Nel numero estivo del 1987, sezione “A Critic Looks At A Critic”, Kay Larson pubblicava su Artforum un lungo articolo intitolato The Dictatorship of Clement Greenberg, nel quale la critica americana imputava a Clement Greenberg una pesante serie di capi d’accusa, tra i quali quelli di aver provocato “la morte della pittura nei tardi anni Sessanta, la paralisi ideologica dell’arte nei primi Settanta e la successiva rivolta dei postmodernisti”. Gli artisti, proseguiva Larson, consapevolmente o no, “gravitano ancora attorno alle idee di Greenberg, che hanno dominato tutto il discorso critico sull’arte da quando vivo e che per troppo a lungo hanno avuto l’autorità di proposizioni a priori, al di fuori delle quali ogni altra legittima formulazione, possibilità e opzione, è stata bandita e considerata inaccettabile”. Tali affermazioni, molto simili a un’autentica damnatio memoriae indirizzata a un Greenberg ancora vivo, segnalavano venti anni fa la presenza sulla scena critica americana di una ferita ancora non rimarginata.
Cosa era successo realmente?
oblio e contraddizioni
Chi voglia oggi riaccostarsi all’opera di Greenberg, deve confrontarsi necessariamente con una molteplicità di ostacoli pregiudiziali, diversificati ma compatti su entrambe le sponde dell’Atlantico. Se, come emerge dalle parole sopracitate di Larson e come avremo modo di vedere più avanti, Greenberg negli Stati Uniti è un tabù tuttora non rimosso, in Europa, e in particolare in Italia, dove la sua opera è completamente assente dal mercato editoriale, il critico americano è quasi del tutto sconosciuto. Si è detto e scritto più volte come Greenberg sia un autore troppo americano e concettualmente troppo lontano dalla cultura del Vecchio Continente per destare interesse nel lettore europeo. Tale argomentazione, tuttavia, è ampiamente estranea da una corretta ermeneutica degli scritti e del pensiero di Greenberg. A una lettura contestuale, il complesso dettato greenberghiano dimostra infatti di dover esser scandagliato alla luce di tutti i riferimenti filosofici continentali di cui è colmo, kantiani soprattutto, senza la cui comprensione i suoi passaggi logici risulterebbero spesso arbitrari e di difficile intelligibilità. La pubblicazione dei “Collected Essays”, terminata nel corso degli anni Novanta dalla University of Chicago Press, così come la recente edizione dei “Late Writings” della University of Minnesota, rivelano un autore non solo debitore della grande tradizione dell’illuminismo europeo, ma anche straordinariamente attento alla tradizione critico-filosofica italiana, da Benedetto Croce a Lionello Venturi, sino a una figura come Paolo Milano, contemporaneo di Greenberg e critico letterario dell’Espresso.
avanguardia e kitsch
Nel 1939, Clement Greenberg, trentenne, dipendente pubblico nel Dipartimento vini e liquori presso il Customs Service del porto di New York, è a tempo perso uno scrittore autodidatta, ambizioso e di vastissime letture. Si muove negli ambienti radical della cultura newyorkese, pubblica alcune traduzioni e frequenta i redattori di Partisan Review. Sino ai primi anni Cinquanta, tale pubblicazione, che spazia dalla letteratura, all’arte e alla musica, è la rivista di riferimento di tutta la cultura marxista del gruppo dei New York Intellectuals. In essa, accanto all’analisi dell’opera di Marx, trovano spazio altri autori, come Trotsky, invitato a pubblicare sulle sue pagine insieme al meglio del milieu intellettuale newyorkese tra i Trenta e i Quaranta. Tra gli altri, Hannah Arendt, Saul Bellow, Bernard Malamud e James Baldwin sono collaboratori regolari delle pubblicazioni. All’inizio del 1939 Dwight MacDonald, direttore di Partisan Review e amico di Greenberg, invita il giovane critico a pubblicare un articolo sulla rivista. Il pezzo uscirà nell’autunno dello stesso anno con il titolo Avant-Garde and Kitsch, destinato a cambiare completamente la carriera di Greenberg, che in pochi mesi diverrà editor della rivista, e al tempo stesso la storia della critica d’arte americana.
In Avant-Garde and Kitsch Greenberg poneva in termini diretti e immediati il problema della cultura moderna occidentale, separata in due filoni completamente diversi tra loro: da un lato quello della cultura alta, rappresentata dalla poesia di Thomas Stearn Eliot, dalla scrittura di James Joyce e dalla pittura di Georges Braque e Pablo Picasso, giunta alle soglie dell’astrazione; dall’altro quello della cultura borghese, fatta di riviste domenicali patinate, pitture a olio convenzionali e film hollywoodiani. La prima è la cultura dell’avanguardia, votata a una sperimentazione finalizzata al mantenimento del livello più alto dell’arte in tutte le sue manifestazioni. Nell’argomentazione di Greenberg la durezza algida e severa dell’avanguardia, esclusivamente interessata ai contenuti formali e ai canoni estetici dell’arte, è la strategia di difesa opposta alla minaccia radicale rappresentata dall’accademismo borghese e dalla cultura del kitsch, tutta appiattita sulla facile accessibilità dei contenuti. Tra i primissimi a utilizzare questo termine tedesco negli anni Trenta, Greenberg definisce kitsch il simulacro vicario e degradato della vera cultura, interessato a “simulare il sapore della grande arte”. Prodotto sostitutivo meccanizzato e sintetico, il kitsch diluisce e annacqua gli esiti della cultura avanguardistica, dandoli in pasto alle masse con metodologia industriale. In tal modo, la fatica e lo sforzo di comprensione richiesti dalla vera arte vengono pericolosamente accantonati a favore di “sensazioni ingannevoli e spurie”, generate da contenuti puramente d’evasione. “Tutto il kitsch è accademico e tutto ciò che è accademico è kitsch”, scrive Greenberg, segnalando la difficoltà di resistere alle sirene del falso e dell’inganno propagandate con tanta efficacia dai ricchi promotori del kitsch. Nella serrata analisi di Avant-Garde and Kitsch, questa cultura mercificata diviene lo strumento privilegiato dalle politiche fasciste per esercitare il controllo popolare, in ragione della sua completa duttilità a veicolare contenuti politici di asservimento e controllo mascherati da intrattenimento elegante e raffinato. Hitler, Mussolini e Stalin rinunciano alla cultura avanguardistica d’élite anche quando questa è favorevole al regime, per privilegiare la lusinga delle masse, mettendo loro in mano cocktail culturali di immediata assimilazione e di sicura fabbricazione industriale.
Questo articolo riassume in nuce molte tesi del Greenberg maturo, adombrando con intuitiva preveggenza la prossima venuta dell’Espressionismo astratto americano, nuovo culmine del Modernismo, della cui scossa vivificatrice Avant-garde and Kitsch sembra già contenere l’esaltazione e la difesa.
modernist painting
È in questo omonimo e breve saggio, pubblicato nel 1960 e composto con l’autorevolezza di un testo giuridico, che Greenberg dà la formulazione più icastica e definitiva a tutta la sua teoria del Modernismo. Per Greenberg il Modernismo (da intendersi come sinonimo di avanguardia), rappresenta senza distinzioni di genere tutto ciò che di più vivo e alto è stato prodotto dalla cultura occidentale. Non è dunque un movimento consapevole o un manifesto teorico, ma una tendenza (tropism) radicata nella cultura occidentale moderna a riflettere autocriticamente sulla natura delle arti e delle loro possibilità. Non c’è Modernismo senza autocritica radicale. Greenberg si rivela in questo un lettore creativamente acuto dell’opera di Immanuel Kant, da lui definito il primo modernista e la cui filosofia critica gli offre un eccellente apparato metodologico per poter fondare saldamente la volontà di verificare la legittimità delle pretese formali di ogni tipo di arte. Come Kant nella Critica della ragion pura pone la ragione stessa a soggetto attivo della critica, in quanto capace di operare autonomamente la critica dei propri fondamenti (cosa posso conoscere?), Greenberg mutua direttamente tale metodo, applicandolo alle pretese delle singole discipline artistiche, per domandarsi specificamente cosa esse possano fare, quali strumenti le siano legittimamente propri e quali no. Ciò significa dimostrare cosa è unico e determinante in ogni tipo di arte, distillandone mezzi, funzioni e competenze, in un’innovativa ripresa del tribunale della ragione kantiano. Nelle parole di Greenberg, “l’opera d’arte deve cercare di evitare la dipendenza da qualsiasi esperienza che non sia insita nella più letterale ed essenziale natura del suo mezzo”. Si tratta quindi di eliminare da ogni arte tutti quegli effetti che non sono suoi propri, ma possono essere presi a prestito dai mezzi di altre arti.
In questo processo di autodefinizione critica del Modernismo, Greenberg si focalizza soprattutto sulla pittura, di cui intende salvaguardare la piattezza della superficie (flatness), in quanto dato formale unico ed esclusivo di questa disciplina (a differenza ad esempio del teatro, della scultura e della danza che hanno priorità di natura tridimensionale). Per Greenberg, in ambito pittorico occorre evidenziare in termini espliciti l’integrità del piano pittorico (integrity of picture plane), abbandonando la rappresentazione dello spazio, in modo da rendere lo spettatore consapevole della piattezza del quadro prima di ogni suo possibile contenuto. Al di qua di ogni illusione narrativa, si vedrà così l’oggetto quadro nella sua nuda letteralità bidimensionale. L’empirismo di Greenberg fa dunque coincidere la pittura con la concretezza delle convenzioni tecniche che la costituiscono. La flatness non è pertanto solo ciò a cui tende il Modernismo, ma è soprattutto l’irriducibile essenza della pittura, sino a poter affermare che “una tela tirata e intelaiata esiste già come pittura”.
In conseguenza diretta di tale radicale riduzionismo formale, l’astrazione si rivela per Greenberg momento necessario nell’atteggiamento autocritico della pittura. Non si possono più rappresentare oggetti o entità riconoscibili, che nella loro natura tridimensionale alienerebbero subito lo statuto bidimensionale della tela. Decade così il palcoscenico tridimensionale che per secoli aveva consentito all’artista di “scavare” una profondità immaginaria all’interno del quadro. L’arte astratta rompe definitivamente con tale canone dell’illusionismo proprio della pittura da cavalletto tradizionale (easel painting), sino ad arrivare nell’opera dei nuovi americani a una flatness radicale, azzerata sulla superficie uniforme e decentralizzata della tela, ormai molto più simile a un rettangolo di colore uniformemente strutturato che a una narrazione visiva. Il Modernismo dell’astrazione eclissa così il quadro come “arena di un evento” (secondo la celebre affermazione di Harold Rosenberg) e rifugge dal coinvolgimento emotivo dell’immedesimazione, privilegiando una superficie letterale e tautologica, che istruisce sulla viva concretezza dei propri codici e immette in un piacere disinteressato.
Questo complesso quadro teorico pone Greenberg in evidente continuità storica con il progetto estetico dei pionieri fondatori del Modernismo, da Loos a Wright a Le Corbusier. Così come i pionieri modernisti volevano infatti che design, arte e architettura perdessero ogni valenza decorativo-celebrativa per votarsi esclusivamente alla funzione, anche Greenberg vuole restituire “funzionalità” alla pittura e alla scultura, rendendo queste consapevoli della letteralità dei loro mezzi. Il decorativismo che Greenberg avversa è appunto quello della easel painting, della maniera tridimensionale e illusionista. Il funzionalismo della letteralità e dell’essenza può essere conseguito esclusivamente dalla flatness, dalla messa in evidenza degli strumenti propri, “essenzialmente interpretati”, della pittura. In tal modo, la continuità storica tra il Modernismo di inizio Novecento e quello greenberghiano risulta palese e illuminante.
Tutte queste affermazioni teoretiche, ribadite frammentariamente da Greenberg in una molteplicità di altri articoli precedenti e successivi a Modernist Painting, rendono ragione del suo impegno militante dagli anni Quaranta in poi, che lo vedono operare per un intero decennio, in grande solitudine, come difensore veemente della prima generazione di espressionisti astratti newyorkesi. Si tratta di artisti che il giovane Greenberg conosce e frequenta assiduamente nei loro studi, come Arshile Gorky, Hans Hofmann e Willem de Kooning, ma soprattutto Jackson Pollock, il nome a cui sono indissolubilmente legate le fortune critiche di Greenberg. Di contro al disinteresse dei curatori museali in cui operano questi artisti e alle saltuarie condanne che le loro opere ricevono dalla critica, Greenberg argomenta nelle sue recensioni come i dripping di Pollock e le superfici fluttuanti di Gorky siano da leggersi in fluida continuità con la linea antiscultorea del Modernismo ottocentesco, che dalla tradizione figurativa di Cézanne e degli impressionisti conduce sino al Cubismo analitico di Picasso.
modernismo e tradizione
Il Modernismo non è dunque una rottura con la tradizione ma è al contrario animato dalla volontà di ribadire l’importanza dell’avanguardia passata, tenendone alti i livelli artistici conseguiti, nell’interesse esclusivo dell’arte (art for art’s sake). Questo è uno degli aspetti teoricamente più interessanti e meno noti di Greenberg, la cui opera è interamente attraversata dall’interesse per la definizione epistemologica del concetto di avanguardia. L’avanguardia, secondo Greenberg, pur nella sua essenziale volontà di sperimentazione, non mira in termini rivoluzionari al futuro, bensì al passato, in un movimento al tempo stesso retroattivo e innovativo. In sorprendente sintonia con le coeve riflessioni americane di Theodor Adorno, Greenberg argomenta infatti come l’avanguardia sia la forma dinamica che la tradizione assume quando tenta di salvaguardare la qualità più alta dell’arte del passato, resistendo a ogni spinta dissolutiva. Così l’arte d’avanguardia opera in costante sintonia con la tradizione da cui proviene, in una dialettica di aspettative e sorprese. Il gusto più sofisticato è per Greenberg quello che richiede l’esplorazione di nuovi confini, e che di conseguenza è pronto ad aggiornare le proprie aspettative, traendo soddisfazione e sorpresa dai rivolgimenti linguistici, anche radicali, cui si trova ad assistere. L’arte maggiore procede così nel quadro di aspettative che evolvono per rilancio le une dalle altre. Secondo Greenberg solo gli artisti migliori sanno rispondere a questo tipo di sfida, che comporta innanzitutto la capacità di aver assimilato e compreso le migliori esperienze dell’avanguardia immediatamente precedente. Per Greenberg, infatti, influenzato dalle riflessioni di Lionello Venturi, “la sorpresa richiede contesto”, tanto che l’avanguardia modernista evolve fluidamente verso il nuovo solo se capace di distillare la più alta qualità estetica del passato, per riprodurne forme e linguaggi, “non imitando ma emulando”, nel segno di un’innovazione e di un rinnovamento continuo: “devolution, not revolution”. Questo movimento ciclico proprio del Modernismo, scrive Greenberg, è sorto come risposta a una crisi, rappresentata “dall’arte e dal gusto dei filistei”. Greenberg non è qui fautore di un elitismo sterilmente snobistico, ma al contrario è cosciente di come nella modernità avanzata i confini tra l’alta qualità e il kitsch siano fragilissimi, affidati alla sensibilità dell’esperienza personale, tanto che il rischio per l’arte non è rappresentato dalla cultura lowbrow, quella piccolo-borghese, innocente nella sua assoluta puerilità, ma dall’infiltrazione del gusto middlebrow, quello organico alla nuova middle class (secondo Greenberg interessata alla cultura per motivi meramente speculativi), capace di “montare trappole nelle riserve della cultura autentica”. Infatti il kitsch è capace di raffinarsi e mascherarsi da avanguardia “ingannando e operando su livelli diversi, pericolosi anche per il cercatore dei veri lumi”. Anche grandi artisti e scrittori possono cedere alla tentazione degli enormi profitti garantiti dalla diffusione di massa del kitsch, disinnescando l’avanguardia sino a farne svaporare standard e risultati qualitativi. Compaiono così “casi sconcertanti”, scrive Greenberg, “come quelli degli scrittori Simenon in Francia e Steinbeck nel nostro paese. Il risultato è sempre lo stesso, a scapito della cultura autentica”. Come già evidente dall’articolo d’esordio del 1939, la lotta tra kitsch e avanguardia è per Greenberg il vero scontro culturale del Novecento, un conflitto spietato che contrappone entertainment e ricerca, e dal cui esito dipende l’incerto futuro dell’arte. In tale frangente il Modernismo è l’unica risposta possibile da parte della vera arte, una sorta di farmakon platonico capace di sviluppare gli anticorpi contro la formidabile minaccia che viene dal gusto della nuova classe media, garantendo l’indipendenza dell’esperienza estetica.
giudizi estetici e intuizione
Ma cosa intende Greenberg con “alti valori estetici”? Da cosa è dato il confine tra alta e bassa qualità nell’arte? L’argomentazione di Greenberg in tale frangente rivela ancora una volta la solidità delle sue letture filosofiche, questa volta ben ripartite tra il nuovo pragmatismo americano e la tradizione continentale moderna. Greenberg ritiene che i giudizi estetici siano contenuti solo nell’esperienza immediata dell’arte e coincidano con essa come dati di evidenza intuitiva diretta. Così, ogni argomentazione a favore di un’oggettività a priori del gusto, precedente l’esperienza e deducibile in termini analitico-razionali, è destinata a rivelarsi fallimentare. Ancora una volta Greenberg trova appoggio e conferma in Kant, che nella sua Critica del Giudizio dimostra come l’universalità del giudizio estetico non abbia fondamento oggettivo, non potendo infatti determinare un accordo universale. Ma proprio l’impossibilità di trovare regole e giudizi a priori per definire la differenza tra grande arte e arte minore, costituisce per Greenberg “uno degli aspetti più affascinanti dell’arte, in quanto bisogna scoprire da sé i suoi criteri di qualità”. L’arte diventa così solo un fatto di intuizione ed esperienza individuale, e il consenso che si raccoglie nel tempo attorno ai valori più alti conferma l’oggettività del gusto solo come processo storico graduale, che non può essere compresso in un breve incontro con l’opera. Greenberg si richiama qui, con indiretta evidenza, all’estetica di John Dewey, promuovendo un avvicinamento all’arte dove non contino i principi, ma il dialogo continuativo con l’opera e la consapevolezza del radicamento di questa nell’esperienza quotidiana. Anche l’attività della critica d’arte può evolvere esclusivamente tramite la reiterazione dell’incontro e dell’esperienza con l’opera, proponendo giudizi e valori, mentre non può fare passi avanti con la sola riflessione teorica. Il processo critico è dunque ricondotto da Greenberg a una forma di esperienza diretta. Proprio tale radicale riduzione alla concretezza esperienziale induce Greenberg a responsabilizzare maggiormente l’esercizio critico e il suo obbligo di valutazione, sino ad affermare che “i giudizi di valore sono per me più interessanti delle interpretazioni. Solo i giudizi di valore sono veramente cruciali”.
description, not prescription
La possibilità di interpretare la teoria modernista greenberghiana come una cura farmacologica contrapposta al virus degradante del kitsch, impone la necessità di chiarire il quadro storico di tale dibattito. Negli anni Sessanta l’autorità critica di Greenberg è al suo apice, tutti gli artisti per i quali si è battuto negli anni precedenti, da quelli della prima generazione di espressionisti astratti sino al gruppo della Post Painterly Abstraction (come Morris Louis, Kenneth Noland, Frank Stella) sono entrati nelle maggiori collezioni museali statunitensi. Anche il Dipartimento di Stato Americano, convintosi dell’importanza dell’avanguardia americana, dopo anni di sospetti sull’orientamento di sinistra della stessa, decide di promuovere una serie di iniziative ed esposizioni all’estero. L’intuizione politica del valore culturale della pittura newyorkese si lega alla necessità di individuare una figura critica autorevole, capace di seguire il progetto e viaggiare come ambasciatore dell’arte americana all’estero. La scelta non può che cadere su Greenberg, che intraprende viaggi ufficiali dal Giappone all’India all’Europa, incontrando ministri e tenendo lecture in svariate università. In un tale contesto, soprattutto a New York, la pressione sugli artisti è alta, tanto che almeno per la prima metà degli anni Sessanta sono in molti a prendere alla lettera le argomentazioni critiche di Greenberg, interpretandole come regole ferree da seguire per chiunque voglia accostarsi alla pratica della pittura. Contemporaneamente, nel 1961, Greenberg pubblica una sintetica antologia dei suoi scritti, Art and Culture, recepita immediatamente come un organon estetico dogmatico e vincolante. Eppure, in tutti i suoi testi e le sue interviste, Greenberg non si stanca di ripetere più volte come ciò che egli scrive riguardo al Modernismo non abbia alcuna natura prescrittiva verso gli artisti e il loro lavoro, ma solo descrittiva, come analisi di un processo storico ancora in evoluzione. La scrittura critica intesa come analisi e discernimento, dunque, in piena distanza da ogni volontà di perorazione. Su questo equivoco irrisolto si gioca tutt’ora, soprattutto negli Stati Uniti, la difficoltà a riconoscere il valore teorico dell’opera di Greenberg, messa all’indice come prodotto intimidatorio di un critico interessato solo a costringere e omologare il lavoro degli artisti alle proprie convinzioni, in modo da poter esercitare un magistero critico chiuso e inattaccabile.
Da qui le accuse di Kay Larson, secondo cui l’arte americana degli anni Cinquanta e Sessanta ha visto estinguersi molte strade e molte possibilità semplicemente perché non conformi alla presunta ortodossia dogmatica del pensiero greenberghiano. Tali contestazioni, nella loro perentoria rigidità, appaiono oggi al lettore europeo difficilmente condivisibili. L’impressione, segnalata da Florence Rubenfeld nella sua biografia Clement Greenberg. A Life (2004), è che ancora oggi ci si limiti a leggere Art and Culture, antologia di soli 37 testi, mentre il corpus completo delle opere di Greenberg ammonta a oltre 300 scritti, di cui Art and Culture non offre dunque che un decimo, spesso non esemplarmente rappresentativo (manca ad esempio Modernist Painting). Si è così sedimentata nel corso del tempo una conoscenza di pochi passaggi dei testi di Greenberg, decontestualizzati e semplificati come slogan, senza addentrarsi nella “fatica del concetto” a cui necessariamente costringono le sue pagine argomentative. D’altro canto, nella sua introduzione ai “Late Writings” (2003) greenberghiani, Robert C. Morgan sottolinea come ancora oggi la critica americana non sia riuscita a separare e distinguere gli attacchi portati contro la teoria modernista di Greenberg da quelli scagliati contro la sua persona.
duchamp e il veleno postmodernista
Per due volte nell’arco della sua carriera, Greenberg dimostra all’establishment culturale americano di aver intuito e promosso sul nascere le direzioni più mature e innovative dell’arte statunitense, celebrando prima di ogni altro due diverse generazioni di scuole pittoriche, da quella dell’Espressionismo astratto a quella successiva della Post Painterly Abstraction, indirizzata verso una monocromia di tipo geometrico.
Quando durante gli anni Sessanta compaiono nuove tendenze e prospettive, come la Pop e la Minimal Art, dando l’avvio a manifestazioni artistiche che iniziano ad allontanarsi dal dualismo tradizionale pittura-scultura, Greenberg reagisce con durezza, rifiutando di attribuire credito e valore innovativo a tali movimenti. Per Greenberg, Pop e Minimal non rappresentano alcuna sfida per la categoria del gusto e non raggiungono dignità di episodi rilevanti all’interno della storia dell’arte. Nei suoi scritti, entrambi vengono liquidati come manifestazioni accademicamente ludiche e convenzionali, lontane dalle sfide avanzate dalla grande arte e riconducibili piuttosto all’intrattenimento facile e soft della cultura del rock. Come quest’ultimo, Pop e Minimal hanno infatti raggiunto immediato successo, dimostrando così la loro lontananza dalle necessarie difficoltà della vera avanguardia, che ottiene riconoscimento e affermazione solo dopo decorsi storici lunghi e difficoltosi.
Più in generale, dalla metà degli anni Sessanta in poi, Greenberg si rivela un fiero avversario di tutta la temperie culturale postmodernista che inizia a farsi sentire anche negli Stati Uniti.
Greenberg rifiuta radicalmente di accettare il Postmodernismo come un modello teorico legittimo, ritenendolo una teoria accademica sorta per giustificare la mediocrità di contenuti e ambizioni, così come l’incapacità di affermare giudizi di valore. Postmoderna, di conseguenza, è l’arte che non vuole più essere autocritica. Non potrebbe dunque essere più allarmato lo strale di Greenberg contro una forma di pensiero che professa teoricamente il disinteresse per i giudizi di valore, la rinuncia alla riflessione sui canoni del proprio agire e l’indifferenza verso la preservazione della pura qualità estetica, tentando così di disarticolare alle fondamenta l’intera ontologia modernista. Questo persuasivo e potente colpo di coda accademico, ultima manifestazione della cultura del kitsch, è tanto più pericoloso in quanto le sue radici, secondo Greenberg, partono da lontano. Per comprendere cosa questo significhi è necessario muovere da un’intuizione decisiva che attraversa gli scritti di Greenberg, quella cioè che vi sia un rapporto di filiazione preciso e diretto tra l’opera di Marcel Duchamp e il Postmodernismo, entrambi definiti come prodotti della “cultura del rilassamento”. Bersagliato come vero nemico del Modernismo, Duchamp sarebbe per Greenberg il principale artefice dell’avant-gardism, versione popolare e degradata della vera avanguardia.
Il pericolo di Duchamp è assimilato da Greenberg a quello delle pratiche concettuali che esplorano l’arte esclusivamente come linguaggio, mettendo da parte gli interessi visivi per la forma e privilegiando invece il processo dialettico di pensiero tra l’immagine e la sua controparte linguistica. I tentativi di natura concettuale mettono in crisi l’idea e la definizione stessa di arte come oggetto fisico, scegliendo di considerare gli oggetti solo attraverso l’appropriazione. Ma per Greenberg il compito dell’arte non è di estendere i limiti di ciò che è considerato arte, come vorrebbe Duchamp, bensì solo di aumentare il bagaglio di ciò che è considerata l’arte migliore. Questo è ciò che significa espandere positivamente i limiti dell’arte per l’avanguardia modernista. Il centro della questione rimane, ancora una volta, la qualità: rafforzare cioè la capacità dell’arte di colpire chi la guarda. Ciò che Greenberg chiama la “formalizzazione in sé”, consistente nel porre un oggetto in un contesto artistico, conferendogli nuova natura e identità, non può fare ciò e rimane nella migliore delle ipotesi una dimostrazione culturalmente interessante, ma priva di effetti rilevanti per l’arte. Proprio tale volontà appropriativa, svincolata dal problema della qualità artistica, è secondo Greenberg il veleno che Duchamp ha trasmesso e inoculato alla cultura postmodernista, offrendole le basi teoriche per un “rilassamento” progressivo, che dopo la sua prima comparsa nel Dadaismo e nel Surrealismo risulta pienamente evidente nella Pop.
Nell’indistinzione tra high e low perseguita dalla Pop Art, Greenberg individua così un nuovo attacco agli standard superiori di qualità e al tempo stesso la riconferma della necessità per il Modernismo di rimanere una condizione necessaria all’arte migliore del presente. Ma è evidente come il rifiuto di accettare le avanguardie degli anni Sessanta riveli tutte le difficoltà di Greenberg a uscire da un contesto estetico occidentale e a muoversi al di fuori dei parametri del Modernismo. D’altronde, come sottolinea R.C. Morgan, Greenberg sembra completamente sottostimare il fatto che il Postmodernismo negli Stati Uniti sia sorto in buona misura proprio come reazione al suo canone critico, come tentativo cioè di smantellare pezzo per pezzo tutte le argomentazioni greenberghiane.
estetica e moralità
Uno dei punti più controversi nella storia della ricezione del pensiero di Greenberg è rappresentato dallo scandalo che vari interpreti e artisti continuano a rilevare nella radicale separatezza tra estetica e moralità che Greenberg ha sempre perseguito e ribadito. Da tale separazione si è voluta inferire una posizione di disimpegno radicale del pensiero modernista, accusato di essere tra i principali artefici della crisi morale dell’arte e della sua incapacità di saper entrare con autorevolezza nel cuore dei conflitti della contemporaneità. In effetti, come Greenberg ripeteva ancora nel 1983 e riportato negli atti della “Vancouver Conference-Modernism and Modernity” (2004), l’arte “non ha mai, in nessun modo, influenzato il corso delle vicende umane”. Tale affermazione, più volte citata, è stata letta da molti autori (tra cui Suzy Gablik nel suo Has Modernism Failed?, 1984-2004), come sentenza emblematica del nichilismo estetico del Modernismo, soprattutto greenberghiano, il quale, nella forma di un “arcipelago individualista”, avrebbe contaminato in termini distruttivi gli sviluppi successivi dell’arte americana.
In realtà non è difficile capovolgere tale interpretazione muovendo ancora una volta da una più attenta considerazione dei documenti critici di Greenberg.
Come precedentemente evidenziato, Greenberg riteneva che il Modernismo fosse sorto in risposta alla decadenza generata dal livellamento verso il basso dei valori culturali dalla seconda metà del XIX secolo in poi. Le arti visive, nella sua analisi, erano state più capaci di altre a intuire la portata del pericolo, generando per tempo gli anticorpi necessari alla resistenza e alla salvaguardia dei valori estetici più alti, anche a costo del loro isolamento. In questo senso secondo Greenberg l’avanguardia modernista è una forma autentica di dissenso, anche politico, capace di opporsi strenuamente al degrado imposto dal kitsch e dall’arte middlebrow. L’affermazione “Art For Art’s Sake” (arte per l’arte) diventa così il vessillo di resistenza innalzato dal farmakon modernista per difendere il valore dell’arte da un’erosione che appare sempre più inevitabile. La dichiarata influenza del pensiero del declino di Oswald Spengler in tale concezione greenberghiana, si accompagna così alla convinzione che non sia compito dell’arte intervenire in ambito di critica sociale, ma solo nell’ambito del suo terreno, quello estetico, fatto di qualità formali e di progressi estetici successivi. Ancora una volta il criticismo di Greenberg ritiene necessario tenere separati ambiti e pertinenze, distinguendo radicalmente estetica e moralità, nella convinzione che l’arte sia un valore in sé, non strumentalizzabile verso alcun fine, e che pertanto debba giustificare la sua esistenza solo in base ai risultati qualitativi che è in grado di offrire nel presente del suo farsi: “Dire che l’unico proposito proprio dell’arte è il piacere estetico non è denigrarla, perché l’arte non ha bisogno di alcuna giustificazione al di fuori di sé”.
È pienamente evidente come ogni riflessione contemporanea sul Modernismo, in termini di rivisitazione critica o riappropriazione, non possa prescindere dal corpus degli scritti greenberghiani. Eludere l’attenzione dall’elaborazione teorica di Greenberg significa infatti dimenticare la voce più autorevole di tutta la critica americana del Novecento. D’altronde, semplificare o misconoscere il senso e la risonanza della teoria modernista, così come formulata nell’opera di Greenberg, non può che generare gravi miopie e inesattezze nella valutazione storica e concettuale di cosa il Modernismo sia stato e cosa ancora possa essere. L’impressione è che dalla sponda europea possano giungere oggi i contributi più interessanti alla rivalutazione di Greenberg, secondo quanto già suggeriva il belga Thierry De Duve nel suo volume monografico Between The Lines (1996), argomentando come sia giunto il momento di riprendere a leggere i testi del critico americano in piena libertà e senza pregiudizi, considerando ormai archiviati i tempi del suo rifiuto.