Michela Arfiero: Cominciamo dall’inizio, da un lavoro che ricordi importante, significativo o che semplicemente vuoi raccontare…
Andrea Sala: Mi piace ricordare un lavoro site specific per uno spazio milanese che oggi non esiste più, lo Studio Casoli; forse non tutti ne sono a conoscenza ma questo spazio era lo studio di Lucio Fontana. Ricordo che per la mostra feci una serie di sopralluoghi che mi aiutarono a individuare gli elementi con cui lavorare; nella galleria c’erano, inoltre, diversi oggetti di design tra cui la mitica poltrona Barcelona di Mies van der Rohe. Il lavoro era formato da un’ampia parete luminosa e da una porzione della gamba di questa poltrona che sollevava di circa 15 cm la botola che si trovava nello spazio espositivo e che dava accesso al piano interrato. Mi piace pensare a questo lavoro perché mi ha introdotto alla comprensione di uno spazio architettonico ma soprattutto perché fu la prima volta che utilizzai un elemento di design nella mia pratica artistica.
MA: Com’è nato il tuo interesse per il design? Quale ruolo ha nella tua ricerca?
AS: Il design c’è sempre stato e continua a esserci. Ricordo giorni passati a guardare il temporale su una poltrona Sacco. Per questo posso dire che il design è qualcosa che ho respirato e toccato: nella mia infanzia ero circondato da fabbriche che non producevano altro che mobili. Nel mio lavoro l’interesse per il design è cambiato molto: agli inizi ero attratto soprattutto dalla pratica più che dallo sviluppo di una forma, per esempio ero interessato al processo di realizzazione e di modellazione di un prototipo o all’idea di utilizzare misure canoniche come l’altezza di una sedia per determinare le proporzioni di una scultura. Oggi invece mi piace appropriarmi dell’atmosfera, della storia, delle suggestioni di un oggetto. Sono interessato anche all’idea che un oggetto, inizialmente prodotto attraverso un processo industriale, possa essere radicalmente modificato dalla mia interpretazione ricomponendosi attraverso un processo più vicino al mondo artigianale.
MA: Il riferimento al mondo del design e dell’architettura non è, quindi, solo uno studio o una citazione. Il tuo è un racconto di forme e storie, come nel lavoro Cicognino (2009)…
AS: Nella mostra “Cicognino”, presso l’Optica Centre for Contemporary Art di Montréal, l’installazione non era concentrata sulla forma del famoso tavolo disegnato da Franco Albini ma sull’idea di sviluppare una serie di “esercizi” a cui sottoporre questo oggetto. Moltiplicazione, colorazione e variazione di scala per arrivare a creare un miscuglio di situazioni che dessero origine a un unico grande display per raccontare l’essenza dell’oggetto stesso: un grande stormo di cicogne o un vasto diorama da museo di Storia Naturale. In questo senso mi piaceva l’idea di aggiungere alla forma organica di Albini l’atmosfera di un altro momento del design, i colori pop e i pattern degli anni Ottanta. Questo progetto diventa così un modo per attraversare la storia del design e tracciarne un nuovo e inaspettato percorso.
MA: Spesso sottolinei il tuo interesse verso le forme della natura. Vuoi approfondire questo discorso?
AS: È una componente nuova nel mio lavoro; forse più che le forme presenti in natura mi interessano le regole che organizzano i diversi sistemi naturali. La mostra “Andrea Sala Plays Chancey Gardner” (2008) alla Galleria Monica De Cardenas di Milano è stata giocata proprio sull’idea di costruire, con le diverse sculture, un giardino formato da elementi differenti ma legati tra loro. Invece di organizzare le diverse sculture in gruppi omogenei, ho deciso di disporre i lavori con un’altra logica: quella di un giardino dove forme ricorrenti, basate sulle semplici geometrie di un cerchio, un quadrato e un triangolo, accompagnano il visitatore lungo la sua scoperta. Il risultato era una sorta di zapping su un giardino con forme moderniste.
MA: Pensi che il tuo lavoro sia il risultato o il processo del pensiero?
AS: Sono interessato al processo e al modo in cui un progetto si sviluppa. È in questa fase che il mio lavoro spesso si riconnette con il designer o il progettista ideatore di un oggetto o di un’architettura che mi interessa. Mi piace addirittura immaginare di indossare una “maschera” che ne rappresenti il volto e la sua attitudine lungo il processo. Warm Red Mobile (2006), per esempio, nasce da Chair One progettata da Konstantin Grcic. Il mio pensiero è stato quello di trasformare quest’oggetto in una scultura “classica”, storica, alla Calder, e l’ho fatto svelando il processo industriale di progettazione e realizzazione della sedia, aprendo, e scardinandone la sua forma e il suo disegno.
MA: …lo stesso processo che hai usato anche per il lavoro Manitoba (2007) dove apri, e in qualche modo aggredisci, una lampada di Panton alterando il suo aspetto più iconico…
AS: Sì, ma non è una regola, l’approccio al lavoro varia di volta in volta in relazione al progetto. In generale mi piace l’idea di svelare o utilizzare l’unica strada che il progettista aveva scartato, o immaginare altre possibilità.
MA: Il tuo lavoro nasce sempre in relazione a oggetti o cose già esistenti?
AS: Sì, in parte. Anche se nei miei ultimi lavori c’è un diverso atteggiamento rispetto all’esistente: sono io che disegno delle nuove forme scultoree che non esistono. Da una serie infinita d’immagini che raccolgo e rielaboro, formulo di fatto un nuovo immaginario.
Raccolgo immagini di qualsiasi cosa, di un oggetto, di una serie di colori che mi interessano, di piante o di animali… In questi giorni sto cercando immagini di pesci… La genesi dei miei lavori esiste grazie a un processo di accumulo; in particolare, nei miei ultimi lavori si può riscontrare un mix di attitudini, perché grazie all’adozione di una forma diversa riesco a fare convivere nella stessa scultura diversi mondi. Penso al lavoro Mammouth (2008) dove si incontrano il designer francese Mathieu Mategot con le influenze di uno scultore giapponese-newyorkese come Isamu Noguchi.
MA: Un atteggiamento, quello di mettere insieme, che si riscontra anche nei lavori presentati nella recente mostra personale “Networks” alla Galleria Federica Schiavo di Roma?
AS: La mostra è nata attorno alla TV, al suo primo sviluppo e all’influenza sul paesaggio urbano e domestico. Partendo da una serie di immagini che documentano le varie mostre internazionali della radio e della televisione, ho trovato tre elementi alla base dello sviluppo e del successo di questi media. La mostra è divisa in tre parti: il mondo grafico (logo, fine della trasmissione, intervallo), il mondo della ricezione (le antenne) e quello sonoro (gli speaker). “Networks” si interroga sulla presenza del design nelle case degli italiani con l’avvento della TV.
MA: Vorrei parlare dei differenti materiali che utilizzi: metallo, legno, cemento, ceramica… In che modo il materiale influisce sulla progettualità dei tuoi lavori? La forma nasce in simbiosi con la scelta del materiale o dà semplicemente forma all’idea?
AS: Fondamentalmente la scelta dei materiali è legata all’origine del lavoro. Per origine intendo il progetto originario di un oggetto di design o di un’architettura. Quindi non lavoro scegliendo il materiale, perché nella maggior parte dei casi è lo stesso che è stato utilizzato in origine dall’ideatore. In realtà, di solito scelgo un progetto che mi offra la possibilità di lavorare con un materiale specifico che credo possa avere molte potenzialità, un materiale che influisca sulla progettualità e sulla forma scultorea.
Mi interessa la possibilità di modellare gli stessi materiali usati da personaggi come Le Corbusier. Immagino, per esempio, un oggetto costruito con lo stesso cemento con cui è stata realizzata L’Unité d’Habitation di Marsiglia, o con gli stessi colori.
MA: Quali personaggi sono stati o sono importanti per il tuo lavoro?
AS: Non sono i personaggi in sé che mi interessano ma gli oggetti, gli spazi e gli elementi che hanno disegnato, che sono stati e continuano a essere molto importanti nel mio lavoro. Ricordo sempre le bellissime colonne in acciaio cromato che Mies van der Rohe ha disegnato nel 1929 per il Padiglione di Barcellona o la sorpresa che trovi in alcuni oggetti di Paolo Deganello. È da questo tipo di influenze che è contaminata la mia ricerca.
MA: A cosa stai lavorando?
AS: Sto lavorando a una mostra per un museo fuori Montréal: uno spazio che si trova nel cosiddetto “nulla”. Tutto nasce grazie alla sorprendente scoperta nella collezione di due opere: un “piccolo” Bruno Munari e un “grande” Guido Molinari (artista di origine italiana ma canadese di adozione). Grazie a questi due pezzi per il momento ho deciso di giocare alla pelota con loro.