La mia prima intervista con Fabio Mauri risale al 1989 all’interno della preparazione di un saggio sugli anni Sessanta a Roma che poi sarebbe stato pubblicato su Flash Art nel dicembre-gennaio 1990. Fabio lo conoscevo già da dieci anni, era un caro amico, ammiravo molto la sua intelligenza e le sue performance, seguivo il suo lavoro che trovavo sempre molto interessante. Da allora le conversazioni sono state tante, ne riportiamo solo un paio:
2001
Accademia di Belle Arti di Brera, Milano
Laura Cherubini: È con particolare piacere che salutiamo Fabio Mauri, ospite all’interno del mio corso che come sapete è dedicato alle relazioni tra l’arte e il cinema, proprio perché Fabio Mauri è stato un precursore in questo senso. Infatti è stato, con Mimmo Rotella, uno dei due artisti italiani invitati alla grande mostra realizzata al MoCA di Los Angeles su arte e cinema per celebrare il centenario della nascita del cinema, ma in generale ha lavorato molto su un tema che in questo momento è all’attenzione di tutti, il rapporto tra arte e ideologia. Nato a Roma, vissuto a Milano e tornato a Roma alla fine degli anni Cinquanta, è stato protagonista degli anni Sessanta, il momento dell’azzeramento totale, del monocromo di cui ci dà una variante particolare, lo schermo, e poi protagonista anche nei decenni successivi, soprattutto con una serie di grandi performance. Docente di grande esperienza, ha insegnato per molti anni Estetica all’Accademia de L’Aquila e ha coinvolto gli studenti in queste performance con risultati incredibili. Vorrei ricordare che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna gli ha dedicato nel ’94 una grande antologica (a cura di Carolyn Christov Bakargiev e Marcella Cossu). Gli passo subito la parola.
Fabio Mauri: Inizio subito col mostrare una serie di “Schermi”. In quel momento la Coca Cola era il simbolo della società dei consumi. Io cercavo un simbolo che avesse il respiro di questa immediata simbologia americana.
Il fiasco di Chianti non aveva la stessa carica simbolica, anche se i futuristi lo avevano usato: Soffici, Conti… Cercavo e alla fine, come un sistema complesso che all’improvviso ha preso corpo, ho trovato: lo schermo con la sua liturgia. Prima ancora di iniziare un film, questo schermo era per me una sorta di carta assorbente. Ci avrebbe dato una realtà già giudicata. Feci così il primo schermo disegnando su un foglio di carta bianco una cornice nera. Il risultato era uno spazio che perdeva il suo senso di disegno. Era uno schermo su cui si poteva proiettare, disegnare… Chiamo queste opere i prototipi. C’è un rapporto tra io-osservante e il resto. Il quadro è uno spazio convenzionale. Ci siamo messi d’accordo che, prendendo un telaio, lì possiamo rappresentare il Ratto delle Sabine. È eclatante che, convenzionalmente, sul muro delle chiese antiche il pittore dipingesse una sorta di grandi fumetti che era una interpretazione della realtà. Fin da piccolissimo ho disegnato, dipinto, scritto… Lo schermo era qualcosa di iniziale, una superficie pronta ad accogliere immagini, ma era anche una chiusura. Io ho visto la natura, come quelli che hanno visto i garibaldini… Allora c’era questo rapporto con la natura. Nel rito dello schermo la realtà veniva filtrata. C’era un rapporto velocissimo tempo-creatività. Un grande pittore dell’action painting, De Kooning, fu ospite a casa mia. Alla domanda: “Maestro, che cos’è la pittura?”, rispose: “La pittura autentica è la parola”. Cioè la pittura è lo scambio, il discorso provocatore e carico di suggestioni, parlare è mettersi in concorrenza con le sinapsi del cervello, e far scattare la cultura e la progettazione del mondo. Non pensate che chiunque sia un artista. Chiunque è una persona espressiva. L’artista è cieco, gobbo, ma è culmine, professionista di questo stato biologico, quasi condannato a questa professione del significato.
LC: Stiamo vedendo un lavoro importante: quel cassetto pieno di oggetti domestici che piacque molto a Michael Sonnabend. È interessante anche per il rapporto che c’era in quegli anni con l’America.
FM: Sebbene avessi già fatto mostre in ottime gallerie romane, la Salita e la Tartaruga, nessuno sembrava volere questo cassetto, finché non fu esposto in una collettiva. Vicino a me c’erano tre persone. Michael Sonnabend, che era un gran critico, anche senza aver mai scritto una parola; poi c’era un giovane bruno, molto contrario a questo cassetto, era Francesco Lo Savio; infine un giovane critico tedesco, Udo Kultermann. In All’Ovest niente di nuovo (1957-58) c’è disegnata la nuvoletta dei fumetti. Andai a casa di Scialoja e lì vidi proprio il mio quadro, fatto meglio, con una scritta: “I love Toti and Gabriella”. Era un dono di De Kooning. Nel 1964 ci fu la Biennale di Venezia e lo sbarco della Pop Art americana. Venimmo totalmente surclassati da un mondo che era la civiltà dei consumi. Tutti i pittori italiani pensarono: “Avevamo avuto ragione”, tranne me. Io pensai che era una Pearl Harbour. Tutti i pittori americani erano stati nei nostri studi, ma la civiltà dei consumi era loro. Per tre o quattro anni io non ho esposto. Feci solo pile e cinema a luce solida riallacciandomi alla tradizione futurista di Depero in cui la luce è un corpo solido. Mi rituffai invece nella mia infanzia. Il destino di una persona è segnato all’inizio da fisicità, carattere, volontà personale… ma non basta. Che io abbia avuto i ricci biondi incide meno rispetto al fatto che io abbia vissuto il fascismo e una guerra. Era parte costituente della mia esperienza. Così mi accorsi che il vero oggetto dell’Europa era qualcosa di impalpabile: era l’ideologia. Quello che distingueva l’Europa era una visione del mondo. Riandando alle emozioni, ricordai che a un certo punto a scuola il mio compagno di banco, Tedeschi, non venne più. “È ebreo…” sentivo dire sottovoce. Era il primo di una serie infinita di casi, come Gian Luigi Banfi, architetto del Gruppo BBPR, deportato in Germania, mai più tornato. E così nel 1971 feci la performance Ebrea. Durante il nazismo interi gruppi umani erano stati presi a oggetto. Qui una mia allieva si tagliava i capelli e reincollava il segno di Davide sullo specchio. Alcuni oggetti formalizzavano gli oggetti che noi avevamo visto e che si facevano a Buchenwald: saponi, una protesi dentaria, una macchina per tagliare i capelli… La mostra fece molto scalpore ed ebbe molte resistenze. Ciò che rende aberrante l’Olocausto, la Shoah, è l’estrema razionalizzazione. All’inizio la mostra sembra bella, sembrano oggetti di design, poi c’è il silenzio e alla fine la disperazione. Adorno aveva scritto che dopo i campi di sterminio nessuno avrebbe potuto più parlare e non si sarebbe potuta fare più poesia. Nel mio piccolo mi sono sempre opposto. Non so bene che cosa sia l’arte, ma è un insieme carico di cognitività, mette in campo sfumature che uno poi si accorge essere fondamentali. Nello stesso ’71 feci Che cosa è il fascismo, che riproduce una festa della gioventù italiana e tedesca a cui avevo preso parte nel ’38 con Pasolini e Francesco Leonetti.
LC: Francesco Leonetti ha insegnato estetica per molti anni in questa Accademia. Anche lui era molto amico di Pasolini e appare in molti suoi film. Anche Fabio Mauri prende parte a un film di Pasolini, Medea.
FM: Della festa ripresi canti, gare ginniche e dibattiti sull’ideologia fascista. Non volevo un palcoscenico, volevo una platea. All’epoca le tribune avevano divisioni che riproducevano quelle corporative. Alla festa c’era molta più gente di quelli che erano i posti, perché il fascismo era una finta organizzazione, fondata sull’autorità e sul prestigio della divisa. Io avevo introdotto la tribuna per gli ebrei dove trovarono posto Moravia, Natalia Ginzburg, la mia ex moglie Adriana Asti, alcuni non vollero salire. Con questo volevo significare che lo stato fascista rendeva normali cose che normali non erano.
LC: In quale posto fu realizzato per la prima volta?
FM: Il posto era lo Studio Cinematografico SAFA Palatino, una costruzione di tipo fascista. C’è stata una grandissima affluenza di pubblico. La festa era in onore di un generale-manichino di cera. Alla fine c’erano filmini dell’Istituto Luce, anzi sono stato il primo a poter usare questi film con i quali la gente poteva vedere una somiglianza totale. In Italia è stato fatto la prima volta con 12 persone. Nel ’77 è stato replicato a New York al Performing Garage con 44 studenti della New York University. C’era la scherma, c’era la danza come prosopopea della formalizzazione del simbolo musicale. A New York ho aggiunto un brano alla performance: i combattenti di Kendo, per ricordare l’asse Italia-Germania-Giappone. Il filmino Luce veniva proiettato su uno schermo dove c’è il The End di cui parlavo prima. Il fascismo e il nazismo erano seduttivi e moderni, molto moderni…
LC: Se non si capisce questo non si capisce neanche il consenso.
FM: Certo. Questa è l’allieva che fece Ebrea, Paola Montenero. Questa performance (Natura e cultura o Ideologia e natura) è stata realizzata per la prima volta nel 1973 e poi rifatta molte volte, a Graz, a Vancouver, ad Amsterdam… Una ragazza in divisa da giovane italiana si veste, si sveste e si riveste la prima volta in modo naturale e poi in modo totalmente soggettivo, per cui la divisa salta in aria, mentre riappare con autorità il corpo. Gli stessi abiti possono mutare ideologia, diventare Pulcinella o Ku Klux Klan, a seconda della provenienza delle persone. Intellettuale (1975) è la performance realizzata con Pier Paolo Pasolini. Su di lui proiettavo il suo stesso film Il Vangelo secondo Matteo. A un certo punto io mi avvicinai a Pierpaolo che aveva un’aria irrigidita e gli chiesi se era stanco di stare immobile, lui mi rispose che era inquieto perché non riusciva a capire a che punto era il film che gli veniva proiettato sul torace.Era scocciatissimo di non poter seguire il suo film.
2009
Casa di piazza Navona
Il nostro ultimo incontro avviene il 30 aprile 2009. Con Giancarlo Politi e Arianna Rosica avevamo progettato di fare una grande intervista a tutto campo a Fabio Mauri. Fabio ne era molto contento. Avevamo rimandato già un paio di volte, perché non stava bene, però ci teneva molto e avevamo deciso di farla a tappe. Siamo riusciti a fare solo la prima.
LC: Vogliamo partire dalla tua famiglia? Ho sempre pensato che il fatto che tuo padre fosse un impresario teatrale costituisse un precedente interessante.
FM: La ma famiglia è molto mossa. Mio padre Umberto era di origine pugliese, io sono nato a Roma e battezzato in S. Pietro.
LC: Da piccolo eri affascinato dall’attività teatrale di tuo padre?
FM: Eh! Casa nostra era molto presa dagli attori.
LC: Che tipo di attori? Che tipo di impresario era? Prosa, varietà, lirica?
FM: Faceva prosa, lirica… Fece La fiaccola sotto il moggio di Gabriele D’Annunzio. È stata una famiglia precoce, anche se eravamo piccolissimi. A casa mia per esempio veniva Ettore Petrolini. Veniva perché mia madre era molto spiritosa.
LC: Quindi si divertiva con tua madre. Come si chiamava tua madre?
FM: Maria Luisa Bompiani. Era veramente divertente.
LC: Dov’era la vostra casa?
FM: In via Nazionale, dov’è il Teatro Eliseo. Dopo abbiamo abitato in piazza Navona.
LC: La famiglia di tua madre si occupava già di editoria?
FM: Mio nonno era il più giovane generale della guerra ’15-’18. Dirigeva tutto il settore di Verona. A Verona c’era un genio, tutti l’hanno sempre detto, il giovane Arnoldo Mondadori, il quale venendo dalla Versilia, con delle vite molto avventurose e particolari, lasciò questa piccola eredità di una bancarella con i libri, da cui poi il Premio Bancarella. Ho studiato a Bologna. È una pagina importante della mia vita. Ero a Bologna per puro caso. In alcune pagine di diario ho fatto una riflessione sui destini. Mio padre era molto ricco, aveva grandi affari con Suvini-Zerboni, una grande società di caffè concerto…
LC: Cosa studiavi a Bologna?
FM: Ho frequentato il ginnasio, il liceo, studiavo greco… Ho fatto incontri precoci…
LC: Pasolini e Leonetti innanzitutto.
FM: Leonetti era molto restio a scrivere, è una cosa che non sa nessuno, poi scriveva benissimo!
LC: Mi fai venire in mente che c’è una forma di resistenza nella sua scrittura, a me piace molto come scrive, ma è una scrittura dura, non sembra uno che è lì felice di scrivere…
FM: Però è molto spiritoso…
LC: Molto, però è una scrittura particolare, è una scrittura scabra, spezzata…
FM: Leonetti, Roversi, sono stati la vita culturale di Bologna, importantissima, Roversi aveva la sua libreria…
LC: Erano più grandi di te…
FM: Sì, io ero una mostruosità logica, avevo otto anni e avevo già scritto due pezzi…
LC: Come conosceste Pasolini?
FM: Un’altra cosa buffa. Papà ormai era passato a Bologna. Viveva con me mia sorella Silvana, era molto amica di Pasolini. Pier Paolo è stato un grande amore di Silvana… Facevamo una rivista, Il Setaccio; io ero piccolissimo… Era il gruppo dei ragazzi più intelligenti di Bologna, ci divertivamo molto, ci piacevano le donne. Pochi sanno che sono stato il primo fidanzato di Laura Betti, avevo otto anni, ma ero innamorato pazzo… Era un periodo felice. Leonetti si è messo a scrivere un libro su Giovanna Bemporad, questa bambina, quasi più giovane di me, era intelligentissima, plurilingue, abitava in una grande casa in un bellissimo palazzo… La nostra casa, per una istituzione di nostro padre, tutte le domeniche ospitava gli amici dei figli, era una cosa veramente bellissima. Pasolini era sempre a casa mia, era una casa divertente. Prima abbiamo avuto una casa verso via Sassi e poi ci siamo trasferiti di fronte alla stazione, in una casa grandissima. Pasolini viveva con la mamma, il padre e il fratello Guido, che poi morì da partigiano bianco.
LC: Trucidato dai partigiani rossi. Leonetti una volta mi ha detto che questo segnò il destino di Pasolini.
FM: Assolutamente. C’è un poemetto, uno dei versi più belli che ho letto: “Muoio e anche questo mi nuoce”.
LC: Questo tipo di poesia è legato alla morte del fratello…
FM: Totalmente. Il giovanotto Guido era come il primo della classe.
LC: Leonetti mi parlava di una sua supposizione: Pasolini aveva sofferto di un senso di colpa, perché Guido era il fratello più piccolo ed era entrato nella Resistenza, lui invece era rimasto con la madre.
FM: Era enormemente legato al ricordo del fratello. Poi ci sono le lettere molto belle di Pier Paolo alla madre. Silvana si era innamorata pazzamente di Pier Paolo, si capiva, piaceva a tutti in famiglia. Era spiritosissimo, scriveva versi in friulano, il suo primo libro, un grande libro che ha proprio sconvolto la letteratura italiana.
LC: Chi erano gli altri poeti del gruppo?
FM: Leonetti scriveva, ma non faceva il poeta, era il più avanguardista, perché aveva una cultura post-Longhi. Erano colti, tutti e due, amavano Longhi anche per ragioni politiche.
LC: Leonetti aveva lavorato alla rivista di Longhi Paragone. Quale era l’intento de Il Setaccio?
FM: Era un intento puramente poetico. Ma noi giocavamo anche a calcio, con Pagliarani, io ero un terzino destro, Pier Paolo un terzino sinistro. La casa davanti alla stazione venne distrutta completamente dal primo bombardamento. Avevamo la casa in una piazza meravigliosa, sopra alle Sette Chiese. Avevamo sempre casone grandi…
LC: …e questo fatto, insieme alla disponibilità di tuo padre e al fatto che eravate tanti fratelli, rendeva le vostre case luoghi di aggregazione…
FM: Completamente! Poi mio padre Umberto perse il padre e ci trasferimmo a Milano in via Cappuccini, da allora la famiglia diventò milanese. Era una casa confortevole, molto raccolta. Per molti anni ho lavorato con mio zio Valentino in casa editrice, è stato un lavoro formativo, leggevo… A casa nostra c’era una specie di clima caldo e colto, era una famiglia borghese, ma shakespeariana… ci siamo molto divertiti, c’era il tono popolare, ma avevamo un insieme di amici divertenti, io e i miei fratelli. Luciano forse è stato l’uomo più intelligente che ho conosciuto, Achille ha un coraggio da leone.
Pochi giorni prima, il 21 aprile, Fabio aveva toccato un punto importante, quello che viene spesso considerato il limite dell’arte italiana e che può essere invece uno dei punti di forza. Mi aveva accolto con un’affermazione:
FM: C’era e c’è sempre un’arte italiana. Bisogna riflettere su questo.
LC: Riflettere su questa specificità è già difenderla.
FM: Stanotte mi sono svegliato e riflettevo: ho fatto sempre l’avanguardia, ma in fondo l’arte italiana è classica.