Barbara Meneghel: Partiamo dalla fine: cosa ci fa Walter Benjamin sull’Isola Comacina? È sogno o realtà?
Antonia Carrara: La sua apparizione è frutto di una coincidenza, un’interessante via di mezzo tra sogno e realtà. Cercavo un interprete per realizzare un progetto sull’isola, e l’incontro fortuito con l’artista Walter Benjamin Smith ha dato luogo a una collaborazione basata esclusivamente sulla sua preziosa omonimia con il filosofo. Il riferimento quindi, mai esplicitato nel film, mi è servito per fornire un alibi al personaggio, e nello stesso tempo per strutturare il lavoro stesso. Alla sua base, una serie di entità apparentemente opposte, come razionale/irrazionale, realismo/astrazione, scienza della storia/scienza della natura.
BM: Uno dei focus principali della tua ricerca è proprio quello spazio bianco che si trova sul confine incerto tra realtà e dinamiche interne alla mente. In Sleepreading, in particolare, ci si concentra su quella fase fragile tra la veglia e il sonno in cui la mente fatica a tenere il passo con una lettura, perdendosi nei propri percorsi fluidi e immaginifici. Forse il “flusso di coscienza” de La signora Dalloway. Da dove deriva questo interesse?
AC: A tutti capita di vivere questa sensazione di sovrapposizione tra un’immagine del reale e un’immagine mentale: mi interessa capire il momento in cui una situazione di grande concentrazione si trasforma in pura distrazione. Sleepreading è un semplice intervento su pagine di libri; un foglio nero, nel quale sono state praticate delle aperture, è posato sulla pagina: in questo modo, tra le righe appare una nuova frase. Mi interessa il fatto che sia l’occultazione a rivelare. Un libro può nasconderne un altro, come un’immagine può nasconderne un’altra nei giochi di illusioni ottiche.
BM: Nella maggior parte della tua produzione, quindi, procedi per associazioni estetiche, iconografiche, intuitive. Un risvolto della libera associazione psicanalitica e — di conseguenza — surrealista?
AC: Sono molto spesso delle coincidenze a portare un elemento-chiave ai miei progetti. Per esempio, compro un libro usato e dentro trovo una cartolina che fa da segnalibro, il famoso quadro di Magritte con un uomo di spalle davanti a uno specchio che riflette ancora un uomo di spalle. Poi, noto sulla quarta di copertina la fotografia dell’autore. Le due immagini sembrano combaciare, in modo che il personaggio di spalle sembri attraversare le pagine, per affiorare dall’altro lato a viso scoperto. A volte un lavoro nasce più dal modo di guardare, dall’attenzione portata ad assonanze e dettagli del reale che dallo sforzo di creare ex novo. L’interesse del metodo surrealista risiede nel tentativo di usare l’artista come canale, come strumento meccanico attraverso il quale le situazioni prendono forma quasi indipendentemente dalla sua coscienza.
BM: Che peso ha il cinema, nel tuo lavoro in generale?
AC: Mi interessano le cattive performance di attori scadenti: sembra che a tratti una voce li attraversi, come fossero solo canali tra la sceneggiatura e l’universo costruito in cui si devono muovere; a contare non sono più loro stessi, la storia perde credibilità e ci si può allora concentrare su quello che in un buon film magari passa inosservato — come il montaggio, gli effetti speciali, l’architettura delle scenografie. Ciò che trovo interessante nel cinema classico è la volontà sempre tradita di voler avvicinare il reale. Nei miei film cerco di sfruttare le possibilità date dal montaggio per legare luoghi e tempi distanti non solo concettualmente, ma in modo puramente visivo.
BM: Se ti dico “specchio”, cosa ti viene in mente?
AC: È strana l’idea che qualcuno, dandoti le spalle, possa comunque vederti.