Ho conosciuto Claudio Abate circa trent’anni fa, era l’autunno del 1984. Avevo vent’anni e con Enzo Cucchi – che all’epoca frequentavo assiduamente – una mattina sono andata al Pastifico Cerere, un luogo oltremodo affascinante per una giovane studentessa di storia dell’arte, dove ho conosciuto Gianni Dessì, Bruno Ceccobelli e Giuseppe Gallo. Più tardi, sempre quel fatidico giorno, da Pommidoro, la trattoria di quartiere dove all’epoca gli artisti pranzavano quotidianamente mangiando bene e spendendo poco, mi sono imbattuta negli occhi magnetici e nel sorriso sornione di Claudio che chiacchierava tenendo banco con l’eterna sigaretta sempre accesa.
Quando quattro anni fa ho iniziato a lavorare alla collettiva “The Body as Language” per la galleria Richard Saltoun di Londra, sono tornata nello studio di Claudio Abate a San Lorenzo per studiare l’affascinante materiale, diapositive e stampe, su uno dei momenti d’oro dell’arte a Roma.
Claudio dal 1968 ha documentato la straordinaria avventura dell’Attico, il mitico ex garage di via Cesare Beccaria convertito in galleria d’arte da un lungimirante Fabio Sargentini.
Al Garage l’obiettivo di Abate ha immortalato alcuni lavori memorabili come Senza Titolo (12 cavalli), la celebre operazione di Jannis Kounellis che ha coinvolto dodici cavalli vivi, o la performance di Eliseo Mattiacci in cui l’artista ha guidato un rullo compressore nello spazio della galleria formando una scia di sabbia bitumitosa, o ancora lo zodiaco vivente di Gino De Dominicis e i tableaux vivants di Luigi Ontani. Del 1969 è la documentazione del Festival Danza Volo Musica Dinamite con artisti del calibro di Simone Forti, La Monte Young, Steve Paxton, Deborah Hay e Trisha Brown che per la prima volta si esibiscono in Europa; del 1972 il Festival Musica e Danza From US che vede la partecipazione di Philip Glass, Steve Reich, Simone Forti e Yvonne Rainer.
È solo grazie alla sensibilità di questo fotografo romano se oggi abbiamo alcuni scatti memorabili che testimoniano quella fenomenale stagione artistica in cui per la prima volta le arti hanno iniziato a dialogare per creare qualcosa di inedito.
Negli ultimi tre anni sono stata diverse volte in studio da Claudio per selezionare le fotografie da presentare a Londra, a Miart e a gennaio di quest’anno all’Armoury Show di New York. Ogni volta mi perdevo fra i negativi e le stampe; scatole e scatole di materiale eccezionale, mille storie e aneddoti da ascoltare fra una sigaretta e l’altra e ancora i pranzi da Pommidoro che Claudio non aveva mai smesso di frequentare. Ogni tanto portavo con me Richard Saltoun che, da appassionato di body art e performance, amava forse ancor più di me stare ore a visionare quelle immagini e a ricostruire un passato in cui tutto sembrava possibile. Io facevo da interprete e l’ultima volta c’era con noi anche Giulia, la figlia di Claudio, che cercava di portare un po’ di ordine in quel meraviglioso caos in cui Claudio era perfettamente a suo agio, sempre con l’immancabile sigaretta perennemente accesa, la voce pacata e un po’roca, l’inflessione romana che tanto amo ascoltare da chi è nato nella capitale e la memoria prodigiosa. Era bello partire da una minuscola diapositiva per ricostruire alcuni momenti speciali e Claudio, con il suo obiettivo, quei momenti – probabilmente irripetibili – li ha catturati al meglio.