“Per l’immaginazione senza limiti l’immagine è un bisogno di confine.” Con questa frase, scritta due anni e mezzo prima di morire, Claudio Cintoli rivela allo stesso tempo il dramma e il motore della sua ricerca artistica, vissuta in una costante ambiguità che lo porterà addirittura a creare un alter ego, Marcanciel Stuprò. Un’esistenza bipolare, vissuta nel costante e disperato sforzo di trovare l’unità degli opposti che aveva condizionato, fin dall’adolescenza, la sua natura di uomo e di artista. Eppure durante la sua breve esistenza, consumata in maniera bruciante e totale nell’arco di quarantatré anni, Cintoli ha lasciato ricordi indelebili, legati soprattutto ad alcune performance, perfettamente in linea con le esperienze più estreme della Body Art, condotte da artisti come Gina Pane, Marina Abramović o Chris Burden. Ma la sua personalità eclettica e contraddittoria era in grado di combinare linguaggi diversi per rispondere all’urgenza espressiva dettata da un’energia creativa fondata sulla sovrapposizione tra l’arte e la vita. Un’urgenza non pienamente compresa allora, che merita oggi di essere riletta e analizzata per coglierne la profonda e inquietante complessità.
Un pittore estroso e controllato
Nel riguardare la biografia di Claudio Cintoli (Imola, 1935 – Roma, 1978) molti elementi indicano un’identità sfaccettata e contraddittoria, che la critica più attenta mise in luce subito, quasi a voler giustificare una effettiva difficoltà di trovare la via d’uscita da una personalità che si presenta come tortuosa e labirintica fin dagli esordi dell’artista, nipote del pittore di Recanati Biagio Biagetti, autore di cicli di affreschi a soggetto religioso e direttore dei Musei Vaticani all’alba del Novecento. Nel 1958, a ventitré anni, lo vediamo già protagonista di due mostre personali, al Palazzo Comunale di Recanati e alla Galleria La Medusa a Roma, presentato da Eugenio Battisti. Nel testo che accompagna la mostra, Battisti individua alcuni interessanti snodi della sua personalità, che si riveleranno poi fondamentali: “L’urgenza di un mondo spirituale da esprimere” insieme alla “capacità di fondere insieme emozione ed equilibrio” fino alla “certezza che l’orizzonte della memoria è più ampio di quello della conoscenza”. Nelle opere giovanili, realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e la metà dei anni Sessanta, Cintoli parte da una figurazione timida e rassicurante, vicina ad artisti come Antonio Corpora ed Ennio Morlotti, che caratterizza dipinti come Donna e Natura morta (1956) o I Mietitori (1957) per arrivare nel 1960 a una pittura più libera, legata a un informale teso e drammatico, dove si respirano echi di Alberto Burri, Hans Hartung e Franz Kline, che l’artista ha modo di conoscere da vicino nel corso di alcuni viaggi in Belgio, Germania e Gran Bretagna. Nello stesso tempo realizza assemblaggi di oggetti trovati, tipici della cultura contadina marchigiana, come Lavandaia (1963). L’anno successivo partecipa al premio Scipione a Macerata, dove espone il dipinto Maggiordomo: è in quell’occasione che Marcello Venturoli nota per primo il tentativo dell’artista di fondere insieme due linee di ricerca, una vicina al pop americano e l’altra legata alla misura italiana, con “quadri divisi in due settori, uno di rilievi, l’altro sgombro, monocromo, entrambi serrati in una cornice che conclude lo spazio mentale dell’opera. Cintoli è pittore estroso e al tempo stesso controllato”.
Oltre la Pop
Maggiordomo annuncia nella sua struttura compositiva il dualismo della ricerca di Cintoli: da una parte una pittura informale e materica, dove gli oggetti affiorano da un magma indistinto, dominato dalla materia, e dall’altra il monocromo puro, aureo, mentale. Sono due mondi separati da una linea di confine netta, che allora Cintoli percepiva come insuperabile. L’anno successivo realizza Il giardino per Ursula, il suo primo murale sulla parete di fondo del Piper Club di Roma, per conto degli amici architetti Cavalli e Capolei, in seguito distrutto, e pochi mesi dopo parte per New York, dove rimarrà fino al 1968. Si tratta di un soggiorno fondamentale per l’artista, che nel suo studio a Manhattan produce film di animazione a colori per la casa di produzione Lindberg e inizia a collaborare in qualità di critico con le riviste Cinema-Documentario e Flash Art. Nel 1967 pubblica sulla rivista Vie Nuove “Una lettera da New York”, dove anticipa e puntualizza i nuovi sviluppi del suo lavoro: “Constatiamo che l’occhio umano non è più a contatto diretto con la natura, ma per lo più si muove in un environment artificiale, costituito da innumerevoli diaframmi che vanno dai semplici occhiali da sole agli obiettivi fotografici, dalla televisione al cinema, dalle diapositive alla pubblicità, dai rotocalchi alle quadricromie […]. Fin da quando mi sono indirizzato verso tali ricerche ho nutrito la convinzione che l’operare creativo dovrebbe rispondere a caratteri di serialità da un lato e di spettacolarità dall’altro, per poter coinvolgere la più vasta parte possibile del pubblico”. Questa appare dunque la corretta chiave di lettura di tutta la pittura di Cintoli, che muove dalla volontà di attirare il pubblico per avvicinarlo a tematiche che scaturiscono dalla sua personalità interiore, e nulla hanno a che fare con il cinismo della società di massa esaltato dalla Pop Art e dall’Iperrealismo. Opere come Volo verso la Luna (1965-66) o Volo radente (1966) fino a Una manciata di stelle (1970), il grande murale realizzato per la Curia Generalizia della Compagnia di Gesù a Roma, così come i successivi dipinti degli anni Settanta, come Arancia (1969-79), Uovo (1976-77), Nido (1977) e Mezz’anguria (1976-77) adoperano un linguaggio pittorico desunto dalla grafica pubblicitaria o dall’iperrealismo per invitare il pubblico a entrare all’interno dell’opera, intesa come segno e traccia metaforica della tensione interiore vissuta dall’artista.
Il tempo delle azioni
Nel 1968, al ritorno dagli Stati Uniti, Cintoli si trova a dialogare con una scena romana profondamente mutata, densa di stimoli e carica di energie, che l’artista analizza inizialmente attraverso una serie di interventi critici sulla rivista Cartabianca. Una presa di posizione non facile, che costringe l’artista a un’identità frammentata, divisa tra la scrittura critica e l’azione creativa. Ma nonostante questa iniziale presa di distanza, in realtà tra il 1969 e il 1971 l’attività artistica di Cintoli è particolarmente felice e intensa. Anche grazie alla sua attività di critico, si inserisce subito nel cuore della nuova situazione, la Galleria L’Attico di Fabio Sargentini, dove ancora risuonavano gli echi degli happening di Pino Pascali. Perfettamente consapevole dell’orizzonte che si andava rapidamente delineando, Cintoli avvia un nuovo filone di ricerca incentrato sul valore concettuale e narrativo dell’oggetto quotidiano e domestico, recuperandone anche la valenza popolare e contadina, attraverso la proposizione di azioni basate su gesti semplici e comprensibili, in grado di coinvolgere il pubblico presente. Istanze che prendono forma con Annodare, l’installazione presentata presso L’Attico il 25 marzo 1969, composta da una serie di gomitoli di corda di varie dimensioni, che il pubblico può sciogliere e riannodare a proprio piacimento, disposti in diversi punti della galleria. A questa prima azione seguirà poco tempo dopo Chiodo Fisso, dove l’artista si fa avvolgere dal gallerista Fabio Sargentini con lunghe bende bianche, fino a scomparire in un gomitolo di stoffa, nel quale viene infilzato un chiodo, simbolo di una sofferenza interiore che l’artista riproduce esibendola pubblicamente, quasi a voler sottolineare una valenza catartica dell’opera. Il 27 giugno realizza Rimbalzare al Festival di Spoleto, invitato da Giovanni Carandente: Cintoli riempie una grande cupola di palloni, che la gente avrebbe dovuto far rimbalzare per le strade della cittadina. Ma il risultato è opposto: dopo poco tempo le persone fanno scoppiare i palloni, e l’operazione viene sospesa. Il 15 dicembre dello stesso anno L’Attico ospita Colare colore: una colata di colore su una parete, che ricorda le esperienze dell’Action Painting di Jackson Pollock , Robert Motherwell e Kline.
Dov’è il confine tra arte e vita?
L’ energia proteiforme di Cintoli si consuma in una vis creativa senza limiti né confini, descritta in maniera illuminante da Vittorio Rubiu, in un articolo uscito sul Corriere della Sera il 3 maggio 1970: “In questi ultimi due anni Cintoli ha dato le sue prove migliori in mostre che si risolvono in oggetti ma che prima di essere oggetti vogliono essere qualcosa come un’azione, un avvenimento, un modello di comportamento”. Di nuovo l’artista si trova sul confine del doppio, in quella condizione di ambiguità che caratterizza la sua intera esistenza. E ora, dopo un percorso che lo ha portato inizialmente alla rappresentazione della libertà attraverso una pittura in bilico tra materia e colore, poi alla realizzazione di azioni che prevedevano una partecipazione collettiva ai diversi momenti del vivere quotidiano, l’artista imbocca la strada che porta alla sofferenza fisica come annientamento del proprio corpo, per farlo rinascere sotto il segno dell’arte. Così, dopo essersi reso conto di non poter realmente trasformare l’opera in un rito collettivo, Cintoli sceglie di sorprendere il pubblico con l’esibizione simbolica e fisica del proprio corpo con Crisalide, l’azione presentata il 1° dicembre 1972 su invito di Graziella Lonardi Buontempo a Palazzo Taverna di Roma, sede degli Incontri Internazionali d’Arte nell’ambito della rassegna “Mappa 72” curata da Achille Bonito Oliva. Una performance estrema e dolorosa che viene così descritta dall’artista: “Sarò chiuso in un sacco sospeso a un muro, muovendomi dentro in modo che il sacco assuma posizioni sempre diverse; poi lo forerò pian piano per uscirne, come in una rinascita”.
Dare corpo a incidenti onirici
Gli ultimi cinque anni della vita artistica di Cintoli costituiscono un sostanziale ripensamento della sua intera attività precedente, attraverso la creazione di Marcanciel Stuprò, un alter ego di matrice surrealista derivato da un gioco di parole provocato da un invito a una mostra collettiva dedicata a Marcel Proust. Dopo aver messo in scena il rito della rinascita con Crisalide, l’artista intraprende un percorso totalmente libero, dominato da un dialogo tra vita e morte, che si sviluppa attraverso un eclettismo vitale e disperato. Grazie a Marcanciel, Cintoli torna alla pittura e realizza una serie di dipinti di grandi dimensioni, che rappresentano oggetti e temi concettualmente legati a questa fase di rinascita, come Uovo (1976-77), Mezz’anguria (1976-77) ma soprattutto Nido (1977). Soggetti apparentemente naturalistici, ma in realtà ispirati alla tensione tra realtà e simbolo, superficie e profondità, dove le uova di struzzo si trasformano in allucinanti paesaggi lunari, le angurie spaccate si fanno metafore del sesso femminile, e il grande nido rotondo rivela, nello spasmodico dibattersi dei volatili appena nati, il dramma primigenio della lotta per la sopravvivenza. Un dramma che si carica di significati arcani ed esoterici con Aceldama/Campo di Sangue (1975), una via crucis pagana composta da 14 tavole che recano incise frasi delle Sacre Scritture abbinate a immagini che mostrano una sorta di rito sacrificale e propiziatorio, dove il sangue mestruale scorre sul volto dell’artista. Un’opera fondamentale per comprendere la fase finale dell’avventura di Cintoli, che si avvicina alle esperienze brutali e disperate dell’Azionismo viennese e in particolare ai riti orgiastici di Hermann Nitsch, ricondotti però a una dimensione privata e domestica, espressa quasi in forma di testamento fisico e spirituale. Esposta per la prima volta alla Galleria Schema di Firenze nel novembre del 1975 e altre tre volte nel 1977 (pochi mesi prima della morte dell’artista, scomparso nel marzo del 1978), Aceldama si rivela oggi come tappa imprescindibile all’interno della sua attività. Si tratta di una sorta di discesa agli inferi di un artista aperto a cogliere le novità di un tempo frammentato e incandescente, e a viverle nella sua dimensione onirica ed estrema, fino alla morte.