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10 Luglio 2015, 12:47 pm CET

Luca Trevisani di Davide Giannella

di Davide Giannella 10 Luglio 2015
Glaucocamaleo, 2013. Veduta della mostra presso il Museo Marino Marini, Firenze, 2014. Foto: Dario Lasagni.
Glaucocamaleo, 2013. Veduta della mostra presso il Museo Marino Marini, Firenze, 2014. Foto: Dario Lasagni.
Glaucocamaleo, 2013. Veduta della mostra presso il Museo Marino Marini, Firenze, 2014. Foto: Dario Lasagni.

Davide Giannella: Che titolo è GLAUCOCAMALEO? Da dove salta fuori? Sembra uno strano ibrido tra una storia fantasy e qualcosa di classicheggiante.

Luca Trevisani: In realtà è un camaleonte glauco. Glauco è un colore, il colore del ghiaccio in un ghiacciaio. Blu-verde, profondo e intenso.

DG: E il camaleonte è quell’animale che cambia colore in base alla superficie con cui entra in contatto e rispetto alle temperature del contesto in cui è inserito.

LT: Esatto. Il film che prende questo nome è un film termico. Parla di cambiamento e metamorfosi, usando la temperatura come linguaggio principale.

DG: Cosa intendi per termico? È come se dicessi che disponiamo di una sguardo tattile?

LT: Esatto. Aptico, vivo, pulsante. Il cinema per me è come essere un architetto, costruire un ambiente per fartelo vivere nel buio della sala. Come ogni bravo architetto sa, si parla del e al nostro corpo e contano quindi texture, materiali, volumi e appunto temperatura. Questo è un film, un prodotto per il cinema.

Glaucocamaleo, 2013. Still da film
Glaucocamaleo, 2013. Still da film.

DG: Questo lo avevo intuito…

LT: Mi spiego: la cosa bella dei film è che ognuno di noi, andando al cinema, si sente libero di dire quello che pensa di quanto è stato proiettato, senza filtro alcuno. Al museo o in galleria è diverso, ma al cinema ognuno, a suo modo, si sente padrone della situazione.

DG: Quindi al museo, o in ambito artistico, ti senti più immune alle critiche mentre come regista hai la pradossale serenità di metterti in discussione?

LT: Lo scambio, anche violento, è più intuitivo, forte, intenso: i pareri e i pensieri fioccano liberi. Nel bene e nel male, liberi.

DG: Che metodologia hai elaborato approcciandoti a un linguaggio, per te pressoché inedito, come quello cinematografico?

LT: Per me fare cinema significa non essere più in studio da solo, ma a capo di una banda che mi fa arrivare dove io non arriverei per esperienza, o per attitudine, conoscenza e capacità di calcolo. E poi un film per me significa fare una cosa che gestisce la temporalità che mi sta a cuore, trasformandola in una presenza, effimera ma durevole allo stesso tempo. Significa costruire una narrazione che ha e fornisce più strumenti per poter parlare a un numero di persone maggiore. Significa mettere in piedi una macchina produttiva lenta e inesorabile, che spesso decide da sé i propri tempi. In studio sono più ansioso, in pre-produzione e sul set devo essere anche più accondiscendente rispetto ai tempi di questa macchina e delle persone coinvolte, e alla fine finisco per fare le cose meglio.

Glaucocamaleo, 2013. Still da film
Glaucocamaleo, 2013. Still da film.

DG: Credi che la mutevolezza delle cose sia anche un valore necessario a prescindere dall’ambito in cui questo processo avviene?

LT: La mutevolezza è il centro del mio lavoro di scultore e di qualsiasi mio progetto. Mi interessa di più fare l’equilibrista passeggiando su un filo sospeso, allenando i muscoli e affinando l’udito che essere comodamente trasportato da un autista.

DG: Nelle varie conversazioni scambiate, hai parlato del film anche come di una scultura. Come ti è venuto in mente? Quali paralleli, se è di questo che si tratta, hai trovato o ti sei riproposto di ritrovare tra le due dimensioni?

LT: La scultura è una presenza che ti si para davanti con e cui ti devi confrontare. È un incontro. Tra corpi e tra identità. Il film invece è un corpo fluido, che ti rimane in testa con la potenza che hanno i sogni, smaterializza la scultura e, così facendo, la amplifica. Come con i ricordi, che ti vengono a trovare quando vogliono loro e ti raccontano una loro storia.

DG: Cosa intendi quando parli del film come di una piattaforma invece?

LT: Glaucocamaleo è a tutti gli effetti una piattaforma di lavoro. È un film, è stata una mostra per il Museo Marino Marini, è un libro edito da Humboldt Books. Proprio come l’acqua, tra i protagonisti del film stesso, in ogni passaggio di stato il contenuto si è modulato in base a ogni output, cambiando sempre linguaggio ma mantenendosi coerente con le tematiche di fondo del progetto. È una strategia per sciogliersi il più possibile e ed essere fruito in più ambiti e da più persone.

DG: Ti piacerebbe farne altri di film? Sembra che nonostante le fatiche produttive e fisiche tu ti sia anche divertito parecchio.

LT: Certamente. Sto preparando diverse mostre, una nuova serie di fotografie, ma ho già iniziato la lavorazione del secondo film. Sarà diverso da Glauco, ma con alcuni  temi ricorrenti, una seconda tappa sviluppata tentando di far tesoro degli sbagli e degli errori commessi col primo.

Davide Giannella è critico d’arte e curatore. Vive e lavora a Milano.

Luca Trevisani è nato a Verona nel 1979. Vive e lavora tra Berlino e Milano.

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