Dopo il bianco, cosa? Risposta estrema al magma emotivo e materico dell’Informale, dell’Espressionismo Astratto e di altre pitture gestuali e materiche – per l’Europa uscita a fatica dalle rovine fisiche e morali della Seconda Guerra Mondiale – il monocromo bianco della pittura modernista è l’azzeramento dell’alfabeto pittorico, ma anche lo spazio potenziale di un nuovo inizio. Per questo motivo, nei tardi anni Cinquanta, è attraversato da molti pittori delle neo-avanguardie occidentali. Si era portato avanti già Robert Rauschenberg con i suoi tre pannelli candidi (White Painting [three panels], 1951), ma seguirono poi le diverse sfumature di bianco, più o meno puro, superficiale, o estroflesso dei vari Manzoni, Castellani, Bonalumi, gruppo Zero e Fabio Mauri.
Nel contesto sociale ed economico di un paese che abbracciava sempre più entusiasticamente il corpo attraente della modernità, qualcuno azzardava una possibile uscita da quella immacolata percezione. Più o meno nello stesso periodo (1958-1959), a Roma, Gastone Novelli e Gianfranco Baruchello guardavano entrambi a quello sfondo più o meno monocromo e più o meno bianco, non più come un termine assoluto, ma come una superficie sulla quale tracciare una possibile nuova scrittura. La tela diventava foglio, pagina, campo, parete, muro.
Al termine di un lungo processo di ricerca, nel libro d’artista Scritto sul muro (1958) Novelli realizzava ventisei litografie, una per ogni lettera di un “alfabeto ancora da inventare”. Il testo d’introduzione era alternato a frasi tracciate con segno incerto. Una proclamazione di poetica, il suo dichiarato intento di “scrivere delle parole, fare delle macchie ed a graffiarle con le unghie”1 che applicherà negli anni successivi. Se ancora nel 1959, con attitudine neo-dada, applicava pagine di quotidiani su tele quasi monocrome (Court and social, Dice meraviglioso, 1959), nello stesso anno la superficie di Nascondersi vale la pena viene invasa da una miriade di frasi e parole scritte a matita, come un muro coperto dai segni di diversi passanti.
Il quadro Primo alfabeto (1959-62) e la carta Alfabeto (1960) di Baruchello sono, invece, l’ipotesi di un vocabolario personale, una parata di pittogrammi, presentati come personaggi di narrazioni future. Ci vorranno alcuni anni perché il quadro sia completato e vengano sviluppate le possibilità insite in quel lemmario. Il bianco, infatti, resiste: sulle tele abitate da parole, numeri e segni in parte ancora espressionisti, come sulle pile di riviste e libri (una sfiducia nelle troppe informazioni o nel linguaggio stesso?) coperti di vernice bianca2. Dal 1963 circa quel primo alfabeto sarà sottoposto a un processo di riduzione di scala: una miriade di “ambigrammi”, segni “al limite tra codici linguistico e visivo”3 popolano superfici più o meno monocrome. Parole, frasi, slogan, citazioni, frammenti di immagini galleggiano in uno spazio senza gerarchie e privo di una struttura grammaticale e narrativa lineare. Uno spazio piatto, senza profondità, ma in fondo non dissimile da quello di una parete di roccia su cui dipingere immagini, figure e parole per venire a patti con il caos4.
Ma cosa trascrive Baruchello in queste caverne dell’era mediatica, su pagine senza margini? Due piani almeno si compenetrano: quello del sogno – che d’altronde Freud aveva definito come una “scrittura per immagini” (Bilderschrift) – si sovrappone quello delle informazioni derivanti dalla storia, dalla politica, dai media, in una ibridazione senza fine che sembra quasi testare la capacità del cervello di gestire informazioni e memorie. L’intrusione della parola nello spazio della tela operata da Novelli e Baruchello non solo contribuisce alla maturazione di un linguaggio personale, ma corrisponde ai rapidi mutamenti della società italiana grazie alla diffusione dei media elettronici, con conseguenti ripercussioni sul linguaggio. Come denunciato da Pasolini, la diffusione della televisione e la maggiore mobilità interna ed esterna al paese, porterà all’omogeneizzazione del linguaggio verbale, con la progressiva scomparsa dei dialetti e la “riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa”5. D’altro canto, la diffusione del linguaggio mediatico e pubblicitario, la maggior penetrazione delle lingue straniere, contamineranno inevitabilmente il vocabolario degli italiani. Gli artisti, forse ancora prima della nuova stagione sperimentale della letteratura italiana, colgono i cambiamenti in atto e superano le tendenze neo-realistiche per confrontarsi con una lingua più ibrida e libera, anche dalle costrizioni dello spazio-pagina. Infatti “…alla fine degli anni Cinquanta e nei primi Sessanta assistiamo in parallelo e spesso anche da parte di medesimi operatori o dei medesimi critici, al recupero dell’avanguardia verbovisuale futurista e alla prima proposta neoavanguardista della poesia visuale”6. Se in questi anni maturano nuove forme di poesia visiva che aggiornano alla civiltà elettronica e all’alba della cibernetica le “parole in libertà” futuriste (e ancora prima quelle di Mallarmé), d’altro canto Novelli e Baruchello stringono relazioni e collaborazioni con alcuni esponenti dell’avanguardia letteraria italiana di questi anni (gli scrittori e poeti del Gruppo 63 e dei Novissimi, per esempio)7.
Tuttavia la condivisione di certe esigenze, altrettanti riferimenti e alcuni parallelismi, non deve far dimenticare le differenze dei due percorsi. Nella pittura ma anche in altre innumerevoli declinazioni del suo lavoro, Baruchello guarda ai mezzi di comunicazione di massa e alla loro influenza sul linguaggio, nel quale ormai “ogni ponte tra parola e cosa è crollato”8. Baruchello è il pittore rupestre del villaggio globale. Dal canto suo Novelli, lettore attento del pensiero antropologico e strutturalista di Claude Lévi-Strauss, sembra interessato a costruire una lingua magica, originaria, “utilizzando residui e frammenti”9, quanto a mettere in questione il “sistema”: gli stessi criteri di organizzazione e funzione del linguaggio.
Se in Baruchello permane, fino alle opere più recenti, un fondo surrealista, fortemente erotizzato, un’esplorazione ancora in corso nei recessi del corpo e della mente (Connect-Disconnect. Language, 2015: una sorta di caverna dipinta in miniatura), in Novelli riemergerà fino ad alcune delle ultime opere (1968), una matrice informale, brut, tachiste, che si ricollega a un fondo esistenziale, a quel muro sartriano che sembra non smettere di parargli davanti. Forse quello stesso muro che ci immaginiamo pieno di segni e parole graffiate, incise e scritte, che Novelli deve aver guardato per i lunghi mesi di prigionia a causa di attività anti-fascista, nella sua cella di Regina Coeli (1943-44). Se Novelli e Baruchello vedono nel quadro come spazio di scrittura una delle possibili risposte all’autonomia della pittura modernista, una decina di anni dopo, all’interno delle ricerche artistiche post-minimaliste, Giorgio Griffa userà un altro tipo di pittura-scrittura per proclamare una definitiva uscita dalla modernità.
Abbandonato dal 1969 il telaio per dipingere direttamente a terra (tratto tipico delle civiltà nomadi), Griffa lascia sulle sue tele non parole o frasi, ma una serie di segni (linee, righe, impronte…) che possono rimandare a una forma astratta di scrittura, al suo ritmo, al suo andamento10. Organizzate spesso secondo una progressione da sinistra a destra (come nella scrittura occidentale) o dall’altro in basso (come in certe lingue orientali), i segni si fermano prima che la tela sia totalmente riempita. Se la pittura è una registrazione del ritmo della vita, e del “fenomeno” della pittura che avviene, le tele mai piene di Griffa esprimono l’espressione di un momento, in modi non lontani da certe grafie giapponesi di ascendenza Zen. “Mi piace pensare che vi sia all’origine una commistione inestricabile fra immagine e parola, che si romperà soltanto dopo qualche altro migliaio di anni con l’invenzione della parola scritta”11: se negli anni i segni della sua pittura si faranno più complessi e dinamici, rimarrà però costante l’idea di un percorso a ritroso verso un’epoca in cui disegnare e scrivere era la stessa cosa (in greco antico “grafein” ha questo doppio significato). Mentre le avanguardie dei tardi anni Sessanta minavano l’autorialità dell’artista, anche attraverso l’anonimato di gesti e segni impersonali e inespressivi, Griffa riportava sulle sue tele i gesti e i segni di una storia millenaria di mani anonime che hanno sovrapposto tratti sempre uguali e sempre diversi sulle infinite superfici del mondo. La “morte dell’autore” teorizzata da Roland Barthes nel 1968 è raggiunta da Griffa attraverso una ideale viaggio in un tempo “immemore” che scavalca l’idea modernista di un progresso lineare.
Nella sua ultima serie di opere (Shaman, 2018-19) Griffa continua la sua riflessione sul potere della parola e della poesia, come la sua apertura al “pensiero selvaggio” e alle culture extra-occidentali sulle quali, come per Novelli, ha avuto un’influenza il pensiero di Lévi-Strauss. Attraverso più libere declinazioni cromatiche ed espressive, dipinge su tele parole-immagini che prendono forma in modi diversi, “parole senza identità, ovvero scritture sciamaniche non decifrabili”, “il residuo delle parole segrete e incomprensibili con cui lo sciamano entrava in rapporto con la parte invisibile del mondo”.12 La parola della poesia, come quella della magia, sembra dirci Griffa, è traducibile solo in immagine.
In momenti storici diversi, Novelli, Baruchello e Griffa ricorrono a forme personali di “scrittura” per mettere in questione la modernità e proporne una possibile uscita. Lo fanno attraverso una duplice, schizofrenica attitudine. Da una parte si muovono consapevolmente all’interno delle avanguardie della loro epoca, non solo artistiche. Dall’altra introducono riferimenti a epoche e estetiche “altre”, pre-moderne. Per Baruchello il quadro è un piano/superficie su cui “incidere” pazientemente e lentamente una sorta di scrittura neo-primitiva come attitudine e funzione, seppur attualissima per contenuti. Per Novelli è un muro su cui scarabocchiare una nuova lingua magica, arcaica, ma anche per analizzarne la formazione, con atteggiamento pre-concettuale. Per Griffa è una superficie che, assorbendo l’intera storia della pittura attraverso forme decorative anonime, scavalca il progressismo della modernità. Tre declinazioni diverse di una stessa indole a essere nuovamente primitivi per essere soprattutto contemporanei.