Michelangelo Pistoletto: (…) Ho capito che potevo trovare e tirar fuori le sculture accumulate nel magazzino della memoria che abbiamo in testa. In un certo senso era come per gli “Oggetti in meno”: una sottrazione delle possibilità accumulate nella mente. Nel passato la scultura raccontava delle storie, aveva dei significati simbolici precisi, era fatta per ragioni di carattere pubblico, civile e religioso; serviva, per esempio, a tramandare l’immagine di una persona o commemorare un avvenimento. C’era sempre un motivo esplicito. Nel mio cervello, invece, non c’erano delle storie, ma frammenti di forme scultoree. Allora ho cominciato a scavare nel poliuretano dei pezzi che poi sovrapponevo ad altri pezzi. Poi magari mi rendevo conto che un frammento era di un corpo femminile e girava da una parte, l’altro era di un corpo maschile e girava dall’altra; uno usciva storto, l’altro usciva dritto, uno guardava in avanti e l’altro indietro, come nell’opera Dietrofront, tradotta in marmo e ora situata a Firenze al centro della piazza di Porta Romana. Insomma, era una specie di rimontaggio di frammenti di memoria. Ma la memoria c’è anche nei “Quadri specchianti”: è la fotografia. E c’è pure nella Venere degli stracci, perché la Venere è la memoria che si confronta con la continua trasformazione rappresentata dagli stracci. Il passato è sempre stato parte della mia opera, quanto il presente e il futuro.
Angela Vettese: Forse vanno letti in questa direzione, in un senso più generale, i lavori “tempo-spazio”. Per esempio, l’aver elevato al rango d’opera d’arte il 1989. Ci si chiede: “Come si fa a immaginare che l’anno 1989 sia un Anno Bianco, cioè un’opera d’arte?”. In effetti, quello è un anno che ha cambiato il mondo: o sei fortunato, o sei veggente!
MP: Non sono né fortunato, né veggente. Penso che tutto funzioni per caso. Perciò, corro dietro al caso, lo lascio lavorare e lui mi serve.
AV: Il caso lavora per te?! Sei fortunato! Non capita a tutti.
MP: Il caso è la cosa più puntuale che esista. È molto meglio degli orologi svizzeri. Non è mai in anticipo, né in ritardo. Giunge sempre al momento giusto.
AV: Allora parliamo di questo Anno Bianco. A me ricorda un po’ il Socle du monde di Piero Manzoni: un piedistallo fisico al mondo, uno zoccolo rovesciato a Herning, in Daminarca. In quel momento, quando si è là, si pensa che tutto il mondo sia una scultura di Manzoni. E tu, con questi manifesti in cui c’è scritto Anno Bianco, con la proclamazione stessa dell’ Anno Bianco nel 1989, hai esteso oltre misura il principio di ready-made; hai trasformato il principio di spaziotempo, di un anno sulla terra, in una tua opera. Giusto?
MP: Tu non sbagli mai, sei come il caso! Sei puntualissima! Sì, è sicuramente giusto. L’ Anno Bianco non è fatto solo di annunci e manifesti, ho realizzato anche molte lastre di gesso; alcune enormi che riempivano un intero pavimento, altre di medie e piccole dimensioni. In quell’anno ne furono realizzate sette per il Museo di Capodimonte a Napoli (che le ha poi acquisite); erano pagine bianche, ma non di carta, bensì spessi elementi materici le cui bianche superfici attendevano possibili immagini nel tempo, forse anche solo ombre. È stato poi alla fine dell’anno che ho potuto raccogliere le immagini clamorose della caduta del muro di Berlino e quelle impressionanti della tragedia di piazza Tienanmen. Sono questi gli avvenimenti dell’Anno Bianco che ho trattenuto e fissato.
Ma nel frattempo avevo realizzato i gessi: scioglievo in acqua la polvere bianca e colavo la pasta semiliquida nei contenitori e mentre questa si condensava la plasmavo con le mani. Era come lavorare una materia-tempo, come plasmare lo spazio in un breve lasso di tempo. Finivo accarezzando la superficie ancora morbida per lasciarvi una leggera impronta della mano. Poi ho creato anche dei marmi bianchi che ho presentato a Milano alla Galleria Persano. Tutti questi specchi scultorei rimangono sempre e comunque a testimonianza dell’Anno Bianco.
AV: C’è quindi una dimensione performativa nel tuo lavoro, che in fondo nasce dall’atto stesso dello specchiarsi. Oltre a farlo tu stesso, fai specchiare le persone. Dopo lo specchiarsi, c’è il camminare nelle stanze, e poi c’è anche, per esempio, l’azione teatrale, quella fatta con gli abitanti di Corniglia: l’idea di poter trasformare un’intera comunità in un corpo teatrale che parla della storia. Perché, di fatto, questa pièce teatrale che metteste insieme era un parlare della Storia. E poi non possiamo non ricordare l’esperienza dello Zoo, che trova posto nel libro Arte Povera. In quel libro, ormai un classico, che Germano Celant pubblicò con Mazzotta nel 1969, ci sono sei pagine dedicate a Pistoletto — perché ogni artista aveva sei pagine a disposizione —, e poi ci sono sei pagine dedicate allo Zoo. Sei l’unico artista a cui sono state dedicate dodici pagine! Perciò, la tua attività performativa è stata considerata come qualcosa di diverso. È come se tu fossi un soggetto diviso in due. Allora, forse, ecco una spiegazione in più sullo Zoo. E se tutta questa parte teatrale-performativa spiegasse meglio il tuo rapporto con il tempo-spazio?
MP: Alla fine del 1989 ho unito l’immagine dell’opera teatrale Anno Uno, realizzata nel 1981, a quella della caduta del muro di Berlino, appena avvenuta: la somiglianza delle due foto era sorprendente. La caduta del muro apriva una nuova epoca, che per me era già stata annunciata nove anni prima con Anno Uno. Ho fatto la stessa cosa con l’immagine di Dietrofront (scultura realizzata anch’essa nel 1981), collocandola accanto alla foto della scultura formata dagli studenti in piazza Tienanmen. Sembrano fatte dalla stessa mano, anche se la mia era di nove anni prima. Inoltre, il titolo Dietrofront si addice anche alla svolta segnata dall’episodio cinese. La corrispondenza di immagine e significato tra i miei precedenti lavori e gli avvenimenti dell’Anno Bianco è tutt’altro che banale.
AV: È interessante, dato che ne abbiamo parlato, spiegare cos’è l’opera Anno Uno.
MP: È una scultura e allo stesso tempo un’architettura, ed è anche teatro. Si tratta di persone che stanno in piedi come cariatidi e tengono sul capo delle strutture che rappresentano i tetti e i monumenti di una città. Dentro questa scultura c’è un’ora di storia parlata e cantata. Anche questo è un frammento di società impersonato da ventuno persone di Corniglia, villaggio delle Cinque Terre, in Liguria. Da questa scultura fuoriescono voci e rumori ma non sai da dove provengono esattamente. È la città che vive nel tempo. Si parte da Caino e Abele, che si identifi cano con Romolo e Remo, e si giunge al viaggio sulla luna. Ma la storia continua in tempi successivi ed è sempre incarnata dalla gente di Corniglia.
Abbiamo ripresentato Anno Uno quattordici anni dopo al Castello di Rivoli, e poi a Monaco. A quel punto, c’erano anche dei bambini, perché la società dei cornigliesi era cresciuta. L’ultima volta c’era un ragazzo che era arrivato all’altezza giusta per reggere un tetto. Tutti dovevano avere più o meno la stessa altezza. La madre di quel ragazzo si era preparata per partecipare alla performance nel 1981 ma non poté perché stava per dare alla luce colui che nel 1995 sarebbe poi entrato in scena. Anno Uno è un’opera temporale anche nel senso delle generazioni. Lo Zoo, invece, è nato prima. È proprio per lo Zoo che siamo stati tutta l’estate del 1969 a Corniglia e abbiamo lavorato e sperimentato ogni giorno nella piazza del paese. Oggi si potrebbe dire che lavoravamo sui neuroni specchio. Proprio così! Tentavamo di arrivare a delle intese percettive spontanee. Quando abbiamo presentato il lavoro, intitolato Lo Zoo scopre l’Uomo Nero, alla Galleria Sperone in autunno, siamo arrivati sul posto senza la più pallida idea di ciò che avremmo fatto, ma gli esercizi di Corniglia si sono combinati tra loro e abbiamo anche coinvolto gli spettatori in una simbiosi creativa. Oggi, quando mi parlano di neuroni specchio, mi rendo conto che allora non lo sapevamo, ma era quello il fenomeno che stavamo utilizzando. ?