Gyonata Bonvicini: Partiamo dal tuo ultimo progetto espositivo. Nel settembre 2006 hai avuto modo di esporre alla Galleria Rüdiger Schöttle di Monaco. Una mostra in cui ogni lavoro è direttamente legato all’altro, quasi a costituire una sequenza di immagini diverse di un unico soggetto.
Christian Frosi: Sono lavori nati e sviluppati in modo assolutamente indipendente l’uno dall’altro. Il soggetto di cui parli si riferisce ai Piraha, una popolazione che vive nella foresta amazzonica e che costituisce un caso irrisolto per gli antropologi. I Piraha hanno una percezione del mondo e un linguaggio estremamente particolare. Rappresentano l’unica comunità che fa a meno del concetto di numerazione. Non contano e non numerano gli oggetti, non chiamano i colori con i loro nomi, non possiedono la scrittura e la loro memoria collettiva non va oltre due generazioni. Come in altri rari casi, ognuno di loro cambia nome ogni due o tre giorni, non hanno una religione, né miti o leggende da tramandare, né forme d’arte. Il numero due rappresenta per loro la manifestazione della pluralità e dell’infinito. Nella mostra a Monaco ho sistemato due testi uguali, stampati su due fogli, posizionati molto distanti tra loro, in modo da riempire una grande parete. Il testo racconta, grazie alla testimonianza dell’antropologo Daniel Everett, la sua esperienza diretta con i Piraha. Un altro lavoro era costituito da un’installazione di due tubi di legno a sezione esagonale, lunghi tre metri ciascuno, differentemente orientati nello spazio, in cui ho infilato una bicicletta, dividendola in piccole parti (New Title OOOO Bycicle, 2006). Un altro lavoro sospendeva nello spazio, sopra due lastre di policarbonato trasparente, un paio di scarpe di Chris Dercon. Anche se le mie opere possiedono delle dinamiche proprie, ho trovato interessante avvicinare il concetto di dualità presente nel mio lavoro al concetto di dualità secondo la tribù dei Piraha, facendo tesoro dello spirito di ricerca che in altre discipline attinge proprio dalla diversità e dalla complessità, dove esiste l’idea di una linea d’ombra tra ciò che si conosce e ciò che è ancora misterioso.
GB: Il tuo lavoro è stato spesso accusato di essere criptico e di non presentare connessioni con un discorso teorico strutturato. Come ti poni nei confronti di questa critica?
CF: è necessario essere costantemente alla ricerca dell’identità del proprio lavoro, e questo è possibile solo se non ci si accontenta delle risposte che ci si dà dopo pochi anni. è una critica che non trovo pertinente a ciò che intendo per lavoro di un artista. Non ho la pretesa romantica di avere un immaginario da regalare al mondo, le mie opere sono spesso delle prove, degli esperimenti linguistici, ognuno con la propria direzione e indipendenza.
GB: Con la ricerca sui Piraha il tuo lavoro prende per la prima volta un’esplicita referenza narrativa. Come sei partito da qui e perché hai sentito l’esigenza di inserire i tuoi lavori in una dimensione interpretativa determinata?
CF: è stato un interesse che si è sviluppato parallelamente al lavoro e che è cresciuto talmente che ha cominciato a farne parte. Le domande che ti poni leggendo di una popolazione con comportamenti così distanti dalla nostra non scaturiscono da una semplice fascinazione esotica, ma dalla straordinaria profondità di questa differenza, che va a negare le basi del nostro linguaggio. Un linguaggio talmente diverso che crea comportamenti per noi assolutamente insostenibili, sia concettualmente che fisicamente. La letteratura esistente sui Piraha ha sicuramente influenzato il mio modo di raccontare questa mostra, che è diventata quasi un testo per immagini su di loro. è stato come scrivere per la prima volta un testo di antropologia, ho usato immagini elementari, come quando si impara a leggere e a scrivere.
GB: Come in occasione della performance con la schiuma, con l’installazione delle scarpe hai giocato con il concetto di esterno e interno, privato e pubblico, in contesti e situazioni differenti.
CF: Questa serie di lavori ha preso inizio a Milano con la mostra “Dojo” [Ex Faema, Milano 2005], quando ho cercato di creare una connessione tra lo spazio della mostra e lo spazio esterno. Decisi di sospendere nello spazio un oggetto che appartenesse alla città facendolo sporgere sospeso a un’altezza irraggiungibile dal pubblico. In questo caso scelsi dei libri rari, alcuni dei quali riguardavano proprio la città di Milano. In un’altra occasione, a Londra, per la mostra organizzata da Jonathan Viner, le opere furono installate all’esterno della galleria. Ho trovato interessante proporre lo stesso tipo di lavoro per capire come avrei reagito, nel momento in cui il problema era l’opposto. In questo caso infatti la scultura si trovava già all’esterno, cercai quindi di creare un collegamento con un elemento privato, ma che in qualche modo fosse utilizzato per vivere la città. Chiesi a Jonathan Viner di immolare un suo paio di scarpe su due elementi di legno sporgenti dal muro esterno di una casa, all’altezza di 4 metri. Ho ripetuto la stessa operazione chiedendo la partecipazione di Chris Dercon a Monaco e di Marc-Olivier Wahler a Parigi, per Isabella Bortolozzi.
GB: L’aspetto performativo assume un senso molto variegato nel tuo lavoro, spesso anche i progetti maggiormente legati alla scultura si modificano nel corso dell’evento espositivo o addirittura al di là di esso.
CF: L’aspetto performativo di alcuni lavori è come una coreografia, ci sono tutti gli elementi per realizzarla. Mi piace pensare alla possibilità che un’opera possa attraversare una fase attiva e una inattiva, mi affascina il momento in cui le opere arrivano in uno spazio completamente imballate. Un giorno spero di poter realizzare una mostra dove i lavori rimangano imballati e mischiati tra loro, magari poi fare la spesa e metterci di fianco i sacchetti con il pane, la frutta, il latte…
GB: Scorrendo i titoli dei tuoi lavori è evidente che l’idea di serialità si lega indissolubilmente al tuo lavoro.
CF: Il lavoro sui titoli che sto cercando di realizzare è molto faticoso e non riesco ad applicarlo sempre. La mia idea originaria era quella di utilizzare delle immagini al posto dei titoli. Questo è poi risultato assolutamente impossibile da applicare perché quando comunicavo il titolo, che era un’immagine, mi veniva richiesto il titolo di quell’immagine e rimanevo intrappolato dalle esigenze editoriali. Ho cercato dei titoli che potessero essere considerati anche delle forme e per questo ho pensato a delle singole lettere maiuscole, che non rappresentano delle semplici sigle. Per questo motivo, la lettera maiuscola viene sempre introdotta da “New Title”.
GB: Quando ti viene proposto un progetto curatoriale e ti viene richiesto un nuovo lavoro, quanto influisce il concept curatoriale?
CF: Se esiste un tema curatoriale, di solito mi sento più libero di agire anche in direzione opposta, ma una volta realizzato il lavoro mi accorgo di rimanerne inevitabilmente condizionato.
GB: In un’opera che hai realizzato durante una collettiva presso la Galleria Zero… hai creato una sorta di modello in scala naturale di un esperimento scientifico. Inoltre il modello era solo parziale, ma aveva la caratteristica di essere visto dalla strada, come se stesse realmente fluttuando a mezz’aria. Vuoi spiegarmi il perché della sua parziale realizzazione?
CF: Avevo scelto di riprodurre un esperimento di levitazione elettrostatica, molto comune tra gli appassionati di esperimenti scientifici. Ho trovato molti video di persone interessate a questo argomento che realizzano questo esperimento nei modi più svariati: consiste nella costruzione di una struttura triangolare in carta stagnola, leggerissima, collegata a dei fili di rame a loro volta collegati a un monitor modificato e a diverse apparecchiature. Assistendo alle reazioni delle persone che osservano levitare la luccicante struttura triangolare, decisi di riprodurre proprio l’istante in cui tutte le apparecchiature necessarie spariscono agli occhi del realizzatore che segue completamente ipnotizzato il “lifter” che si stacca dal suolo. Una sorta di riproduzione emotiva di quell’esperimento. Penso di utilizzare questo sistema anche per altri lavori, realizzando delle simulazioni e dei modelli di esperimenti che trovano la ragione della loro incompletezza nell’emozione di chi li realizza.