ANTONIO ROVALDI: Michael, la prima volta che ho intravisto il tuo lavoro è stato una mattina all’International Studio & Curatorial Program (ISCP) di Brooklyn, dove eravamo entrambi in residenza lo scorso inverno: la porta del tuo studio era semiaperta sull’area comune del secondo piano e credo di averti chiesto, dopo aver bussato timidamente, se potevo entrare. Quella cartolina sulla tua porta con l’immagine di una tenda nera in mezzo a un deserto mi aveva subito incuriosito. Stavi fissando alle pareti dei lunghi fili di lana nera che tendevano dei grossi teli di plastica (come quelli della spazzatura) e avevi appena srotolato e attaccato al muro due grandi fotografie in bianco e nero di un deserto sassoso, con pietre appuntite coperte da tante magliette, come un cimitero nel bel mezzo del nulla, ma anziché lapidi, quelle sagome bianche e nere sembravano dei fantasmi. Eri appena arrivato e il tuo studio, a distanza di poche ore, aveva già l’aspetto di un accampamento provvisorio: quel telo di plastica nera, teso alle estremità del muro, fungeva da tenda; le immagini di quel deserto roccioso sulla parete di sinistra raccontavano il tuo ultimo attraversamento ad alta quota a piedi in un deserto tibetano e il suono di qualche diapositiva, anch’essa in bianco e nero, si alternava dentro un proiettore lasciato per terra vicino a un grande baule da viaggio che avevi trovato su un marciapiede. Tutto era rigorosamente in bianco e nero, come se non volessi far trasparire dalle fotografie dei tuoi viaggi e dall’immagine complessiva del tuo studio alcuna dichiarata emozione, né il tempo che avevi impiegato per attraversare quegli spazi sterminati. C’era qualcosa di “politico” nel modo in cui avevi sistemato i tuoi strumenti di traduzione del paesaggio. È questo che mi ha colpito del tuo studio/accampamento. Mi domandavo dov’erano finiti tutti i colori, perché il tuo studio era quasi desaturato, un po’ come le scarpe da ginnastica che indossavi, nere con una striscia bianca ai lati!
“Il tempo sarebbe passato, i vecchi imperi sarebbero crollati e altri, nuovi imperi li avrebbero soppiantati. Fu necessario che i rapporti di classe cambiassero perché scoprissi che non è la qualità dei beni o la loro utilità che conta, ma il movimento: non dove uno è o quello che ha, ma da dove viene, dove va e a quale velocità ci sta andando.”
Ultimamente torno spesso sull’urgenza di queste parole di C.L.R. James e mi farebbe piacere sapere cosa evocano in te, soprattutto ripensando al nostro incontro newyorkese, sfociato poi nel progetto perfomativo e video di Shorakapok, che ci ha visto camminare insieme per sette ore consecutive per tutta la Broadway — da Wall Street fino a Inwood Hill Park, là dove finisce l’isola di Manhattan e comincia il paesaggio dell’Hudson River —, tu senza vedere e io senza sentire.
Michael Höpfner: Ricordo il nostro primo incontro, sembrava di essere in una tenda nomade! È stato uno di quei rari momenti d’immediata comprensione reciproca che non ha bisogno di lunghe conversazioni; in un certo senso già sapevamo di condividere lo stesso linguaggio e una comune predisposizione per un movimento lento delle/nelle cose. Credo che fosse per via del nostro legame con i “paesaggi”. Ciò mi rimanda subito alle tue azioni sul tempo: tu seduto in un angolo del tuo studio, mentre ascoltavi per ore la stessa canzone country e temperavi centinaia di matite o attendevi che i fiammiferi da barbecue si bruciassero, uno dopo l’altro; senza parlare con nessuno, stando semplicemente lì, solo con te stesso a pensare a quanto tempo avresti potuto impiegare per andare nel grande West Americano! Fare arte sui paesaggi non significa necessariamente dover preparare uno zaino.
Trovo interessante il tuo riferimento a C.L.R. James, un marxista, noto anche per le sue idee sulla fine del colonialismo. Hai ragione: chiedersi da dove veniamo e perché ci rechiamo in alcuni posti è parte della riflessione sulla vita. Sono totalmente d’accordo sul fatto che, quando parliamo di movimento, non si tratta dello spazio, bensì di una raccolta di luoghi che dapprima cerchiamo, poi percorriamo e successivamente ricordiamo. Credo che James avesse compreso il movimento più nel senso marxista, inteso come “progredire”, mentre noi, nella nostra passeggiata dal sud al nord di Manhattan, siamo andati in un certo senso indietro nel tempo: dal tempo del progresso verso il tempo del vuoto e del silenzio. Non si tratta di un’idea romantica o di uno stupido sogno back to the roots: Broadway era innanzitutto il sentiero che univa due sistemi di vita e di tempo, un territorio prima e un paesaggio poi, dall’accampamento dei nativi americani al forte degli olandesi. Questo potrebbe essere ancora il legame con James: le diverse nozioni di libertà su un’isola.
AR: Avevamo deciso che, prima di camminare lungo tutta la Broadway, saremmo andati a vedere Inwood Hill Park e la fine di Manhattan, quello spazio che per gli indiani era uno spartiacque tra i due fiumi, l’Hudson River e quello che è diventato in seguito l’Harlem River. Un angolo tra due spigoli. Entrammo nel parco di Inwood dopo aver camminato sulla West Side per qualche decina di isolati e quello spazio verde sembrò a entrambi così strano e silenzioso, così preistorico, nonostante si trovasse alla fine della densa, rumorosa e urbana Manhattan; a te venne persino l’idea di accendere un fuoco, forse perché ti eri immedesimato per un attimo in qualche danza tribale e avevi improvvisamente dimenticato che noi, a differenza degli indiani, arrivavamo non a bordo di una canoa scavata nel legno, bensì con le scarpe da ginnastica da una città di 215 isolati, ognuno abitato da una razza diversa! Decidemmo di proseguire con quel primo, veloce sopralluogo qualche giorno prima di lasciare New York. Partimmo verso le nove del mattino da Wall Street, tu con una benda sugli occhi e io con delle grosse cuffie antirumore alle orecchie e, percorrendo l’intera Broadway, arrivammo verso le cinque del pomeriggio nel parco di Inwood, filmati da Kaspar, l’austriaco-californiano che fumava ininterrottamente il sigaro. Credi di poter tradurre in parole quello che hai provato quando siamo arrivati, dopo 215 isolati di densa urbanità, nel verde silenzioso del parco e ti sei tolto quella fascia nera dagli occhi? Forse lungo tutto il tragitto avevi visto in bianco e nero come nelle tue immagini. Eppure non vedevi davvero e ti sei fidato di me e del mio gomito! Io invece sentivo qualcosa, ma era come un suono ovattato, come quando ci si butta in mare da uno scoglio: alcuni rumori del mondo esterno si sentono ancora, ma poi il suono sott’acqua diventa un’altra cosa, non proprio silenzio, quanto piuttosto uno spazio “rotondo” dove forse non è necessario pensare.
MH: L’arrivo mi ha ricordato L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio di Giorgio De Chirico. Da un lato, arrivare significa essere finalmente da qualche parte, ma significa anche guardare indietro, ricordare posti e volti lungo la via, rimettere insieme dei frammenti; in qualche modo tutto è connesso a luoghi geografici. Quando mi hai tolto la benda nera che mi ha reso cieco per oltre sette ore, ho guardato le grandi rocce a terra che mi ricordavano che questa è Manhattan (non avevo questa sensazione quando siamo partiti da Wall Street). Questa camminata è stata una sorta di “traduzione a ritroso”, una camminata nella storia, o forse una fuga immaginaria dalla realtà. Non c’è posto migliore di Wall Street per rappresentare i sogni e i desideri infranti della realtà attuale. Questo è quello che ho pensato quando ci siamo seduti intorno al “cerchio del fuoco” degli indiani nella foresta dove si concludeva la nostra lunga camminata. Ci siamo seduti, eravamo esausti, Kaspar fumava il suo ennesimo sigaro e tutt’intorno c’era uno strano silenzio e verde e profumo di tabacco. Stando lì seduto ho realizzato che per tutto il percorso avevamo dovuto condividere la percezione: per me non c’era una sola immagine della città, solo suoni! Era un arrivo senza luoghi e per la prima volta ho pensato allo “spazio” come a qualcosa da ricordare. Ci ho pensato diverse volte, mentre con la mano sinistra mi appoggiavo al tuo gomito, seguendo i tuoi passi e ascoltando il rumore che definiva lo spazio intorno a me. Ricordo che ho rinunciato a capire, ti seguivo e basta, dimenticando tempo e distanza. Ciò che restava di quei ventidue chilometri della Broadway erano voci, parole e suoni. Ho cercato di ricordarli, mentre ero seduto nel bosco intento a fissare gli alberi e le rocce scure che creano un’atmosfera magica. Ricordo anche di aver pensato all’assurdità della performance: tu con le orecchie tappate e io con una benda sugli occhi, che camminiamo a braccetto. Una coppia assurda in un’assurda città!
AR: Forse è proprio vero che le mappe ci dicono di più per quello che escludono che non per quello che includono. Come mangiare una banana seduti su una panchina di fianco a un uomo di bronzo, lo puoi fare solo stando fuori da una mappa!