L’artista, con gli strumenti di cui dispone, con il proprio corpo, un tavolo, qualche oggetto quotidiano, un’automobile o la propria famiglia, può creare immagini che parlano un linguaggio universale. In questa logica, le opere sono la rappresentazione di un racconto ampio dove l’autore si presenta come un personaggio altro da sé, pur attingendo a elementi in qualche modo autobiografici. Nel lavoro di Alessandra Spranzi, per esempio, notiamo come l’artista sia affascinata dall’energia trattenuta dalle cose che stanno intorno a lei e dalla sua capacità di poterle sollecitare e svelare, spostando se stessa e gli oggetti che la circondano dal loro contesto d’origine e, così facendo, straniandoli. La fotografia rappresenta per lei il mezzo per captare quello che sfugge nella realtà, qualcosa d’invisibile che è reso visibile grazie all’immagine. Nelle sue fotografie, le persone e gli oggetti perdono la funzione abituale per raggiungere un nuovo stato: si distaccano così dalla realtà e diventano magici. Nel video Et voilà (2000), il semplice atto di mangiare è ripetuto dalla stessa Spranzi e, come una gag da piccolo Mago, questa azione sottolinea la potenza rituale della sparizione che si compie mangiando: niente più pomodori, né mandorle, né formaggio. Niente da vedere. Tutto sparisce, da qualche parte, dentro il corpo, l’alchimia della trasformazione si compie… et voilà! La magia e la ripetizione vanno insieme, aiutano a vedere, a capire, a guarire. Rompono per l’appunto le funzioni abituali e il silenzio.
Un’altra opera significativa di Alessandra Spranzi, ai fini di indagare come l’autorappresentazione si mescoli alla messa in scena e dunque alla finzione, è La donna barbuta (2000), un lavoro che corrisponde a una forma di resistenza, una sovversione, un modo che l’artista adotta per uscire all’aria aperta, sotto il cielo, per prepararsi al proprio destino, cercarlo, ma al tempo stesso testimonia una forma di non-adattamento, di follia, di mistero. La donna barbuta porta la propria barba contro ogni buon senso, ma c’è una serenità selvaggia in questo atteggiamento, una malinconia mista a pace. Spranzi nei panni della donna barbuta percorre i suoi prati da sola, nel silenzio, è consapevole del fatto che stare al mondo vuole dire sfidarlo. Nelle fotografie della serie la vediamo camminare per sentieri di campagna, sdraiarsi beata al sole, godersi la natura in armonia con le stagioni, ma al tempo stesso sembra in attesa dell’inaspettato. Pace e paura sembrano alternarsi col passare dei giorni, dei mesi e degli anni, c’è sempre tensione nel susseguirsi delle immagini, ma anche forza e bellezza in ogni azione interpretata dall’artista.
Il desiderio di utilizzare se stessi, il proprio corpo e vissuto, servendosi del travestimento, ma per mettere in scena qualcosa che possa parlare a tutti, in modo universale, riguarda fin dai primi lavori la ricerca di Daniela Comani.
L’artista si concentra sul tema della storia, dell’identità e degli stereotipi sociali, utilizzando lo stesso linguaggio di quei mezzi di comunicazione che si fanno interpreti, nel nostro quotidiano, di valori sociali e consuetudini culturali. Celebre la serie fotografica Un matrimonio felice (2003–in corso), che la vede protagonista nel doppio ruolo di marito e moglie mentre mostra una coppia alle prese con i più svariati momenti della quotidianità coniugale. Comani fa da modello a se stessa, mettendo in scena un matrimonio contemporaneo in cui gli atteggiamenti del corpo dei due protagonisti, e alcune loro azioni quotidiane, manifestano però alcune diversità tra i sessi. Lei cucina, lui si occupa dell’auto. Lui parte per un viaggio di lavoro, lei attende a casa. Lui sembra avere un ruolo attivo nelle azioni quotidiane, lei, seppure partecipe, sembra soltanto assistere. Il lavoro cresce nel corso degli anni, gli equilibri tra i due protagonisti mutano, immagine dopo immagine, come cambia la relazione in una coppia reale, e osservando con attenzione le fotografie si entra più in profondità nel legame sentimentale, intuendo come a volte l’accondiscendenza di lei non sia necessariamente sinonimo di sudditanza, ma semplicemente l’accettazione di certe convenzioni sociali.
Il tema dell’identità, il travestimento che porta spesso l’artista a vestire panni maschili e mimarne gli atteggiamenti, lo ritroviamo anche in altre opere, per esempio la serie fotografica Coverversionen (2007–in corso) dove Comani reinterpreta le copertine e i titoli di diverse testate, tra cui l’immancabile Der Spiegel, settimanale spesso presente sul tavolo dello studio berlinese dell’artista. Qui ritroviamo Comani nei panni di presunti personaggi politici d’attualità e di uomini del mondo dello spettacolo dagli evidenti tratti caricaturali, immagini costruite con il sapore della parodia che non esitano a imitare anche la grafica e lo stile comunicativo, spesso sensazionalistico, di certi magazine e dei principali organi d’informazione di oggi. In altri lavori, l’artista capovolge i titoli di grandi opere della letteratura invertendo il maschile con il femminile, o ancora manipola alcuni capolavori cinematografici scambiando l’identità sessuale dei protagonisti, creando in entrambi i casi nuove storie immaginarie.
La ricerca di Paolo Ventura, invece, prevede l’utilizzo del mezzo fotografico per ritrarre ambientazioni dall’atmosfera antica e surreale. L’artista ricostruisce un mondo in miniatura attraverso precisissimi disegni, diorami e fotografie dipinte. Gli scenari che crea appaiono inizialmente familiari, perché condensano soggetti e prospettive reali o che siamo abituati a vedere, ma questa impressione lascia presto il posto al dubbio sull’autenticità della rappresentazione. Ventura utilizza la macchina fotografica per attingere al mondo dell’illusione e del sogno, come ha sempre fatto il pittore, costruendo luoghi e personaggi mai visti che avrebbe voluto vedere, avvalendosi però di uno strumento come la fotografia, capace di certificare queste visioni come fossero realmente esistite, trasformando quindi la finzione in una futura realtà. Le immagini fotografiche racchiudono al loro interno il desiderio dell’artista per gli oggetti collezionati, generato da una forte ossessione per una precisa tematica.
Ventura è appassionato di memorabilia della Prima Guerra Mondiale, lo affascina il mondo del circo, le immagini documentarie che mostrano condomini alti e massicci con i camini fumanti, gli stessi che possiamo ammirare nella pittura di Mario Sironi, e che l’artista ripropone in molte sue opere. Le sue immagini risentono anche degli schemi iconografici degli ex-voto dipinti, molto diffusi nell’Ottocento, ma praticati anche nel secolo successivo, che rappresentano solitamente cadute e infortuni sul lavoro, incendi e malattie, inquadrate in ambienti rarefatti ed essenziali.
C’è un altro elemento che caratterizza la ricerca di Ventura: la narrazione. Una caratteristica essenziale nella comprensione dell’opera dell’artista fin dai suoi primi lavori, come War Souvenir (2005), Winter Stories (2007—2009), The Automaton (2010). Storie di militari ripresi sul campo di battaglia o
nei momenti di svago. Il racconto di un clown che muore e ripensa alla sua vita. La vicenda di un uomo che costruisce un automa per combattere la solitudine. In modo differente, ma sempre con una forte vocazione narrativa, anche in Ex Voto (2017) Ventura vuole raccontare qualcosa. I protagonisti della storia non sono più ambientati in complessi e dettagliati diorami in scala ridotta, come nei lavori di dieci anni prima. Ora la scena è minimale, il ritratto dell’uomo in divisa è ravvicinato, l’inquadratura mostra soltanto il busto e il volto. Quest’ultimo è il punto focale dell’immagine in quanto modificato pittoricamente, potenziato nello sguardo dagli occhi del militare, cerulei come quelli di Ventura.
Sì, perché ogni personaggio in realtà porta il volto dell’artista, che racconta della sua curiosità, del voler guardare al mondo come se fosse la prima volta. In un’epoca in cui nulla è più esotico, l’artista sente l’esigenza di ritagliarsi un nuovo campo d’indagine, mettendoci letteralmente la faccia, un’area d’azione che gli permette di riscoprire la propria identità, quella più intima, l’unica non riproducibile da altri. Sembra quasi il tentativo di ristabilire un equilibrio con se stessi, ricostruendo l’unicità dell’individuo continuamente minata dai media.
Tra le pratiche di autorappresentazione nella fotografia italiana contemporanea, incontriamo una modalità differente dalle precedenti nella ricerca artistica di Cristian Chironi. Anche nel suo lavoro, però, è particolarmente manifesto l’utilizzo del corpo come veicolo per compiere un viaggio nell’immagine. In uno dei suoi primi progetti, Untitled #1 (2001—2004), viene presa in considerazione soltanto una fotografia, un simbolo verso il quale Chironi dimostra una certa attrazione. Si tratta di un’immagine che, riprodotta in quarantaquattro copie appuntate con degli spilli, diventa una corazza grazie alla quale il corpo nudo dell’artista trova protezione. La stessa fotografia, ingrandita e indossata, diventa l’oggetto da spiare in ogni azione quotidiana. Ma la fotografia, sempre uguale a se stessa, è quella che Chironi vuole emulare, mettendo la veste nuziale appartenuta proprio alla persona ritratta. Quella fotografia è per l’artista l’icona della donna universale. Le performance di Chironi, seppure fisiche, non manifestano quella drammatica teatralità caratteristica di analoghe produzioni, nelle sue azioni il corpo è utilizzato in maniera “leggera”, è più che altro una presenza. La sua riflessione, anche se parte da situazioni vissute in prima persona, non vuole mettere in scena la propria vita, ma prende ispirazione da questa per rilanciare alcuni valori ormai persi. Una visione della donna al maschile che recupera dalla femminilità quegli aspetti che la nostra società troppo trascura. Lina: donna, madre e icona di una figura cardine nell’ordine familiare, tanto sottovalutata nel nostro distratto modo di vivere, quanto fondamentale per ristabilire un equilibrio sempre più difficile da raggiungere.
La presenza dell’autore nell’immagine è ricorrente anche in lavori più recenti di Chironi, per esempio in My house is a Le Corbusier (2015–in corso) dove la sua fisicità diventa indispensabile al fine di vivere quotidianamente nelle varie abitazioni progettate dal celebre architetto Le Corbusier in giro per il mondo. Il progetto, pensato per svilupparsi coinvolgendo trenta possibili case dislocate in dodici paesi, è una performance globale che vede protagonisti gli edifici ma anche la presenza di Chironi che in quei luoghi abita per un periodo di tempo variabile, producendo nuove opere e generando relazioni.
Direttamente connesso al lavoro precedente, il progetto FIAT 127 Special (Camaleonte) (2018—in corso) e Drive (2019—in corso), riflette sempre sulla figura di Le Corbusier partendo dalla celebre frase dell’architetto svizzero “una casa è una macchina per abitare”. Il lavoro, infatti, ruota intorno a una
FIAT 127 del 1971, rinominata Camaleonte, per la capacità di cambiare colore ogni volta che viene esposta, customizzata seguendo gli accostamenti cromatici tipici delle case in cui Chironi di volta in volta ha vissuto. Questi continui spostamenti a bordo di un’auto permettono all’artista di riflettere su vari aspetti culturali della nostra contemporaneità, toccando il tema del viaggio, delle trasformazioni urbane, dell’attraversamento di confini geografici e sociali. L’autore anche in questo caso performa con la propria presenza ed è infatti lui stesso, alla guida dell’automobile, ad accogliere su prenotazione un pubblico sempre diverso, proponendo ai suoi quattro passeggeri racconti, documenti e tracce audio nate dalla collaborazione con diversi autori.
Ogni opera analizzata dei quattro artisti presenta caratteri ben distinti, alcuni non facili da cogliere al primo sguardo, ma che una volta delineati sono in grado di mostrare in modo chiaro lo scenario contemporaneo in cui si collocano. Nella produzione artistica più recente, in particolare quella di matrice fotografica, si nota un progressivo abbandono del dato reale, una rivoluzione non gridata, avvenuta lentamente dopo più di un secolo di dittatura del referente. Quest’ultimo però non scompare, muta semplicemente di forma, serpeggia nelle immagini fotografiche nascondendosi fra le pieghe dell’autofiction, oppure dell’accadimento progettato dall’artista per un determinato contesto sociale, per uscire nuovamente allo scoperto ogni qualvolta la fotografia necessiti di riaffermare il proprio statuto di credibilità. È tutto vero quello che osserviamo nelle immagini degli autori sopracitati, reale nella misura in cui è accaduto, anche se parzialmente, di fronte le rispettive apparecchiature fotografiche, ma ancora più vero in quanto frutto di una personale rielaborazione del dato reale che non tarda a strizzare l’occhio alla finzione. Se nell’opera di Chironi l’apparizione di un’automobile policroma nel contesto urbano genera stupore e curiosità, a questa dobbiamo sommare la componente relazionale alimentata dalla presenza dell’artista e dal suo desiderio di fare accadere delle cose in dialogo con luoghi e persone differenti. Nelle opere di Spranzi, Comani, Ventura, invece, osserviamo con altrettanta meraviglia le possibilità offerte dall’immagine, la capacità di compiere viaggi senza uscire dallo spazio intimo dell’immaginazione, fucina di idee senza confini. L’arte non duplica semplicemente la nostra esperienza del mondo, la amplifica producendo nuovi significati e una solida rete di relazioni, è bello pensare che sia il corpo dell’artista il veicolo di tutto questo, il suo autorappresentarsi e al contempo farsi interprete di valori universali, scegliendo le giuste dosi di realtà alla quale aggiungere più di un pizzico di finzione.