Scheletriche sculture nere riflesse su pozze d’acqua; interi pavimenti ricoperti di terra; germogli e sementi; tessuti naturali; e poi ancora corde, ferro e pietre: sono solo alcune delle forme e dei materiali che conferiscono un’impronta poverista ai lavori di Binta Diaw. Sempre essenziali e astratte, le opere scultoree dell’artista italo-senegalese ricordano le sperimentazioni di Marisa o Mario Merz, di Pino Pascali, di Giuseppe Penone e in generale dei seguaci di Germano Celant che, oltre cinquant’anni fa, avviarono le loro indagini sul “valore meravigliante degli elementi naturali”1.
Quella di Diaw con i poveristi, tuttavia, sembra un’affinità puramente estetica, al massimo dovuta agli effetti di una formazione italiana con maestri vicini all’avanguardia. Infatti, mentre l’interesse di questi ultimi era rivolto allo studio delle possibilità fisiche, chimiche e biologiche derivate dall’utilizzo degli elementi naturali senza che essi fossero però piegati a un giudizio o valore sociale, la fascinazione di Diaw per l’organico nasconde sempre una postura politica. Nelle sue installazioni tutto è simbolico o evocativo, utile a tradurre visivamente una ricerca sulla propria identità e sul modo in cui essa si incrocia a una narrazione globale e trans-storica, con radici nel colonialismo, nella diaspora, nella migrazione e nel panafricanismo.
In quanto donna, nera, femminista, di “seconda generazione”, radicata in un doppio contesto culturale e geografico, Diaw sembra riconoscere la responsabilità di attingere a un repertorio iconografico riferibile alla storia delle comunità africane nel mondo, riproducendone o rielaborandone le fattezze per riflettere sullo sguardo stereotipato e perlopiù eurocentrico con cui sono state presentate. Spesso si tratta semplicemente di riproporre materiali visuali legati ai trascorsi coloniali del continente africano, come in Je suis chez moi, je n’ai pas d’ordre (2022), il lavoro in cui l’artista imprime su un candido cotone bianco la sagoma di fotografie e slogan d’archivio risalenti al “massacre de Thiaroye” del 1944 – l’eccidio di oltre milletrecento soldati della fanteria senegalese che chiedevano venisse loro riconosciuto un compenso per i servigi prestati durante la guerra mondiale. Talvolta si tratta di adattare a nuovi contesti le iconografie storicamente utilizzate dalle comunità nere come simbolo di resistenza. È il caso dell’installazione Strange Fruit (2021) che, prendendo il titolo dall’omonima canzone di Billie Holiday contro i linciaggi, prevede la sospensione a mezz’aria di una bandiera del paese riempita di rovine della capitale e denuncia la violenza con cui il governo senegalese represse le rivolte a Dakar nel 2021. Altre volte ancora, infine, proprio nel segno del già citato poverismo, Diaw sintetizza i suoi riferimenti visuali e concettuali in sculture biomorfe, suggerendo come la resistenza al colonialismo delle comunità africane si sia spesso resa possibile grazie alla conoscenza vernacolare della natura e delle sue regole primordiali. In questo caso, per quanto fisicamente assente, il corpo umano viene evocato dal materiale organico, che assume forme iconiche e spesso monumentali per diventare traccia dei protagonisti di una ancora fragile memoria collettiva, di quegli “intermediari” che la poetessa Marlene Nourbese Philip2 riconduce a una “genealogia della resistenza”.
I will speak in a “certain manner” of those “intermediate persons”
A genealogy. Of names. Which are all that are known to me.
…a genealogy – we shall hold in abeyance, for the time being at least, the resistance –.3
Chorus of Soil, ad esempio – l’installazione presentata in scala monumentale alla Biennale di Liverpool 2023 dopo una prima realizzazione nel 2021 – consiste di una serie di cordoli di terra che, disposti ordinatamente sul pavimento, compongono tutti assieme una figura oblunga. Si tratta della planimetria di un’imbarcazione simile a quella delle navi utilizzate nel diciottesimo secolo per il commercio degli schiavi. Attingendo a un repertorio d’archivio di pubblico dominio, l’artista utilizza la terra per dare sostanza biologica e dignità alle sagome di uomini, donne e bambini che, nelle immagini storiche, venivano spietatamente rappresentate le une accanto alle altre con il solo scopo di permettere agli schiavisti di quantificare la capacità di carico delle loro imbarcazioni.
È chiaro che l’opera di Diaw sia finalizzata a riconsegnare agli “intermediari” cui si riferisce Marlene Nourbese Philip – agli ancestors di un’intera comunità panafricana – uno spazio per la celebrazione della loro memoria. Ma l’opera diventa anche un monumento alla resistenza per gli ultimi esponenti della stessa “genealogia”. L’imbarcazione, infatti, rappresenta un sommesso omaggio a tutti i migranti che sono costretti a un middle passage contemporaneo – quello nel Mediterraneo – per raggiungere contesti non sempre migliori di quelli da cui provengono. L’artista non a caso pianta dei semi di melone nei cordoli di terra; un gesto funzionale ad augurare poeticamente una rinascita della comunità, ma anche un atto per ricordare (e denunciare) il destino dei tanti africani costretti a lavorare nelle piantagioni del sud Italia sotto il controllo dei caporali mafiosi.
Altre esperienze e traumi delle migrazioni contemporanee echeggiano nello spazio grazie all’opera sonora Chorus of Zong (2023), un montaggio di storie e narrazioni di afrodiscendenti approdati in territorio inglese.
Il titolo della traccia allude ancora una volta a un tragico evento storico, denunciato dalla stessa Philip in uno dei suoi più famosi poemi: richiama il massacro della Zong, una nave schiavista che andò alla deriva nel 1781 e che, per far fronte alla scarsità di provviste, si liberò di oltre quattrocento schiavi tra uomini, donne e bambini gettandoli in mare.
Gli esiti ambientali dell’installazione di Liverpool – così come alcune delle tematiche trattate – echeggiano anche nel lavoro 1.12.44. (2022): un ulteriore omaggio alla già citata fanteria senegalese, che venne decimata dall’esercito francese proprio nella data menzionata dal titolo dell’opera. Qui, su un tappeto di terra perfettamente arato a sottolineare l’originaria professione contadina di molti soldati, compaiono alcuni dei classici berretti rossi indossati dai tiratori e previsti dall’uniforme studiata per loro dal governo coloniale. A rimarcare il loro essere tracce di una memoria che necessita di rimanere viva, la parte sommitale di questi copricapi è forata e permette la crescita di un ciuffo di mais – principale alimento dei fanti. Lungi dall’apparire come un semplice monumento ai caduti, il lavoro permette all’artista di manifestare un pensiero critico sull’eccidio mentre lei stessa si riconosce parte di una genealogia complessa e stratificata.
Questa ricerca di un legame con la storia del colonialismo è evidente anche nel lavoro Dïà s p o r a (2021): delle trecce di capelli artificiali4 che si intersecano a formare un reticolo sospeso a pochi centimetri dal suolo. Il materiale è diventato nel tempo un simbolo di africanità – dato il suo utilizzo nelle comunità diasporiche come forma di adattamento ai costumi o al clima occidentali. Ma il suo utilizzo in questa sede richiama l’estetica delle tradizionali cornrows con cui le donne africane usavano – e tutt’oggi usano – adornare le proprie teste. Nello specifico il lavoro di Diaw è un omaggio alla rivendicazione e alla resistenza matriarcale: il reticolo dell’installazione allude alla pratica con cui storicamente le schiave raggruppavano le trecce in motivi geometrici per comunicare in codice le vie di fuga dalle piantagioni. O al fatto che la loro complessa struttura fosse il luogo in cui nascondere cereali utili sia a sopravvivere all’attraversamento sia a tramandare tradizioni e conoscenze relative al mondo contadino di cui le donne erano massime esponenti. Ecco perché tra gli interstizi dell’installazione crescono piante di riso da piccoli cumuli di terra: oltre a servire da codice linguistico non verbale, le trecce di queste donne – nere, schiave e per giunta lavoratrici – divenivano il veicolo per la diffusione transoceanica di sementi. Una narrazione alternativa a quella più consolidata ed eurocentrica che ha sempre individuato nei navigatori, coloni e uomini di scienza bianchi (oltre che negli animali) i principali coadiutori della biodiversità.
Tra storia e attualità, tragedia e salvezza, è evidente che il lavoro di Diaw proponga una narrazione sulle cause e le conseguenze della dislocazione africana che lei stessa vive: “essendo nata e cresciuta in un contesto che non è la mia madre terra, ho sempre avuto un posizionamento diasporico”5, sostiene. Una complessità che spesso si traduce in disorientamento quando nel paese in cui è nata e cresciuta, l’Italia, si fatica a ottenere riconoscimenti civili e in quello di origine della sua famiglia, il Senegal, si è etichettati come una “toubab bou ñuul”6 – termine con cui la lingua wolof identifica una donna nera che si comporta da “bianca europeizzata”. Eppure, anche quando le riflessioni di Diaw sono così personali e l’artista riflette sulla vergogna, sui dubbi, sulle complessità e instabilità della propria identità e appartenenza, il linguaggio non è mai individuale e sintetizza invece storie e testimonianze altrui nel segno di quella che Édouard Glissant definiva “poetica della relazione”7. In linea con quanto sostenuto dal filosofo martinicano, infatti, i lavori dell’artista trasmettono il senso di un’identità-rizoma, e cioè intrecciano e mettono d’accordo le differenze geografiche, storiche, culturali dei riferimenti da cui provengono e che contengono.
Queste riflessioni si materializzano in Naître au monde, c’est concevoir (vivre) enfin le monde comme relation (2022), una delle opere più recenti che, fin dal titolo, cita direttamente Glissant. Qui, grazie a delle anime in ferro, le trecce di capelli abbandonano la configurazione piana e reticolare assunta in Dïà s p o r a per creare delle figure scheletriche e tentacolari che – in maniera davvero rizomatica – mettono radici alternativamente su tappeti di terra o su vasche d’acqua realizzate in acciaio corten. Per la loro realizzazione Diaw si ispira alla morfologia delle mangrovie: delle creature vegetali che crescono nelle acque basse delle coste marine tropicali (comprese quelle africane) e sono dotate di maestose e aggrovigliate radici sia aeree che acquatiche.
Naturalmente Diaw adotta queste forme con la consapevolezza di manipolare un’iconografia legata alla storia diasporica vissuta dalle comunità africane. Al di là delle questioni metaforiche che permettono di visualizzare un’identità dinamica, infatti, è lo stesso Glissant a suggerire che le foreste di mangrovie sono solite crescere in quei territori marginali e liminali che hanno coinciso con i luoghi della tratta degli schiavi – sia con i territori di origine che con quelli di deportazione. In questi contesti, la loro struttura labirintica è stata lo storico rifugio per gli uomini e le donne che riuscivano a scappare dalle piantagioni. Guardando alle mangrovie come uno spazio in cui realizzare una forma collettiva di libertà, Diaw propone una simbologia perfetta per raccontare il vantaggio dell’ibridismo culturale: sicuramente di quello personale derivato dall’essere italo-senegalese e forse, più in generale, di quello di chiunque si senta ancorato a più assi identitari secondo una prospettiva intersezionale.
Non sembra allora un caso che uno dei primi lavori che hanno assunto la forma di una mangrovia – Uati’s wisdom (2021) – sia dedicato a Mami Wata, la madre delle acque che nella tradizione africana è sempre descritta come una bellissima sirena nera, metà donna e metà pesce. Oltre a essere l’omaggio a una delle figure più apprezzate della mitologia africana – diffusa in tutto il mondo anche per via dei processi diasporici –, la scultura di Diaw sembra voler celebrare il carattere anfibio della dea proponendolo come soluzione a qualsiasi sentimento di disorientamento identitario. Mami Wata e le mangrovie sono le creature in cui si materializza il superamento di un’identità territorializzata e diviene possibile abbracciare uno stato dell’essere mobile, tra l’esodo e l’asilo8 – proprio come prevede il posizionamento diasporico.
Per quanto quest’ultimo lavoro assuma una forza immaginifica che rende plausibile supporre una sua affiliazione afrofuturista, è importante precisare che la pratica di Diaw non assume programmaticamente una tale postura. Certo, l’allusione alle cornrows come tecnica di comunicazione, il ricorso al folklore come strumento politico e sicuramente anche l’utilizzo della natura e dell’organico come metafore epistemologiche di resistenza e alleanza si accordano perfettamente con gli elementi distintivi di quella pratica speculativa che – grazie ad autrici come Octavia E. Butler o Nalo Hopkinson – ha ripreso elementi del misticismo e del simbolismo tradizionale come alleati per tracciare un futuro delle comunità africane nel mondo. Eppure, rispetto a questi approcci, il lavoro di Diaw non ha nessun risvolto fantascientifico o finzionale – se non quello costitutivamente connaturato alla pratica artistica. I suoi lavori sono sempre ben ancorati alla cronaca e alla storia, anche quando attingono a quel mondo ibrido di stampo poverista che emerge prepotentemente nelle mangrovie. Sono infatti dei luoghi (a volte dei veri e propri territori) in cui sperimentare altre modalità di resistenza ed esercitare uno sguardo critico sul reale.
Non sembra scontato ripetere e parafrasare ancora una volta le parole di Nourbese Philip: attraverso le sue opere, Binta Diaw rivendica la partecipazione a una lunga genealogia di resistenze fatta di individui-intermediari. È lei stessa una testimone di storie da trasmettere a future generazioni.Bint