Per l’intenditore del mondo dell’arte, il nome di André Cadere è perlopiù associato all’arte concettuale, nonostante non sia annoverato tra i suoi principali esponenti.
Questa parziale mancanza di riconoscimento è probabilmente dovuta alla difesa ostinata, da parte di Cadere, dell’integrità dell’oggetto artistico in un periodo in cui l’opera d’arte era soggetta a una feroce negazione. Cadere si considerava un artista marginale, condizione in cui si identificava in quanto emigrato giunto nel mondo occidentale da un paese comunista, ma anche in quanto artista impegnato criticamente nei confronti dei limiti del sistema dell’arte, rifiutando di lasciarsi inghiottire dai suoi meccanismi.
L’attuale accoglienza nei confronti di Cadere e i testi critici sul suo lavoro hanno preso in considerazione il periodo successivo al suo arrivo in Francia, avvenuto nel 1967. Inoltre, con pochissime eccezioni, il dibattito si è in larga misura focalizzato sull’attività successiva alla presentazione di Round Bar of Wood nel 1972, l’oggetto che avrebbe reso l’artista internazionalmente celebre. Quasi nulla è menzionato del periodo iniziale in Romania, come se il suo percorso personale e artistico fosse iniziato al momento della “fuga” in Occidente. Questa situazione è stata senza dubbio generata, in un certo qual modo, dall’artista stesso, in quanto raramente faceva riferimento alle sue origini romene. Il tentativo di comprendere l’impegno e la personalità artistica di Cadere dovrebbe tenere conto della sua tendenza a celare le tracce della precedente esistenza e a rimpiazzarle con la nuova identità acquisita. Questo è il motivo per cui sembra appropriato il commento del critico e storico dell’arte Jean Pierre Criqui sull’inclinazione dell’artista a controllare il giudizio sulla sua opera: “È evidente che l’unico lavoro su cui Cadere desiderava una totale rivendicazione personale è stato compiuto nel periodo in cui concepì il suo Round Bar of Wood”1. D’altra parte, almeno in un’occasione Cadere accennò alla sua provenienza est-europea e la definì come la “determinazione” che lo aveva preparato meglio ad affrontare il rifiuto iniziale del mondo dell’arte2. La sua autoproclamata marginalità nel mondo occidentale non costituiva infatti una novità per André Cadere, dal momento che nel suo paese di origine fu esemplarmente addestrato alla pratica dell’emarginazione, sebbene di un altro tipo. In quanto figlio di un ex diplomatico che dopo l’instaurazione del regime comunista fu rinchiuso in prigione, Cadere non poté seguire la formazione artistica all’Università di Belle Arti a Bucarest e non ebbe accesso alle gallerie d’arte controllate dallo Stato.
Nonostante queste difficili circostanze, Cadere entrò a far parte di un ambiente artistico che comprendeva sia artisti affermati sia autodidatti3. Nel tentativo di superare i dogmi del realismo socialista, essi volsero la loro attenzione verso l’astrazione e sperimentarono una sovrabbondanza di stili che spaziavano dal surrealismo all’op art. Cadere mostrò presto un interesse per la teoria del colore4 e prese parte a esposizioni in spazi non convenzionali, dimostrando l’abilità di mostrare i suoi dipinti in un ambiente ostile.
Dall’altra parte della cortina di ferro, Cadere conobbe un altro tipo di potere, quello delle gallerie d’arte e dei musei. Ciò che lo contraddistingueva da altri artisti associati alla critica istituzionale è che la sua strategia — e, conseguentemente, la visibilità del suo lavoro — non fu né sostituita da dichiarazioni teoriche né limitata a uno spazio specifico, ma si basava sul presupposto che, per dimostrare la sua efficacia, la pratica deve essere messa in atto “ogni giorno”5. Da qui la cruciale importanza del concetto di mobilità che rappresenta il nucleo della sua pratica artistica e che gli ha permesso di “mettere in discussione il potere della galleria”6, battendosi per ottenere indipendenza e autonomia nei confronti delle istituzioni artistiche. Le sue quotidiane, solitarie e a volte ripetitive passeggiate (compieva gli stessi percorsi in città in diversi momenti della giornata)7, portandosi sempre la barra rotonda di legno, lo liberavano dai confini dello spazio della galleria. Questa condizione nomade gli permetteva anche di testare le modalità di funzionamento del mondo dell’arte — i suoi discorsi, le pratiche, le persone e gli eventi —, tracciando continuamente il territorio per comprendere la condizione della sua stessa arte. “La mia arte è la situazione del mio lavoro nel mondo dell’arte”8, sintetizzò egli stesso.
Questa strategia di movimento non è, comprensibilmente, esente da contraddizioni. Cadere era ben consapevole che, nonostante agisse al di fuori del mondo delle gallerie o del museo, era in sostanza intrappolato in una dialettica di “dentro e fuori”, in una situazione di “equilibrio instabile”9, come lui stesso la definiva, che tuttavia gli fornì la sola possibilità di assumere una posizione critica nei confronti del sistema dell’arte. La modalità che scelse per sfidare lo spazio fisico della galleria era diversa rispetto a quella di Daniel Buren (i due artisti furono coinvolti più di una volta in controversie professionali), poiché Cadere non era incline a impegnarsi con le specificità di un luogo prestabilito. Non era la delimitazione architettonica di una particolare istituzione — che un artista come Buren cercava di svelare e sfidare in Peinture-Sculpture, la famosa installazione realizzata per il Guggenheim nel 1971 e censurata10 — a stuzzicare l’appetito polemico di Cadere. Né si dedicò a investigare l’alleanza senza scrupoli tra arte e capitalismo, come fece con successo Hans Haacke. Inoltre, Cadere prese le distanze dalla percezione fenomenologica dello spazio espositivo così come era stata sostenuta dal Minimalismo e allo stesso tempo ne criticava la perfezione idealistica degli oggetti fabbricati, esenti da ogni difetto. Il suo lavoro è innegabilmente concettuale, nel senso che utilizzava un insieme di regole prestabilite per realizzare le sue barre di legno, che definiva come dipinti, e rilasciava certificati per autenticare e vendere i pezzi. Sebbene fabbricate artigianalmente dall’artista (e mostrando le caratteristiche di un oggetto fatto a mano), la produzione delle barre si basava su un sistema di permutazioni matematiche che implicavano un’interazione di colore e di errore accuratamente calcolata nei segmenti cilindrici che componevano ogni pezzo. La barra era uno strumento che immediatamente segnalava la sua funzione primaria, quella di essere vista. Poteva stare ovunque l’artista desiderasse, in ogni immaginabile forma espositiva, palesemente assente nelle mostre in cui Cadere era invitato a mostrarla, o presente, in modo irritante, durante gli eventi che non gradivano la sua presenza. L’artista giocava astutamente con le procedure che regolavano l’attività di una galleria, mettendo in scena “esposizioni” ambulanti non ufficiali parallelamente al programma ufficiale, deridendo i protocolli di spazio e tempo assegnati alle mostre convenzionali. “Il mio lavoro non ha nulla a che fare con l’architettura, lo stile e l’estetica della galleria, ma ha qualcosa a che fare con ‘ciò che una galleria è’. Una galleria è una struttura di potere. Il mio modo di operare assume una posizione critica nei confronti di tale potere. […] Questo è ciò che definisco politico nel mio lavoro”11.
Il rifiuto di rinunciare alla sua indipendenza e alla sua emarginazione autoimposta si fece manifesto, per esempio, in occasione di una mostra collettiva al Palais des Beaux Arts a Bruxelles nel 1974. Invitato a esporre con Marcel Broodthaers, Robert Ryman e Dan von Severen, Cadere preferì piuttosto esibire la sua opera solamente durante l’inaugurazione, girovagando con la sua barra come nei giorni in cui era un completo outsider.
Un’attenta lettura delle lettere di Cadere a Yvon Lambert12, scritte prima della sua prematura morte, suggerisce che l’artista prestava una crescente attenzione alla possibilità di sviluppare serie e costellazioni composte da un grande numero di barre, controbilanciando in questo modo l’atteggiamento critico e a tratti iconoclasta del suo lavoro con una modalità di esposizione più “classica”.
Ci si potrebbe chiedere quale direzione avrebbe preso il suo lavoro, se Cadere avesse avuto il tempo di esplorare ed esaurire le possibilità formali e logiche del metodo matematico da lui progettato alla perfezione. Avrebbe minimizzato l’aspetto performativo della sua opera?13 Le intenzioni di Cadere non sono facilmente prevedibili, perché, quando si tratta di lui, si deve sempre considerare l’intrusione dell’errore, atto a infrangere l’ordine inflessibile delle cose. Anche alla fine della sua vita, ritenne necessario insistere sull’importanza della sua stessa presenza in relazione a una mostra che stava organizzando alla Barry Barker Gallery di Londra. Impossibilitato ad andarvi, mandò tre fotografie da esporre nella galleria, che mostravano la sua “effettiva situazione”14: Cadere sul marciapiede fuori dall’ospedale, con in mano la barra di legno.