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7 Luglio 2017, 3:01 pm CET

Collateral di Paola Noè

di Paola Noè 7 Luglio 2017
Liam Gillick & Philippe Parreno "Briannnnnn & Ferryyyyyy" (2004). Courtesy Air de Paris, Parigi.
Liam Gillick & Philippe Parreno "Briannnnnn & Ferryyyyyy" (2004). Courtesy Air de Paris, Parigi.
Liam Gillick & Philippe Parreno “Briannnnnn & Ferryyyyyy” (2004). Courtesy Air de Paris, Parigi.

“Collateral – Quando l’arte guarda al cinema”, a cura di Adelina von Fürstenberg, rilancia l’ormai consumato, ma mai risolto dialogo/confronto tra arte e cinema. Varcando la soglia dell’Hangar Bicocca, non ci si trova di fronte a uno schermo gigante, come vuole il cinema, bensì a un susseguirsi sparso di mini sale, “caverne” platoniche come le definisce la curatrice, secondo il progetto di Andreas Angelidakis, che ha curato l’allestimento. La più attuale (perché vera) spiegazione della necessità dell’arte di guardare al cinema — il cinema che fa arte è meno diffuso e gettonato — è di Pierre Bismuth, artista peraltro in mostra, nel suo testo La règle du jeu, pubblicato nel catalogo della mostra “Cinéma cinéma” allo Stedelijk van Abbemuseum di Eindhoven: “una specie di senso d’impotenza da parte della comunità artistica e un desiderio di riprendere importanza e potere sul terreno del rapporto con il grande pubblico”. L’arte sembra quindi avere nostalgia dello spettacolo del cinema e del suo impatto sul grande pubblico. Il lavoro di Bismuth The Jungle Book Project è un vero e proprio scacco operato contro le strategie di comunicazione: Mowgli, Baloo e i loro amici sono doppiati in altre lingue rispetto alla versione originale negando loro ogni possibilità di comunicazione. In questo caso, come in molti altri, non è sbagliato usare il termine “sfruttamento” da parte dell’arte nei confronti del cinema. Lo confessa l’artista francese, come lo confessano tanti altri, purtroppo non tutti in mostra. Sfruttamento dell’immagine, dell’autorialità, della narrativa, del pubblico, del linguaggio, della fruizione e dei materiali.

Runa Islam si rifà al cinema di Ingmar Bergman e alla capacità di rappresentare la psicologia di storie, personaggi e paesaggi nella videoinstallazione How Far to Fårö, l’isola del regista svedese e dei suoi film. Clemens von Wedemeyer si appropria dell’ultima sequenza dell’Eclisse di Antonioni, senza protagonisti, solo immagine e suono, e ne riproduce la modalità di sguardo-desolazione dei progetti abitativi della Germania Est. Sono 130 invece le fonti originali che compaiono in Kristall, Grand Prix Canal+ al Festival a Cannes lo scorso anno, di Christoph Girardet e Matthias Müller. Il gioco non sta nello svelamento dell’originale, bensì nella visione di una sorta di “metamelodramma” di personaggi in una galleria di specchi, avvolti da una composizione sviluppata per armonica a bicchieri che fa da colonna sonora. 400 spezzoni da documentari, film di fantascienza e altro compongono il collage di Dimitris Kozaris, Star Tricks, mentre in Inches Thomas Galler sovrappone le immagini tratte da La sottile linea rossa di Terrence Malick, alla voce di Al Pacino versione allenatore in Ogni maledetta domenica. Cory Arcangel con Colors interviene sulle 404 linee di colore del film omonimo di Dennis Hopper la cui durata viene portata a 33 giorni. Tempo e spazio cinematografici vengono ribaltati in Invisible Film di Melik Ohanian, film invisibile perché mostra un proiettore che proietta nel deserto il film censurato di Peter Watkins Punishment Park. Anche l’invisibile è cinema.

Hangar Bicocca, Milano.

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