Carol Bove: Colui che ha richiesto questa conversazione ha suggerito che parlassimo di Modernismo anche se, in realtà, io non ci sto più pensando.
Steven Claydon: Io ho dei dubbi sul Modernismo, e anche su che cosa ci si aspetti dal lavoro di un artista. Per un po’ ho flirtato con questa idea, e ho realizzato che era un buon espediente per orientarsi verso una serie più ampia di problematiche. Pensavo al tuo lavoro, e mi pare che la tua relazione con il Modernismo sia molto autobiografica, e probabilmente deriva dal fatto che sei cresciuta a Berkley durante un periodo che è stato il “canto del cigno” del Modernismo. La fantascienza ha un ruolo simile per me, dato che considera una proiezione futura alla stregua di un ricordo prezioso. Il fatto che la fantascienza assuma talvolta un ruolo di esperienza concreta per le persone è enigmatico. Mi sono cimentato con l’idea di “fedeltà alla materia”, che è qualcosa di diverso dall’onestà verso i materiali; suppongo si tratti di un’idea che lascia spazio anche all’“infedeltà verso la materia”, o addirittura a un tradimento verso le cose che si producono. Che ne pensi, dal punto di vista del tuo lavoro?
CB: Mi piace l’idea di infedeltà materiale, o di tradimento. Il sentimento che scaturisce dalla parola “tradimento” fa rima con certi aspetti oscuri del tuo lavoro. Per un periodo ho giocato con la dialettica tra autenticità e artificio. Non riuscivo a definire l’arte autentica senza arenarmi, e alla fine di questa caccia ero esausta. Invece l’artificio è un po’ più facile da approcciare. Non si può parlare di “onestà verso i materiali” perché non è più di moda, e inoltre una discussione simile porta con sé un bagaglio storico notevole. Sottolineare il fatto che i materiali sono profondamente coinvolti nella creazione non significa di per sé dimostrare “fedeltà” alla materia”?
SC: “Autenticità” e “verità” sono territori impossibili e, come tu hai ricordato, si affidano alla storia. Potremmo, comunque, individuare il potenziale dell’arte nel suo essere catalizzatrice di incontri autentici. Credo che certi pensatori si riferissero a questo quando parlavano di verità e autenticità. Io stesso riesco a conciliarmi meglio con l’opera d’arte intesa come “veicolo” per smettere di essere scettici. Potresti considerare quest’idea un buon modo di intendere il tuo lavoro?
CB: L’uso che fai della parola “veicolo” mi fa paragonare certe immagini del tuo lavoro a un’impalcatura improvvisata della forma umana, e poi a un elemento scenografico — ovvero l’espressione più immediata di una realtà alternativa. Uno dei miei interessi nel diventare un’acculturata spettatrice dell’arte sta nel prendere posizioni incompatibili. Menzionerei The Oracle, una scultura che ho realizzato all’inizio del 2010. Un lavoro del genere ha riferimenti alla corporate lobby art, a un busto romano, a Brancusi, a un’esposizione di frammenti di antichità al Metropolitan Museum, e alle conchiglie come motivi per l’interior design.
SC: The Oracle è stata secondo me l’opera più significativa della tua mostra del 2010 da Kimmerich a New York. Per molto tempo ho considerato questo approccio fatto di parallelismi come l’unico modo appropriato per costruire le mie cose: un insieme di traiettorie narrative che descrivono un’orbita intorno a un centro. Joseph Conrad adottava un approccio simile quando raccontava storie di marinai. Lo scrittore paragonava infatti il racconto a una noce: la storia ruota attorno al suo soggetto sino a formare un guscio che ricopre la noce, senza mai riferirsi direttamente a essa, ma solo alludendovi.
CB: La noce di Conrad è un’immagine molto bella per descrivere quello che fai. Volevo riprendere una nostra conversazione di qualche anno fa, riguardo all’utilizzo di assistenti. Mi sono chiesta se è quello il tipo di artista che voglio essere, uno che gestisce una piccola bottega? Mi sono immaginata scene con funghi allucinogeni in una caverna nordafricana quando ho avuto questa vocazione.
SC: Credimi, mi piacerebbe rivivere questa fase “beat”, ma una volta che si comincia è necessario che tu abbia delle responsabilità verso la tua professione, il che spesso preclude l’edonismo.
CB: Spesso sento di trascurare la mia responsabilità verso il mondo quando cedo alle richieste del mercato. Non è un opporsi a ideali romantici, ma è un accettare il fatto che il mercato fa parte del mondo dell’arte. Non è casuale, ma intrinseco agli oggetti stessi che produci. Penso a un commercio di tipo primitivo, legato alle esigenze di consumo e all’idea di possesso come strumento per imporre le proprie idee nel mondo. È un concetto un po’ perverso, ma è proprio questa perversione a rendere le cose interessanti. La fedeltà ai materiali sta nel combinarli insieme perché, oltre a essere materia, sono forme in grado di suscitare sensualità. I materiali devono essere integri e autonomi per aggregarsi e suscitare un effetto erotico. Purtroppo, ciò che è vistosamente costoso mi attrae di più.
SC: Vorrei soffermarmi sulle tue idee sul ruolo della seduzione, della superficie, ecc. Si corre il rischio di appropriarsi di un materiale, e mi vengono in mente artisti che si trovano nella curiosa circostanza di essere sedotti dal soggetto che si erano promessi di criticare. Spesso, si rischia di esagerare con l’impatto estetico per trovare lo spettro di uno stile.
CB: A me interessano la critica e la seduzione. Perché lavorare con materiali di cui non ci importa? La mia arroganza ha a che fare con la seduzione e la critica. Per ragioni a me ignote ero attratta continuamente dall’architettura di Philip Johnson. La definizione di “spettro di uno stile” suona simpaticamente sinistra, e infatti io opto sempre per lo stile; per me esso non è un elemento superficiale o aggiuntivo, ma è un elemento esteriore che esprime il significato interiore. Usiamo entrambi i piedistalli. I miei sono prismi rettangolari, i tuoi hanno talvolta risvolti più complicati. Che cosa sono queste forme?
SC: I piedistalli più complessi hanno riferimenti al culto pitagorico. Hanno dodici lati e formano un dodecaedro. Noi avviciniamo la matematica alla logica e alla riflessione; ma per i pitagorici era molto diverso. Credevano che la matematica racchiudesse un codice mistico della dimensione divina. Questa deduzione, nelle mani sbagliate, poteva essere così potenzialmente distruttiva che certe equazioni furono rivelate solamente agli iniziati. La più potente di queste equazioni era il dodecaedro. Mi interessa la filosofia pre-socratica per le sue invenzioni straordinarie, la sua speculazione e la sua natura complessa. Il dodecaedro è comunque una delle componenti del mio lavoro. Mi interessa quello che dicevi a proposito di come si possa alterare un materiale attraverso la nostra interpretazione. La soggettività influisce fortemente sullo stato della materia e viceversa. Qui sta l’oscillare delle cose tra la “terra” e il “mondo”, come diceva Heidegger.
CB: Hai letto Moby Dick?
SC: Sì, quel libro è un’inesauribile miniera di materiale. È stratifcato, semplice ma complesso come il plancton, il phytoplancton, il krill (insieme di crostacei che costituiscono la base alimentare delle balene, ndr) e altre creature che passano attraverso i fanoni di un cetaceo. I miei occhi si affaticano anche solo guardando Lo Squalo. Qualunque cosa abbia a che fare con il marino ha su di me un effetto quasi religioso. Come disse una volta Ian Hamilton Finlay: “Chi non potrebbe amare le barche?”. Credo che questo libro si possa leggere dalla fine all’inizio, o che si possano riordinare i capitoli, e interpretarne la narrativa attraverso gli odori. In che modo la tua location “marittima”, Red Hook (Brooklyn, New York), ha influenzato il tuo lavoro?
CB: Mi piace questa domanda, perché mi fa pensare a… come dire… ad accettare gli aspetti “loschi” del mio lavoro. A volte ho creduto che il mio interesse per gli anni Sessanta rappresentasse un’identità politica, la parte peggiore, che riduceva tutto ciò che si fa alla demografia. Un concetto troppo deterministico. Il fatto che io viva vicino all’acqua, o che sia cresciuta a Berkley negli anni Settanta fa parte di un evento più grande. Mi pare giusto che la mia esperienza determini il materiale che comporrà il mio lavoro.
SC: Ci sono artisti che ho conosciuto in giovane età tramite incontri occasionali, che stabiliscono relazioni eterogenee con il proprio lavoro. Le mie opinioni hanno influenzato la mia evoluzione di artista: un’esperienza comune a molti artisti, ne sono certo, e che si basa sull’idea di autobiografia mista a prospettiva storica e ricerca. Ho avuto il piacere di incontrare uno di questi artisti, Charles Simonds. Ho iniziato a intravedere una sorta di cospirazione voodoo nel suo lavoro. Ovunque andassi trovavo suoi cataloghi, spesso nei luoghi più improbabili: lungo la Senna o in un negozio di seconda mano. Il rapporto con il lavoro di un artista non poteva svilupparsi in maniera più accademica e retrospettiva di così.
CB: Normalmente inventi oggetti basati su… su cosa? Personalmente io applico al mio lavoro la filosofia della non-invenzione, così che quello che faccio con gli oggetti diventa più che altro una cornice. Anche quando invento, lavorando il materiale in una nuova forma, penso che sia una non-invenzione, perché le forme sono comunque familiari. Tu fai una cosa simile, ma non è lo stesso.
SC: Nel secondo capitolo di Grand Guignol (1944) di Louis-Ferdinand Céline, l’autore allude casualmente a una zona dell’East End di Londra chiamata Trom, nei pressi di Whitechapel. È un luogo totalmente inventato. Il mio progetto sulla campana si è ispirato alla natura eterogenea dell’East End di Londra. Céline descrive il rimbombo del Big Ben, sottolineando un violento cambiamento della città sottostante. Questo ha fomentato le mie visioni fanciullesche, che vedevano i docks di Londra come zone devastate dalle bombe. Provavo a immaginare Trom: secondo me si trovava in una zona sotto la Chiesa di St. Paul, Bow Common. La campana esterna mi disturba, come i testicoli che sbucano da un costume da bagno. La campana di Trom è un punto interrogativo. Ho elaborato e inserito la campana in una serie di scenari, come se fosse un motivo oscuro e che disorienta. Una campana amnesiaca: autonoma, che si auto-interroga, e obsoleta. Una sveglia senza tempo o orario preciso, che suona a seconda degli eventi casuali che le formano un’orbita intorno.
CB: Intravedo la trama! Questa è la tua infedeltà alla materia, la tua narrativa, la tua atmosfera. Come una materia fertile che si accumula, come un orgone* polveroso.
SC: A un certo punto discutevamo di certe forme di magia che richiedono l’uso di un oggetto durante la formula magica, per aumentare l’efficacia. Come per i ready made di Duchamp. Che ne pensi?
CB: Ho avuto esperienze così buffe da sembrare incantesimi.