Se Carlo Mollino (1905-1973) non fosse mai esistito, sarebbe stato quasi certamente immaginato — un personaggio tra il playboy moraviano e l’architetto del romanzo di Ayn Rand, di una modernità delirante vissuta a rotta di collo. L’iperbole non avrebbe sospeso lo scetticismo: oltre all’architettura, tra le passioni di Mollino vi erano l’aeronautica, i motori, lo sci, la scenografia, la grafica e l’interior design, la fotografia, la scrittura, l’occulto e i brevetti di quindici eteroclite invenzioni. Mollino pilotò aeroplani e automobili da lui stesso progettati; scrisse un romanzo, una guida sullo sci da discesa libera e un trattato di fotografia; disegnò mobili e interni, posate, abiti femminili, guanti e scarpe. Studiò rabdomanzia e astrologia mentre brevettava un processo per la curvatura del compensato.
Se non è il carattere eclettico a collocare l’opera di Mollino ai limiti della credibilità, è certamente l’ossessiva ampiezza, ovvero sua la prodigiosa abilità a far confluire questi interessi nella produzione architettonica. I tavoli in legno modellato con piano in vetro degli anni Cinquanta, probabilmente tra i pezzi più famosi di Mollino, rimandano, per esempio, alle strutture duttili e curve degli aerei acrobatici. Questa eccentrica unità di autobiografia e tarde modernizzazioni futuriste fa sì che l’opera di Mollino opponga resistenza a qualsiasi tentativo di sintetizzazione. Considerarlo solo un fedele Corbusiano mette in ombra quella “versione originale e ironica di organicismo”, secondo l’ancora calzante descrizione di Manfredo Tafuri, che potrebbe meglio definire la sfuggente posizione di Mollino nell’architettura italiana del dopoguerra. I mobili e il design di Mollino, architetto “occasionale” che in età avanzata si avvicina pigramente al “barocco” torinese, manifestano anche una singolare teatralità, sottolineata da quello che sembra il ritorno di un elemento represso del modernismo architettonico: l’erotismo. Un immaginario erotico pervade il corpus delle opere di Mollino, dalla planimetria a forma di corsetto del Teatro Regio di Torino (1965-1973) agli utensili che dovrebbero alludere a una (seppur molto stilizzata) anatomia femminile.
Non sorprende, quindi, che questo personaggio esagerato, lanciandosi nell’era postbellica con l’energia frenetica del culto marinettiano della velocità, si sia lasciato alle spalle un perverso inventario erotico: migliaia di fotografie e Polaroid di nudi femminili, scattati in interni e su mobili da lui stesso disegnati, a partire dagli anni Cinquanta. Si scopre così che Mollino produsse persino una sua propria pornografia.
Solitamente questa parola porta con sé un carico di lussuria e colpevolezza. Le fotografie di Mollino — all’origine della pornografia architettonica che include le pubblicità per le sedie Saarinen e numeri di Playboy degli anni Sessanta — sarebbero totalmente insipide se fossero meri esempi dell’essenza del feticismo individuale o della trasgressione di tabù stereotipati. Inoltre, l’erotismo della fotografia di Mollino appare ormai contenuto; in un’immagine, una figura in corsetto mostra le iniziali “C.M.” sul suo sedere nudo. Questo burlesque fotografico, del genere Olympia Press, è stato completamente assorbito. Ciò, in realtà, si limita a celare il significato specifico delle immagini.
Piuttosto che la pornografica esibizione degli organi sessuali, le fotografie indicano ciò che la teoria di Roland Barthes spiegherebbe come l’esistenza di un desiderio al di là di ciò che l’immagine consente di vedere. La messa in scena, la rappresentazione della seduzione, infatti, portano in primo piano il contributo di Mollino a un tropo architetturale della società consumistica postbellica. L’erotismo, onnipresente negli interni di Mollino, entra in azione precisamente in un nuovo tipo di spazio domestico, che, mentre nega le norme della sessualità borghese (in particolare, la sfida che nel secondo dopoguerra lo scapolo lancia al matrimonio eterosessuale), propone anche un’architettura che svincola l’uomo moderno dalla moralità convenzionale (“liberando” in questo modo il desiderio).
La maggior parte delle fotografie e delle più tarde Polaroid era stata scattata in ambienti privati che Mollino chiamava garçonnières — approssimativamente “appartamenti da scapolo” — , che fungevano sia da studio fotografico sia da ambiente erotico pieno di fondali e tendaggi teatrali, oggetti feticcio, specchi e diverse varietà di trompe-l’oeil usati per creare un’“architettura della persuasione” alla Frank Lapidus. Questi interni, come scrisse Benedetto Gravagnuolo a proposito di quelli disegnati molto tempo prima da Adolf Loos, sono esplicitamente ideati per “proteggere la sfera privata dalla moralità pubblica”. Sono la versione di Mollino della nuova architettura domestica così come proposta dalle doppie pagine centrali di Playboy, di cui Mollino era un avido collezionista negli anni Cinquanta e Sessanta, con donne nude adagiate su mobili modernisti. Interni disegnati anche per facilitare e inscenare la seduzione, le garçonnières forniscono esattamente quell’intimità che rende possibile la fotografia erotica di Mollino. Egli infatti visse con la madre gran parte della sua vita adulta — un’ironia allo stesso tempo “vittoriana e warholiana” nelle sue allusioni. Le garçonnières ripensano, sebbene piuttosto sciovinisticamente, il luogo di intimità sessuale degli ambienti domestici del dopoguerra.
Le fotografie catturano questo nuovo tipo di ritmo privato attraverso la seduzione tecnologicamente mediata che la macchina fotografica permetteva, in particolare l’istantaneità di una Polaroid. Il “tempo” dell’evento fotografico — l’erotismo messo in scena nelle fotografie di Mollino — è in questo modo rallentato dalla tecnologia: queste scene congelate documentano brevi intervalli del flusso della seduzione sessuale. Mollino stesso usa un esempio del genere nella sua descrizione delle implicazioni della tecnologia fotografica: “Una volta, quando a un certo momento dicevi: ‘Fermati così, sei meravigliosa’, dovevi posizionare la testa del soggetto in una morsa, e lasciare che una grigia emulsione e un noioso e penetrante obiettivo si prendessero il tempo necessario; oggi, quel momento dura millesimi o milionesimi di secondo…”.
Forse non c’è niente di più tedioso, nel regno della seduzione sessuale, della banalità della sua orchestrazione spesso elaborata (a partire da Diario di un seduttore a La verità è che non gli piaci abbastanza). Nel caso di Mollino, questo aspetto non era diverso. Le sessioni fotografiche durante le quali venivano prodotte le immagini prevedevano l’ingaggio, di solito ad opera dei suoi amici, di entraineuses di night club. A volte venivano organizzate cene come elaborati stratagemmi. Mollino non era un esperto nel rimorchiare, ma sicuramente era un eccellente drammaturgo.
La prima delle sue garçonnières era un piccolo appartamento sulle colline che dominano la città di Torino, conosciuta come Villa Scalero, affittata a metà degli anni Cinquanta.
Le relative fotografie, inizialmente scattate con una Leica, hanno come componente centrale un letto disegnato specificamente per lo spazio, così come una sedia laccata nera a forma di spina, la cui linea arabesca e “femminile” è messa in evidenza da diverse fotografie di modelle che ne seguono il contorno con le loro schiene. Mollino incluse altri tre mobili precedentemente disegnati per il suo primo appartamento da scapolo nel 1946 (conosciuto come l’Appartamento di Mollino): una scrivania cilindrica — oggetto di tanta attenzione nelle fotografie — e una sedia scolpita in pioppo. Le modelle venivano fatte posare sopra o di fianco a questi mobili indossando le dozzine di abiti, capi di lingerie, accessori vari e scarpe della collezione di Mollino. Diverse modelle furono spesso fotografate nelle stesse mises; una gonna bianca trasparente compare frequentemente nelle immagini, indossata in ogni minima variazione possibile.
La maggior parte delle fotografie di Mollino erano soggette a molti ritocchi, lavorate direttamente con ferrocianuro e una spazzola, utilizzati per schiarire l’immagine o per definirne i contorni. Mollino aveva già fatto abile uso dei fotomontaggi nei primi anni della sua carriera, e aveva accuratamente composto le immagini dei suoi interni, poi pubblicate su riviste d’architettura. Questo approccio del “tutto è permesso” alla camera oscura è chiaramente dichiarato ne Il messaggio dalla camera oscura, il trattato sulla storia del gusto fotografico e sulle poetiche della tecnica che Mollino scrisse nel 1949:
Una fotografia può essere definita in modo permanente al momento del primo scatto, che è la condizione necessaria alla sua esistenza, oppure può nascere in qualsiasi momento delle operazioni successive… tutte quelle operazioni che spaziano dal definire i dettagli solo sfiorati dalla lente col calore della tua mano, all’affrettarsi ansiosamente ad aumentare le tonalità con l’ovatta, o ancora peggio con le dita inumidite con prussiato rosso e iposolfito, e persino eliminare intere parti dell’immagine, fino all’intollerabile oltraggio per i puristi, il ritocco pericoloso e invasivo del negativo o del positivo, la sovrapposizione, il fotomontaggio: tutto è permesso.
Nello stesso periodo in cui Mollino stava restaurando un appartamento affittato al piano nobile di un palazzo del XIX secolo nel centro di Torino, comprò la sua prima macchina Polaroid, un modello 800 con messa a fuoco manuale e apertura regolabile. La costruzione del suo interno sontuoso e altamente simbolico, con riferimenti all’egittologia e alla tradizione mistica, lo impegnò dal 1960 fino alla morte, nel 1973. La maggior parte delle sue Polaroid, formato che usò in modo quasi esclusivo nel corso degli anni Sessanta, fu scattata in questo eccentrico appartamento e in una garçonnière creata nello stesso periodo, Villa Zaira. Qui Mollino comincia a minimizzare l’enfasi modernista per concentrarsi più intensamente su un erotismo tenebroso nel mood e nell’atmosfera (si pensi a Emmanuelle). L’istantaneità dell’immagine Polaroid semplicemente enfatizza ancora di più, in questi spazi, il “tempo” della rappresentazione: si può immaginare Mollino insieme alle sue modelle valutare (e gioirne?) il loro oggetto “ready-made” erotico, prendendo decisioni sulle pose e sugli elementi di sostegno; la seduzione strumentalizzata diventa un gioco tra l’occhio vorace della macchina fotografica, il desiderio implicito nel vedersi in una tale immagine (immediatamente appagato), e l’intimità resa possibile dalla perfezione di una non così sottile architettura di persuasione sessuale. Ecco che il modernismo si insinua ancora una volta: scena prima donna-nuda-su-sedia-modernista e, naturalmente, fluente gonna bianca in bella mostra.