Attraversando tematiche sulla razza e sulla mascolinità, la pratica multimediale di Shaun Leonardo espone e tenta di correggere le strutture di potere suprematiste bianche che opprimono e violano i corpi neri e marroni1. Sia nei lavori visivi che nelle performance l’artista rinuncia al trauma pornografico che ha per lungo tempo modellato i suoi soggetti, muovendosi verso la risoluzione del conflitto, il dialogo e l’empatia. Che si tratti di unire persone con visioni opposte sul controllo delle armi (Primitive Games, 2018), dirigere workshops di auto-difesa (I Can’t Breathe, 2014-2017), o essere l’educatore di un programma gestito da artisti per giovani coinvolti con il tribunale (Recess, 2017-in corso), il suo impegno nell’attivismo e nel sostegno della comunità è stato largamente acclamato.
L’osservatore come partecipante, volente o nolente, ma ad ogni modo complice, è sempre al centro di tutto ciò che fa Leonardo. La sua mostra itinerante “The Breath of Empty Space”, presenta disegni a carboncino che scompongono e riconfigurano – concettualmente e letteralmente – immagini largamente diffuse di violenza da parte della polizia – ad esempio ponendo in primo piano l’atto di guardare. Progettato per spingerci a considerare il ruolo dei media nel plasmare il modo in cui pensiamo, reagiamo, e ci comportiamo, il potere paradossale di tale immaginario – usato per alimentare lo spettacolo mediatico della morte di persone nere, così come le proteste storiche del Black Lives Matter della scorsa estate – è endemico di tale processo. E ne svela la sua stessa slealtà: un fatto particolarmente evidente quando lo scorso giugno il Cleveland Museum of Art, che avrebbe dovuto ospitare la mostra, l’ha cancellata a seguito di obiezioni da parte della comunità. Invece che coinvolgere gli interessati in una discussione produttiva con l’artista (la cui missione è proprio attivare conversazioni del genere) circa le reali intenzioni di quel lavoro, l’istituzione ha ceduto alla pressione. Quando MASS MoCA si è offerto di ospitare la mostra, mi sono seduta insieme a Leonardo per parlare del suo lavoro, e delle sue potenti e spinose implicazioni con l’ingiustizia sistemica.
Jane Ursula Harris: Il titolo della tua mostra “I Can’t Breathe”, richiama le ultime parole di Eric Garner, un grido di battaglia ora familiare nel movimento di protesta contro le brutalità della polizia. È anche una citazione tratta da Parable of the Madman (1882) di Frederich Nietzsche. Quanto è stato rilevante Nietzsche in questo lavoro, e come si collegano le due fonti?
Shaun Leonardo: Permettimi di iniziare con alcune parole di John Chaich, il curatore indipendente della mostra:
“In risposta all’uso concettuale e formale dello spazio negativo nel lavoro di Shaun, mi è tornato alla mente il passaggio di Nietzsche “Non sentiamo il respiro dello spazio vuoto”. Non ho potuto fare a meno anche di risentire le ultime parole di Eric Garner, “I cant’ breathe”, che ha proferito undici volte prima di morire, mentre veniva tenuto per il collo dall’agente Daniel Pantaleo. Mi sono ricordato della descrizione dell’accademico Stephen Kern di uno ‘spazio positivo negativo’ in cui ‘lo sfondo stesso è un elemento positivo di uguale importanza a tutti gli altri’. Kern ci indirizza alla sostanza in assenza di informazioni visive. Lo spazio vuoto in questi disegni – accentuato sfocando, riformulando e isolando le informazioni visive – viene attivato quando l’osservatore riempie gli spazi vuoti, riformula i dettagli e mescola le narrative sia sulla base dell’esperienza personale che delle percezioni instillate dai media e dai preconcetti culturali”.
La sua vera risonanza oggi, per me, sta nelle parole di George Floyd “I cant’ breathe”, mentre assistevamo a quella che sembrava la sua esecuzione – la vita che lentamente lasciava il suo corpo mentre lottava sotto il ginocchio dell’agente Derek Chauvin. La continua rilevanza di quella frase spezza il cuore, ma ricorda sia a me che all’osservatore che qui c’è una lunga tradizione di violenza della polizia, che si estende ben al di là del momento che stiamo vivendo. Spero che questa mostra tracci le interconnessioni tra queste tragedie – le stratificazioni di violenza sistemica che derivano tutte da come noi, in qualità di corpi neri e marroni, siamo visti e non visti.
JUH: Hai iniziato questo corpus di lavori come tentativo di elaborare la morte di Trayvon Martin nel 2012 in “termini personali… al di fuori del rumore dei media” che continua a sfruttare lo spettacolo visivo delle morti di persone nere con fini sensazionalistici. In che modo la scelta del carboncino come medium ti ha permesso di farlo?
SL: Il disegno mi permette una lotta lenta e contemplativa con l’immagine, e lo stesso direi che vale anche per l’osservatore. È nella deliberata e accurata realizzazione di un’immagine che assorbiamo le informazioni in modo diverso – in modi che l’immagine in movimento non offre. È l’atto stesso di disegnare che mi dà anche il tempo e lo spazio di prendere delle decisioni – il mio impiego è di natura additiva – allenando l’occhio dell’osservatore alle informazioni che altrimenti sarebbero perse o omesse dalla nostra visione selettiva. È la profondità del disegno – la densità del carboncino e il respiro dello spazio letteralmente scolpiti nell’immagine – che ci permette di avvicinarci al dolore, e dove il nostro sguardo si trasforma in testimonianza. Essere testimoni è dire a se stessi che l’immagine non ci lascerà. Essere testimoni impone che si cercherà la guarigione attraverso e non al di là della lotta. Significa interiorizzare in modo tale che la modalità in cui guardiamo e agiamo ogni giorno sia costantemente messa in dubbio.
JUH: Hai adottato un formato sequenziale che scompone le immagini di violenza della polizia in prima pagina in molteplici punti di vista – in particolare quelle che sono ripetutamente fatte circolare dai media (Rodney King che viene picchiato in strada, Eric Garner preso per il collo) –, che le ricostruisce e allo stesso tempo paradossalmente ne rifiuta letture lineari. È un tuo modo per opporti all’impatto della violenza mediata?
SL: Più che “oppormi” direi “interrogarmi”. C’è una correlazione diretta tra la selezione e la disseminazione di immagini dei media, i modi in cui riceviamo le stesse, e ciò che si forma quale memoria nella nostra coscienza collettiva. La distrazione e la velocità con cui siamo bombardati da cicli di notizie riducono queste tragedie a meri titoli giornalistici. Il disegno mi permette di lavorare contro questa riduzione e di mettere in dubbio il modo in cui siamo complici e compiacenti nel nostro modo di vedere.
Nel lavoro su Laquan McDonald, per esempio, che è composto da due disegni, vediamo prima – nella nebulosità dei filmati delle telecamere da cruscotto – la strada debolmente illuminata contornata da automobili di pattuglia e l’agente più vicino in posizione di mira. Nel secondo, vediamo Laquan McDonald con le mani lungo i fianchi, solo, in quello che potrebbe essere stato un corridoio di stelle. Lette insieme, con l’informazione di una scena separata in due inquadrature, percepiamo la distanza per cui era ritenuto una minaccia. Nella serie su Eric Garner, vediamo lo stesso fermo immagine ripetuto in sei disegni accostati, ognuno dei quali enfatizza tipologie diverse d’informazione.
JUH: E questo serve a rallentare la ricezione dell’osservatore?
SL: Esattamente. Un osservatore passa quindi del tempo guardando le vetrine o le strade alberate – uno spazio che era familiare al Signor Garner ma che diventa un’arena di violenza. Potremmo considerare la ragione per cui non ci siamo mai presi del tempo, del tempo vero, per studiare i gesti delle sue mani che ha compiuto nel tentativo di calmare gli agenti che fronteggiava. O chiederci se abbiamo mai veramente esaminato l’aggressività e le manovre di soffocamento degli agenti – la prima linea d’azione intrapresa non appena Eric Garner viene considerato una minaccia. Nel disegno di Rodney King vediamo l’iconico fermo immagine del suo pestaggio, ma con un vuoto che avrebbe dovuto occupare il suo corpo.
JUH: Come funziona per te quel vuoto?
SL: Come il rifiuto di presentare il suo corpo nero nel modo in cui siamo stati abituati a vederlo dai media… in uno stato punitivo. Il più delle volte quando ricordiamo quest’immagine, ci ricordiamo solamente dei due agenti che affrontano sul corpo con calci e manganelli. È allora un caso che, fino ad oggi, sui titoli in primo piano abbiamo letto solo dei quattro agenti accusati e poi assolti?
JUH: Cosa mi dici invece dell’uso di tinte scure specchianti nel lavoro?
SL: Quelle costringono l’osservatore non solo a guardare se stessi – implicando quello che era il nostro osservare passivo – ma richiamano anche esplicitamente al modo in cui, nella nostra memoria collettiva, liquidiamo, o forse dimentichiamo, il fatto che ci fossero undici agenti su quella scena e tutti hanno considerato Rodney King una minaccia anche mentre giaceva a terra quasi paralizzato. Tutti sarebbero dovuti essere ritenuti responsabili.
JUH: Stai forse rimproverando la nostra ossessione per la violenza, nonostante condanniamo la brutalità della polizia associata a queste morti?
SL: Beh, credo che il condannare duri poco, specialmente per molti cittadini bianchi. È in questa lenta, deliberata osservazione offerta da questi lavori che ci viene ricordato come in queste scene di omicidio, questi cittadini neri vengano resi meno umani molto prima che venga sparato il proiettile, prima della presa per il collo, o di agitare il manganello. È nell’informazione – guardata con velocità, commozione, e passività – che riconfiguro la percezione della paura del corpo nero che la polizia ha instillato nei propri corpi e nella psiche, che poi ci porta alla morte.
JUH: Quindi qual è il messaggio ultimo ai tuoi osservatori?
SL: È in ciò che scegliamo selettivamente di vedere e di non vedere nelle immagini e nei filmati che circolano nei media. Dimentichiamo che siamo diventati complici nel modo in cui ognuno di questi omicidi è statisticamente spazzato via, e anche compiacenti nel non voler affrontare le nostre stesse paure.
JUH: Intendi le nostre paure incontrollate dei corpi neri e marroni?
SL: Assolutamente. E per gli osservatori neri e marroni c’è un’altra offerta. Così come avevo ripetuto a me stesso quando guardavo negli occhi di Trayvon, dobbiamo avere il tempo e la pace di affrontare diversamente queste immagini di morte. Nel silenzio della testimonianza ci viene concesso lo spazio per interiorizzare queste immagini anche se ci feriscono. Sostengo che per guarire dobbiamo fare i conti con il trauma che alberga nei nostri corpi e nella nostra psiche. Queste immagini non se ne andranno mai.
JUH: Il tuo lavoro ha esplorato a lungo l’impatto devastante del patriarcato suprematista bianco sulle persone nere e marroni, in particolare la nozione di mascolinità, sia proiettata che interiorizzata. Puoi dirci di più su come questo corpus di lavori accresce quegli interessi?
SL: Mi riallaccio a quello che dicevo prima. Noi americani abbiamo appena iniziato ad analizzare come le nostre definizioni radicate di mascolinità nera e marrone si manifestino sotto un continuo controllo, contenimento e rimozione dei nostri corpi. Spendiamo così tanto tempo, per esempio, a discutere il protocollo o gli standard di sorveglianza che raramente valutiamo le paure degli agenti che inevitabilmente portano a ucciderci. È in questa mostra, ma anche nella mia pratica performativa e nel lavoro che conduco nella sfera della giustizia criminale, che spero di approcciare queste paure – per come sono imposte ai nostri corpi, o come vengono interiorizzate sin dalla giovane età, corrompendo il nostro senso del sé.
JUH: Nel video che documenta la tua eponima performance, The Eulogy, sempre in mostra, reciti il violento ma doloroso discorso del narratore anonimo nero di The Invisible Man di Ralph Ellison – un altro punto di riferimento letterario – al funerale del suo caro amico Fratello Tod Clifton, assassinato da un agente di polizia bianco. È un momento cruciale nello sviluppo psichico del protagonista, che unisce il personale e il politico, e nella tua trasposizione del nome di Clifton, ripetuto ancora e ancora, con i nomi delle persone perse a causa della violenza della polizia, sottolinei la stessa lotta per creare un’eredità per gli uomini neri al di là della violenza e del trauma. Non ti sembra che si stiano facendo progressi?
SL: Grazie per la meravigliosa sinossi che collega il mio lavoro a quello di Ellison. Ti lascio così: Noi esistiamo in un momento della nostra storia in cui la complessità delle nostre esperienze è stata appiattita… che sia dal sensazionalismo dei titoli di testa o dalla natura polarizzata delle nostre argomentazioni. La nostra posizione, o ancora più importante, la nostra abilità di albergare nelle tensioni e contraddizioni delle nostre esperienze vissute è obliterata dal nostro bisogno incessante di proteggere le nostre visioni del mondo. Ma questa non è vita. Dobbiamo sempre analizzare la bruttezza e mantenere la nostra posizione. Quindi non perdo tempo pensando al progresso, piuttosto contemplo ciò che è necessario per me e per le persone a cui tengo. Ricordare è un aspetto di questa necessità… non lasciare mai che questi nomi e queste vite siano sepolte dalla storia. Invece respiriamo la vita in questo loop di violenza e morte, dando a questo passato un significato per come agiamo nel presente.
(Traduzione dal’Inglese di Diletta Piemonte)