Luciano Marucci: Negli anni Ottanta la Transavanguardia recuperava la pittura manuale e le sue anacronistiche proprietà rappresentative e narrative mitizzando la storia dell’arte. Tu invece approdavi alle opere tridimensionali spesso assimilabili alle strutture primarie. Com’era nato il tuo orientamento di andare oltre certi codici consolidati?
Chiara Dynys: Ho iniziato a lavorare tra la seconda metà e la fine degli anni Ottanta, partendo dalla tela monocroma che, attraverso stratificazioni di cere e resine, lentamente apre allo sguardo un passaggio che poi si estroflette e piano piano diventa un luogo, un attraversamento non solo virtuale.
LM: La tua produzione aniconica di allora, pure se ottenuta con materiali e procedimenti tecnici nuovi, rispetto alla Minimal e alla Conceptual Art, non ignorava i valori sensibili della cultura mediterranea.
CD: La mia ricerca si è coniugata molto presto con quella sui materiali connessi al significato del lavoro. Mentre l’arte minimalistica non si sarebbe mai servita di sapone cere zolfo, materiali cosi “sensuali” da avere un odore oltre che una tattilità forte.
LM: In fondo nell’ibridare pittura e scultura davi continuità ai linguaggi del passato e facevi dialogare la classicità con la modernità.
CD: Certo, amo questa commistione anche in altri artisti come Paolini. Uno dei miei ultimi lavori è Falsa prospettiva, ispirato al passaggio di Borromini a Palazzo Spada di Roma.
LM: Se non sbaglio, il metodo progettuale e la calibrata strutturazione dei singoli artefatti e delle installazioni hanno privilegiato tangenze con il design e l’architettura.
CD: Mi è capitato e mi capita di collaborare con degli architetti, specialmente in Svizzera, ed è molto interessante.
LM: A parte le altre peculiarità, le opere successive si distinguono per la mobilità della ricerca e la continua sperimentazione sfruttando le conquiste tecnologiche. Sembra che tu sia mossa dal bisogno di inventare, di trovare certezze.
CD: La mia priorità non è di trovare certezze, ma piuttosto di insinuare dubbi.
LM: La tensione verso un altrove inconoscibile non si ferma mai?
CD: La tensione è una prerogativa dell’arte.
LM: Foto, video, film, lightbox, opere oggettuali, installative e performance ti consentono di esplorare più ambiti e di dare sfogo alla versatilità?
CD: Più che di “versatilità”, si tratta di “allergia allo stile”, con la convinzione di perseguire un linguaggio.
LM: Sei sempre in avanscoperta?
CD: Potrei risponderti che seguo un fiume, un percorso visionario che step by step mi porta al progetto successivo che magari non è coerente con la forma del precedente, ma che è vicino nell’attitudine, nell’atteggiamento e nell’approccio.
LM: Non ti poni limiti linguistici o tematici?
CD: Seguendo il mio linguaggio, ciclicamente mi accorgo di avere un’attenzione per il sociale che esplico con video e fotografie ma, per non rendere questo una semplice cronaca, inserisco il lavoro in una “cornice” che a volte è tale anche fuor di metafora, altre volte è espresso in modo visionario.
LM: Dopo aver raggiunto un risultato, procedi coerentemente o per altre vie?
CD: Non raggiungo mai “un risultato”. Ogni lavoro per me è una visione, un’apparizione che vado a concretizzare attraverso disegni e renders, ma di solito il piccolo miracolo è che ogni lavoro riuscito corrisponde alla prima visione che ne ho avuto. Come avviene? Non me lo chiedere. Non lo so.
LM: Il work in progress finisce per evidenziare anche una sorta di instabilità performativa in senso costruttivo e immaginario?
CD: Non c’è instabilità nel percorso di un artista, semmai “rischio”.
LM: Per realizzare i cicli più complessi compi studi specifici e ti avvali di esperti?
CD: Ho fondato uno studio di persone che collaborano con me e quindi spesso lavoro con architetti renderisti, filosofi, compositori. Operatori e direttori della fotografia, esperti di animazione eccetera.
LM: Ci sono progetti che non puoi concretizzare per problemi tecnici o economici?
CD: Ci sono progetti nel cassetto che per una serie di problemi di diversa natura non sono riuscita a realizzare.
LM: Dai viaggi esotici cosa riporti?
CD: Ho realizzato film, video, lavori fotografici sui problemi politici e religiosi del Medio Oriente, ma anche sul potenziale di energia della gente giovane che appartiene a quegli stati.
LM: Nel multiforme percorso nomadico, connotato da tecniche espressive, metamorfosi tematiche e sconfinamenti spazio-temporali, sebbene eviti la ripetizione dello stile, si possono individuare delle costanti. Penso, in particolare, alla geometrizzazione dell’immaginario e all’essenzialità, all’uso di materie senza peso e ai raffinati cromatismi, all’energia della luce, alla spazialità e al lirismo, alla finitezza e alla leggerezza. Condividi?
CD: Il denominatore dei miei lavori non è estetico ma etico. La leggerezza, la forma e la luce sono collegate alla volontà di far entrare chi guarda in un cono ottico dove instauro un corto circuito tra lui e il ribaltamento della realtà circostante.
LM: La tecnica lenticolare, da cui derivano immagini mutevoli, è solo un espediente per attrarre lo sguardo, stimolare la conoscenza e far interagire lo spettatore? Gli effetti giocosi e un po’ spettacolari limitano o favoriscono il coinvolgimento emozionale?
CD: Non è mia intenzione creare alcun rapporto giocoso, se non intendendo il gioco come trappola.
LM: …È la tua scoperta più vistosa… per la percezione dei lavori eseguiti con i mezzi più avanzati. Ha qualche legame estetico con l’opera aperta dell’arte cinetica e programmata degli anni Sessanta?
CD: Il mio lavoro non ha connessione alcuna con l’arte cinetica e programmata, poiché il problema non è solo percettivo ma riguarda “cosa sto vedendo”.
LM: La luce alchemica e simbolica emanata ad esempio da Glitter Gates e Diamanti o dalle installazioni Alberi Santi e Più Luce Su Tutto sottende anche una fusione tra sacralità dell’arte e spiritualità laica?
CD: La sacralità e la spiritualità non hanno tangenzialità con il mio lavoro. Un termine per me importante è la “metafora”.
LM: Nel combinare linguaggio e ideazione concettuale ti poni il problema del rapporto più o meno equilibrato tra aspetto esteriore e contenuto?
CD: Sia pure indirettamente ho già risposto.
LM: Suppongo che la chiarezza comunicativa dell’opera anche più metaforica sia pianificata al pari della sua trasparenza formale.
CD: Suppongo di sì.
LM: Anche i titoli rientrano in questo obiettivo.
CD: I titoli, come sempre, sintetizzano un concetto.
LM: I termini antitetici “Tutto Niente” o “Sempre Mai” cosa vogliono rappresentare?
CD: Parole elementari, dialettica tra cose primarie ed essenziali.
LM: Negli ultimi tempi sembra che tu preferisca espandere l’opera, anche in modo scenografico, relazionandoti con i luoghi istituzionali. Fai prevalere realizzazioni site specific anche perché ormai a esse si riconosce dignità museale?
CD: Mi è sempre piaciuto lavorare “site specific”, non mi sento scenografica. Il museo ha una precisa valenza istituzionale quando è internazionale.
LM: Le mostre monografiche sono occasioni per presentare gli esiti delle ricerche o pensare nuovi lavori?
CD: È ovvio. Si spera di trovare qualcuno sufficientemente interessato che ti consenta di mostrarlo.
LM: Non ci sono mai ritorni di fiamma per approfondimenti o ulteriori indagini?
CD: Mi succede di usare le stesse forme poiché parlo sempre di attraversamento e di passaggio. Ma i contesti diversi danno un diverso valore emozionale al lavoro.
LM: A volte la produzione ha un aspetto oggettivo; altre è caratterizzata da sottili allusioni, visionari racconti estranianti e dalla evocazione di pensieri e memorie personali. In alcuni soggetti si nota l’idealizzazione di luoghi naturali e appare perfino un’aspirazione al divino e alla salvezza… Anche se non mancano lavori che mostrano una maggiore presa di coscienza della condizione ambientale e umana, in questo periodo di decadenza generale desideri rimanere pressoché fedele all’arte per l’arte e difendere l’autonomia dell’opera dalle contaminazioni del quotidiano, oppure sei tentata di dialettizzare più direttamente con la realtà sociale?
CD: Non ho mai usato la formula diaristica, ma ho parlato spesso di storia e di sociale specialmente nei miei lavori sul medio oriente come Limitare i danni (1998, Santa Maria delle Croci, Ravenna; Galleria No Code, Bologna) e altri, quali Sipario (2008, prima della primavera araba, ZKM, Karlsruhe) e molti lavori precognitivi rispetto ai tempi. Ho lavorato con attrici su testi di Beckett e prodotto “corti” sul problema femminile di cui ho costruito soggetti, sceneggiatura e regia. Mai muovendo dal quotidiano ma — come ti ho detto — dalla metafora.