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19 Maggio 2017, 5:45 pm CET

Mario Merz di Patrizia Ferri

di Patrizia Ferri 19 Maggio 2017
1 1 2 3 5 (1980). Courtesy Oredaria, Roma.
1 1 2 3 5 (1980). Courtesy Oredaria, Roma.
1 1 2 3 5 (1980). Courtesy Oredaria, Roma.

Ogni grande artista nasconde aspetti quasi sconosciuti o addirittura inediti, che vanno oltre l’immagine consolidata a cui automaticamente si associa un nome.

Per Mario Merz l’abbinamento scontato scatta con gli “Igloo”, opere straordinarie, ma che rappresentano solo una delle molteplici facce che fanno parte della sua sperimentazione. Con la pittura e il disegno soprattutto, l’artista ha intrattenuto un rapporto privato, sentimentale: “il disegno è inteso nell’accezione non tanto di prassi mentale, quanto di gesto liberatorio”; ciò si verifica fin da quando era un “ragazzo che disegnava le sensazioni della natura”, sviluppandosi poi negli anni come un itinerario dove si ritrova la genesi di tutti i temi della sua ricerca, un corpus grafico tenuto praticamente segreto che, visto nella sua organicità, rappresenta anche il principio di un’opera in qualità di processo aperto.

Alla dimensione grafica e pittorica, concepita in rapporto alla matematica applicata ai principi di crescita del mondo naturale — desunta dalla serie numerica di Fibonacci che, dando luogo alla figura archetipica della spirale che da zero si espande all’infinito (e viceversa), rimanda idealmente al ciclo vitale universale dalla minima alla sua massima espressione —, è dedicato l’omaggio all’artista scomparso nel 2003, in collaborazione con la Fondazione Merz. La mostra si avvale anche della serie totalmente inedita dei “Disegni con mani e numeri” e di una selezione che spazia dalle grandi tele pittoriche “libere” ai corposi pastelli su carta dei semi floreali volanti e degli animali primordiali; alle tecniche miste e ai collages (che iniziano dagli anni Sessanta, anticipandone l’ingresso nell’Arte Povera con l’introduzione di materiali vari e object trouvé); alle strutture primarie del Tavolo per i libri di Beatrice (1988); all’installazione al neon Fibonacci sequence (1976), fino agli ironici disegni di piccola dimensione, su uno dei quali campeggia la scritta, che intitola la mostra, “L’asocialità è coscienza. La socialità è struttura”. E viceversa.

Oredaria, Roma.

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