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7 Luglio 2017, 3:02 pm CET

Rachel Whiteread di Marcello Smarrelli

di Marcello Smarrelli 7 Luglio 2017
Village (2006). Fotografia di Johnnie Shand Kyd.
Village (2006). Fotografia di Johnnie Shand Kyd.
Village (2006). Fotografia di Johnnie Shand Kyd.

Quella che sembra un’anomalia nell’opera realizzata da Rachel Whiteread in occasione della mostra al MADRE, si è rivelata invece un obiettivo preciso, desiderato e attentamente perseguito dall’artista. Abituati alle sue opere monumentali —House (1993), Monument (2001) — alla sua estetica minimale, alla presenza discreta del colore che appartiene quasi sempre alla materia, alla sua ricerca connotata da elementi sociali e antropologici, sottesa dalla sofisticata riflessione filosofica sul concetto di spazio e delle sue categorie di pieno e di vuoto, l’impatto con Village, la nuova installazione prodotta per la mostra, può risultare spiazzante. In una stanza collocata al pianterreno l’artista ha costruito un modello di agglomerato urbano composto da 53 case di bambola vuote e illuminate dall’interno, visibile anche da una finestra collocata al primo piano, che funziona come un affaccio panoramico. Preziosi oggetti artigianali acquistati dai rigattieri o sul più moderno sito di e-Bay, giocattoli che ci parlano di un mondo di valori passati, di serate trascorse in casa con la famiglia a fare lavoretti rilassanti, un’attività per cui gli inglesi hanno coniato anche un termine: pottering.

Se il tema della casa e degli oggetti che caratterizzano gli spazi domestici — sedie, librerie, materassi, porte — è sempre stato presente fin dai primi lavori, come documenta il percorso della mostra, il ready made è un elemento di novità, così come il ritorno a una dimensione del lavoro gestibile in proprio, senza interventi esterni che releghino l’apporto dell’artista alla sola fase progettuale. Un atteggiamento macroscopicamente evidente in Embankment (2005), dove migliaia di elementi modulari, corrispondenti a interni solidificati di altrettante scatole, erano stati assemblati in gigantesche composizioni per creare singolari paesaggi nei vertiginosi spazi della Turbine Hall alla Tate Modern di Londra. La suggestione ricevuta dall’artista dai resti delle case di Pompei ed Ercolano, già definite da Goethe più simili a modellini e a case di bambole che a vere case, e dal fascino del presepe napoletano, costituiscono il substrato storico e sociale di questo lavoro che si preannuncia, nelle intenzioni dell’artista, un work in progress suscettibile di evoluzioni e mutamenti. Il tono intimistico degli ultimi lavori si riscontra nella contemporanea mostra alla Galleria Lorcan O’Neill di Roma, realizzata con elementi di arredo che sostengono o contengono calchi di scatole di cartone — anche questi legati ad Embankment (2005) — eseguiti durante i due anni impiegati dall’artista per compiere il trasloco nella nuova casa e nel nuovo studio di Londra.

MADRE, Napoli, e Lorcan O’Neill, Roma.

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