MILOVAN FARRONATO: Ingranaggi, meccanismi e meccanicismi: da Polistirene, dove hai filmato la fabbricazione dei manichini (moderni simulacri), a The player may not change his position, in cui si susseguono riprese che immortalano le variegate giostre di un luna park in movimento. Dai tentacoli di una piovra vista in lontananza alle catene di una calcinculo che sembrano tatuarsi su una notte profonda. Dall’alzabandiera iniziale di un aereovolante al tortuoso e impervio percorso nel buio della casa degli orrori. Poche figure umane compaiono in Polistirene, nessuna in The player may not change his position. Tuttavia, in entrambi i casi, ho l’impressione che tu voglia commentare i percorsi labirintici e ciclici dell’esistenza; sottolineare le trappole che portano a forme di coazione a ripetere. Prigionieri di un’immagine o di un elegante ma solitario “volteggiare” in un luogo irreale che è la vita?
Anna Franceschini: Concentrarmi su luoghi, oggetti e procedimenti mi è sempre sembrata, in effetti, la maniera migliore per indagare l’enigma dell’esistenza. Cerco di considerare oggetti e spazi come precipitati di quella mistura alchemica che è la vita e da quel residuo, da quelle cristallizzazioni, opero un percorso a ritroso, una “dinamizzazione” degli elementi, una separazione delle particelle. Il fine di queste osservazioni quasi scientifiche non è mai la scoperta di una verità o di un risultato certo e indubbio; probabilmente lo scopo del gioco è la riuscita dell’osservazione stessa. Scegliere un luogo, rimanerci il tempo necessario a stanare il giusto punto di vista e poi usare questo cuneo visivo come un grimaldello per far saltare la crosta delle cose e liberarne la natura. Poi inizia il viaggio delle immagini, l’esplorazione cinematografica dell’ambiente intorno a me. È una traversata in solitaria, è vero, ma quello che mi serve è un campo libero, un mondo fatto dagli uomini, ma senza persone che ne celino la vera essenza. Come la stanza dei giochi che si anima quando i bambini vanno a dormire. Con il luna park di The player may not change his position è stato così. Avere pazienza, attendere la chiusura di un luogo sempre sovraccarico di presenza umana e sperare che quei grandi animali meccanici mi concedessero l’onore di danzare solo per me. Altre volte le persone entrano nelle mie immagini, ma restano quasi apparizioni, memorie visive un po’ distanti. Cerco di accarezzare gli spazi e gli oggetti per farli sentire a loro agio, per fare in modo che mi parlino ed esaudiscano i miei desideri, come la lampada di Aladino. O forse sono io che esaudisco i loro, ma questo non mi è ancora dato di sapere.
MF: Anche il tuo prossimo progetto non si sottrae a queste premesse. Nuovo contesto: una stazione petrolifera solitaria, abbandonata nei mari del nord; nuove dinamiche: pochi personaggi omologati dalla tenuta di lavoro, molti ingranaggi e percorsi sospesi e l’apparizione alchemica dalle profondità del mare e della terra di un oro nero piceo. Mi anticipi qualcosa?
AF: Credo che non esista un solo mondo sulla terra, ma diversi mondi che coabitano e si intersecano. Alcuni di questi mi sembrano mondi originari, entità separate, mastodontiche ma silenziose, indispensabili ma dimenticate. In quei luoghi si può osservare un’origine, un principio e una trasformazione. Dall’acqua salata si estrae un liquido nero e denso, che poi si trasforma in fuoco. C’è un segreto in queste operazioni e mi piacerebbe poterlo osservare e trattenere in immagini. La Grande Opera alchemica si divide in tre parti: Nigredo, Albedo e Rubedo. Il mio desiderio più grande ora è quello di dissolvermi in un’Opera al Nero.
MF: “Say Hello, Wave Goodbye” [titolo di una canzone dei Soft Cell, ndr]: non male come statement. Ma questo scomparire nel nero ha qualcosa a che vedere anche con la tua idea/progetto di riuscire a proiettare un film alla luce del giorno? Mi prefiguro immagini sbiadite, o perforate dalla luce che entra, o forse solo accese.
AF: Proprio così, e spero di salutare con un cenno della mano da molto, molto lontano, mentre diventa buio in mezzo al mare magari, e intanto nello spazio dove le immagini vengono proiettate si profila una pallida alba. Le due cose sono legate: si possono confondere le ore del giorno con un andirivieni di notti che inseguono i giorni, con una rincorsa tra l’interno e l’esterno dell’opera. In fondo, anche il cinema non è altro che la perpetuazione di questo paradosso: la luce che ha bisogno del buio per rivelarsi. Una bella e triste storia d’amore, dove alla fine l’uno divora l’altra, o viceversa. “I never knew you / You never knew me / Say hello and wave goodbye”.
MF: Mi piacerebbe utilizzare l’espressione “minimal-romantic”, ma non so se è pertinente. Tu che ne pensi? Da un lato questo desiderio di sparire e annullarsi, e contestualmente di incontrarsi oltre quel pregiudizio positivista che impedisce all’uomo di arricchirsi nel confronto con il diverso; dall’altro lato, invece, una fede verso le superfici, gli ambienti, i contesti: è questo il diverso da te?
AF: “Minimal-melancholic” è più appropriato, forse, perché mi sento più nell’umore della melancolia, ma secondo l’accezione della medicina galenica, ovvero quella specie d’umor nero, di indole riflessiva che a volte non permette l’azione. Anche se poi c’è sempre una grande forza sotterranea, un’energia tellurica che mi spinge a fare, a mettere insieme, a comporre. Ti ricordi La storia infinita? Il film fantasy con quel grande cane alato che si chiamava Fortunadrago? Nella storia si combatte contro un grande Nulla, visualizzato sotto forma di dirompente terremoto che lascia solo desolazione alle sue spalle. Il solo modo di combatterlo è il fare, costruire, ergere barriere d’azione contro il nulla. Ecco, io mi sento sempre in bilico tra questi due stati. La mia fede nei luoghi è la mia fiducia nel diverso. Nonostante l’uomo sia il grande assente nel mio lavoro, credo nelle persone e sono sempre alla ricerca spasmodica di un confronto, è solo che preferisco scoprire l’umanità attraverso le tracce che lascia dietro di sè: una scia nel ghiaccio, una bambola/feticcio o un castello errante in mezzo al mare.
MF: “Una scia nel ghiaccio”, quindi ti riferisci a Pattini d’argento (un titolo più romantic che melancholic!), in cui hai ripreso la pista ghiacciata di un palazzetto dello sport, trafitta e percorsa dalle lame di varie danze. E citerei anche il coevo Casa Verdi, per il quale ti sei addentrata nelle maglie dell’invecchiamento e, per certi versi, del monumento, inteso come tentativo di trattenere una memoria. Il contesto in questo caso è la casa di riposo per musicisti di Milano. In quale modo questi due lavori precoci creano le basi della tua ricerca?
AF: Credo che, a posteriori, entrambi i lavori abbiano a che fare con qualcosa che racchiude e imprigiona. Se Casa Verdi trattiene una memoria, Pattini d’argento, che nasce da una collaborazione con Diego Marcon e Federico Chiari, trattiene il freddo. Si tratta di due “spazi-scrigno” che hanno un rapporto differenziale con la realtà esterna, l’uno tutto rivolto sul versante del tempo e l’altro su quello della temperatura. Dentro la casa di riposo il flusso temporale si interrompeva talmente tanto da far quasi galleggiare i ricordi nell’aria. Il palazzetto del ghiaccio, invece, rimaneva sempre avvolto in un manto invernale, quando in realtà si era in piena estate. Grazie a questi due lavori credo di aver imparato che si può capire quello che sta dentro guardando, da una certa distanza, quello che c’è fuori.