L’opera di Bertozzi e Casoni è tutta affidata alla plasticità e alla versatilità proteiforme di un materiale, la ceramica, al tempo stesso antico e tecnologico. Orgogliosi di sottolineare le radici alchemiche di questo medium, ci ricordano che, nel corso della storia, la ceramica ha sempre cercato di adeguarsi a un ideale di perfezione: “è una chimica che pensa all’estetica”, affermano presentando questa loro personale alla Galleria Cardi. Il loro mondo parallelo comporta uno sdoppiamento della realtà, regolata, sotto l’apparenza di un accumulo caotico, da un’attenzione meticolosa alle esigenze della composizione: pile di piatti, ammucchiamenti di suppellettili, coacervi di rifiuti e avanzi di cibo. Questa proliferazione di oggetti e di residui, in cui la banalità si abbina al dettaglio prezioso, si rivela coronata da un elemento incongruo o grottesco, dovuto per lo più a inopinate presenze animali: rettili, prima integri e minacciosi, ora appaiono orridamente smembrati come durante un rituale stregonesco; oppure pappagalli, o scimmie o pesci. È come se queste composizioni seguissero un ritmo musicale, con un crescendo e un’esplosione finale.
Si è parlato di Wunderkammer, ma l’aspetto più sorprendente di queste opere è indissolubile dall’orrido e dal triviale, evidente rimando allegorico al concetto di vanitas. Quello che vediamo è ciò che resta dei nostri gesti e bisogni quotidiani, è il risvolto inquietante e sordido della civiltà dei consumi, in cui anche le icone della storia dell’arte contemporanea sono derise e ricondotte alla loro origine (e al loro destino) di prosaica quotidianità. Ne è un lampante esempio la Brillo Box: precipitata dall’empireo in cui era stata elevata da Andy Warhol, ritorna a essere il simulacro di un vile contenitore di cartone riempito di rifiuti sanguinolenti. Solo il tempo di uno sguardo — eternata in un materiale incorruttibile — finisce per essere immediatamente rilanciata in un altro ordine celeste.