Nel racconto di Ray Bradbury L’estate di Picasso (1957), George Smith cammina lungo la spiaggia di Biarritz quando incontra un uomo anziano che disegna delle figure sulla sabbia con il bastoncino di un ghiacciolo al limone. Smith non ha dubbi: quell’uomo è Pablo Picasso. Vorrebbe scattare una foto, chiamare un restauratore che possa fare un calco di quelle incredibili figure ma rimane pietrificato: la marea cancella ogni traccia del disegno e ne lascia un ricordo solo per i suoi occhi.
“La stanza vuota” è la prima personale di Christian Frosi dopo dieci anni di ritiro dal mondo dell’arte ed è un tentativo di rifuggire la caduta nell’oblio di una produzione di per sé effimera. È anche una riflessione su cosa significa essere un artista che, senza una dichiarazione di intenti, smette di esserlo aggiungendosi così alla lista dei dropout dell’arte.
Una riproduzione in scala ridotta di Duna (2007) apre la personale in un ambiente-calco della mostra meno frosiana di Frosi: “Ambient Tour” curata da Christian Bonami alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (2007). È una mostra storicizzata, finita, molto lontana dalla natura di Frosi, insofferente allo spazio espositivo chiuso e ben definito. Frosi è un artista incapace di spiegare le sue opere, di razionalizzare le immagini, di argomentarne le ragioni fin dai tempi dell’Accademia di Brera, dove era studente di Alberto Garutti. L’opera di Frosi è un gesto, un dato di fatto che nasce dalla poetica dall’imprevedibilità, dall’inconsapevolezza di ciò che può accadere quando due elementi vengono messi insieme. In Foam Ramp (2003) la parte superiore di due fogli di plexiglas accostati viene cosparsa di schiuma da barba: questa potrebbe rimanere ferma come è stata spruzzata, potrebbe crollare, oppure seccarsi. Non c’è nulla di studiato o pianificato, il finale rimane completamente aperto. Lo stesso accade, in scala maggiore, in Foam (2003), installazione realizzata in occasione della prima mostra milanese di ZERO…: un cannone sul tetto della galleria spara della schiuma, il volume aumenta al punto da inondare lo spazio esterno dell’edificio e finire su strada. Non c’è niente di calcolato, ma emerge la difficoltà di contenersi nello spazio della mostra.
La pratica di Frosi è anche fortemente laboratoriale, sperimentale, e porta spesso a risultati quasi performativi, quindi a opere che prevedono l’intervento e la partecipazione dell’altro. Il visitatore è chiamato a modificare le coordinate dell’oggetto, ad esempio cambiando la direzione delle assi che compongono l’opera, come accade in T4 (2005). È evidente che le opere di Frosi – soprattutto quelle realizzate tra il 2006 e il 2009 – presuppongano una sorta di patto tra artista e visitatore, anzi tra opera e visitatore, rispetto a ciò che è visibile e ciò che è invisibile, a quello a cui lo spettatore è disposto a credere, al beneficio del dubbio che concede all’artista. È quello che accade nelle opere realizzate cercando di infilare un oggetto molto grande in un altro, decisamente troppo piccolo: come i cuscini, di cui vediamo solo pochi brandelli, inseriti in due sottilissime barre di vetro in OOOOOO PILLOW (2006); o ancora in LLLLLLLLLLLI (2009) composta da un tubo all’interno del quale ha provato a inserire un paracadute, senza riuscirci. Si tratta di operazioni in cui il fallimento ha un ruolo importante, e non è considerato come qualcosa di negativo, piuttosto come un esperimento che inizia senza sapere come e quando finirà, se non nel momento stesso in cui il fallimento si cristallizza in opera d’arte.
Quello che importa più di qualsiasi altra cosa, più della sorpresa, dello shock, è la libertà dell’artista di fare ciò che vuole. Non c’è ragione, non c’è un obiettivo. In Carosello (2011), riproduzione video di una performance realizzata proprio a Bergamo, Frosi e Diego Perrone rispondono alle domande poste da Alfredo Jaar (a sua volta in una performance) rispetto alla cultura e al ruolo dell’artista. Su dei cartelloni bianchi, domande e risposte perdono la loro centralità, perché al centro si aprono dei buchi attraverso i quali saltano continuamente dei cani. Questa azione sottolinea l’imprescindibilità dell’artista di essere libero, di prendere una strada altra, diventando anticipatore di quella che, di lì a pochi mesi, sarà la decisione di Frosi: smettere di essere un’artista.