dello spazio per ripetere il contrasto tra elementi orizzontali e perpendicolari, collegati da fili sottili. Qui, l’artista gioca sull’idea di catacresi – ovvero l’estensione di una parola o di una locuzione oltre i limiti del suo significato – indagando il modo in cui immagini e linguaggio comunicano per definire la realtà. Ecco allora che i frammenti di un candelabro diventano le sue braccia, mentre i rastrelli esibiscono denti che non mordono, a differenza di quelli della bocca.
Nelle altre opere in mostra, figure retoriche come la “testa del martello”, la “gamba del tavolo”, le “linguette delle scarpe” o lo “schienale della sedia” vengono utilizzate come sottotesto letterale per costruire strutture eterogenee e polimateriche. In esse, componenti in legno, vetro – materiale ricorrente nel lavoro di Pica – e metallo si uniscono a elementi organici come le ossa per saldare tra loro sculture dall’apparenza instabile. Tra gli oggetti selezionati compare anche un ortaggio locale, il broccolo romano, un omaggio a Roma; qui, Pica ha avuto modo di incontrare artigiani esperti nella lavorazione del vetro, con i quali ha collaborato in occasione dell’esposizione.
Inquadrate nella sfera del quotidiano, le sedie, le bottiglie e le sneakers che compongono le opere si innestano e combinano tra loro, creando degli ibridi materici dalle forme vagamente antropomorfe. Su una parete, ad esempio, dei pezzi di vetro vengono disposti in modo da tracciare i contorni di un volto; due mazze da golf unite da una congiunzione metallica disegnano le gambe di un essere fantastico; delle assi curve, un pettine e una scarpa, sollevati da una croce nera, ripetono le manovre dinamiche di un burattino.
Quella delle marionette, del resto, risulta essere una delle fonti d’ispirazione di Pica. Dopo averne osservato alcuni esemplari in teatri e laboratori artigiani, l’artista ne ripropone l’assetto utilizzando fili trasparenti e giunture in grado di conferire alle opere un’impressione di mobilità. Le analogie con il teatro di figura si riverberano anche nell’antropomorfismo delle sculture che vengono piegate e mosse da corde invisibili. Le forme ambigue, a cavallo tra universo biologico e artificiale, le rendono al pari dei burattini dei quasi-personaggi e, al contempo, dei quasi-oggetti.
Sotto questo aspetto, il filo linguistico che lega le opere di Pica si risolve nel titolo della mostra, un riferimento alla zona intermedia da esse abitata. In questo “quasi” raggiungere una forma e un carattere ontologico definito, i lavori riportano alla mente i quasi-objects di Philippe Parreno, oggetti la cui esistenza è inseparabile dal rapporto con il contesto in cui sono esposti. Come le mise-en-scène predisposte dall’artista francese, lo spazio segnato dalle opere di Pica diviene il luogo in cui esplorare i possibili rapporti tra le sue sculture-personaggio e le dinamiche di comunicazione tra soggetto/oggetto.
In questo modo, “Quasi” riflette una visione animistica contraddistinta da una componente di imponderabilità e indeterminatezza, fondata sulla questione: che cosa fanno gli oggetti quando non li osserviamo? L’ambiente espositivo, minimale e asciutto, non intende tuttavia suggerire una risposta: forse, quando voltiamo le spalle per uscire dalla sala, a fine visita, le sculture-oggetto si sciolgono dalla posa che hanno assunto per riprendere la loro vita segreta.