Difficile spiegare il perché Brescia conservi tutt’oggi un’indipendenza dal turbinio e dal vortice del “mostrismo”, nonostante la vicinanza con Milano. Trovo però nelle parole di chi a Brescia ci è sempre stato, una risposta, forse l’unica: “Quando uno ha una galleria a Brescia, vorrebbe averla a Milano, quando ce l’hai a Milano vorresti averla a New York, quando ce l’hai a New York se sei un giovane gallerista oggi vorresti averla magari a Città del Messico, una città trendy o a Berlino. Ma quando sei a Città del Messico è così inquinata che vorresti tornartene a Brescia”. Un ragionamento che spiega bene le motivazioni che nel 1973 hanno spinto Massimo Minini a rimanere nella città di provincia e Piero Cavellini o Ermanno Cattaneo dello Studio C, che ancora prima di lui avevano scelto di rimanere nella “Leonessa d’Italia”.
Con altrettanto coraggio e grande determinazione, Brescia si è ritagliata negli anni uno spazio all’interno del sistema artistico, diventando oggi meta di frequenti viaggi per vedere mostre nelle gallerie della città, al Museo di Santa Giulia, alla Pinacoteca Tosio Martinengo, a Palazzo Monti, nella metropolitana (da Spazio ORR non siamo sicuri nessuno ci sia mai stato per davvero, ma per un breve periodo, in molti hanno creduto di aver perso grandi mostre per la pigrizia di non prendere un treno per Brescia, Ha!). E di recente a Brescia è nata anche BELLE ARTI, un’associazione di cui fanno parte galleristi, collezionisti, artisti e amanti dell’arte, che con grande lavoro di squadra ha concepito negli ultimi due anni una mostra/pinacoteca permanente all’interno di un parcheggio sotterraneo e visitabile solo in automobile, un’installazione di Pascale Martine Tayou nella vigna urbana più grande d’Europa e un concerto di Alexander Romanovsky di fronte alla Vittoria Alata.
Chissà cosa succederà in occasione di Brescia-Bergamo, Capitale della Cultura… forse cambieranno tante cose o forse niente, ma in fondo, in qualche modo a Brescia, ci passiamo tutti prima o poi…
Palazzo Monti
Giulia Gelmini: Nel 2021, un anno molto complesso per gli spostamenti, hai organizzato una mostra che ha permesso a più di cento artisti di spostarsi, metaforicamente, da un continente all’altro. Da Brescia, città che ha visto crescere rapidamente la realtà di Palazzo Monti – tuo progetto legato all’hospitality e alla sinergia tra gli artisti e le numerose figure che gravitano in questo polo culturale – in occasione della collettiva “Transatlantico” circa centotrenta opere di artisti (ospitati a partire dal 2017 presso Palazzo Monti) hanno viaggiato al Mana Contemporary a Jersey City. Un ponte tra le due città si è inevitabilmente creato. Cosa è rimasto di questo viaggio Transatlantico per una città come Brescia? Cosa hai portato da un luogo all’altro? Il viaggio era un one-way ticket o c’era il desiderio di portarsi qualcosa indietro?
Edoardo Monti: Quando parlo di Palazzo Monti, specifico sempre che il progetto è nato ed esiste non “per” Brescia, ma “con” Brescia. Non abbiamo scelto uno spazio strategicamente, ma abbiamo creato un centro culturale attorno ad un palazzo di famiglia che era sfitto, che fortunatamente si trova in una città stupenda. Il viaggio d’andata ha visto imbarcare quindi, oltre che ad artisti e designer, anche artigiani, collaboratori, sostenitori e visitatori che negli anni hanno supportato i creativi in residenza. Un grande progetto iniziato nel 2020 e conclusosi nel 2021, due anni difficili per tutti ma che siamo riusciti a superare con serenità grazie anche a occasioni stimolanti come questa. L’esperienza che ha accomunato i partecipanti è stata ancora una volta la residenza: sono stati accolti non solo dal nostro progetto ma da una comunità intera, non abituata ad essere in contatto con ospiti internazionali quanto le città italiane più turistiche.
Il viaggio di ritorno era colmo di tanti che per sei lunghi mesi hanno visitato la mostra e conosciuto una nuova realtà dall’altra parte dell’Atlantico dando forza alla nostra presenza internazionale.
GG: La vita a Palazzo Monti è scandita da attività, incontri, momenti conviviali e scambio tra i residenti di un determinato momento. Dall’esterno sembra che tutto segua un ritmo molto comunitario e svincolato dalla kermesse del capoluogo milanese. È solo un’impressione o effettivamente essere in una città satellite genera un ecosistema indipendente?
EM: Credo che la virtù stia nel mezzo. Da un lato, ci vuole un programma indipendente che guarda al territorio, all’Italia, ma tantissimo anche all’estero. Ospitando artisti da ogni angolo del mondo per un mese ciascuno, fino a tre in contemporanea, è d’obbligo focalizzarsi sul rendere l’esperienza locale la migliore possibile, e lo si può fare soltanto tessendo trame profonde con le realtà e le persone che vivono intorno a noi. Dall’altra, non nascondiamolo, è necessario far parte in qualche modo del “sistema dell’arte”. È importante per tutti: per il progetto, che acquisisce credibilità e opportunità; per gli artisti, che possono quindi crescere e non associarsi a qualcosa che deraglia da certi canoni internazionali; per i collaboratori, i visitatori e i sostenitori, affinché la comunità cresca e si senta più coinvolta possibile.
GG: Cosa offre Brescia al tuo progetto? Pensi potrebbe esistere una realtà come quella di Palazzo Monti in una città come Milano?
EM: Darò delle risposte pratiche. Brescia offre una città pulita, sicura, dove i servizi pubblici e privati sono efficienti e veloci, un rapporto costo-qualità straordinario (per noi Italiani, figuriamoci per gli stranieri), gallerie d’arte contemporanea d’eccellenza, buoni musei d’arte antica e archeologia, location strategica per spostarsi con i treni e vicinanza a tanti aeroporti. Sono anche queste le cose che convincono e permettono a creativi internazionali di partecipare a un progetto di residenza a Brescia. Fortunatamente manca un museo d’arte contemporanea, e lo dico perché non è realisticamente pensabile che ogni città italiana abbia il proprio museo per ogni tipologia, con il risultato che si faccia tutto e male.
Palazzo Monti non durerebbe un mese a Milano. Troppe distrazioni, troppo poco tempo per tutto, troppi costi: finiremmo con l’essere una goccia d’acqua in un mare d’arte, come con tanti progetti satellite durante il Salone o la Biennale d’Arte. Fortunatamente molti sono coloro che da Milano vengono, magari per un weekend a Brescia, e si uniscono alla nostra tavola!
GG: Anche io vivo la realtà bresciana quotidianamente, spostandomi da Milano per venire in galleria, e ho sempre trovato stimolante l’idea di portare qualcosa da un luogo all’altro. E non credo sia sempre il caso di parlare di città che si sposta in provincia, piuttosto il contrario. Ma ciò che mi colpisce di Brescia è la sua indipendenza. C’è un’autenticità nella città stessa e nel tipo di rapporto che si instaura tra i vari attori del sistema arte. Credi che negli ultimi anni si stiano generando nuove sinergie nel panorama artistico locale? È una mia impressione o c’è molta più voglia di fare sistema?
EM: Breve premessa autobiografica: sono di Bergamo, dove ho vissuto per diciotto anni, poi ho passato otto anni all’estero, tra Londra e New York. Vivo a Brescia solo dal 2018, città in cui non avevo praticamente messo piede prima di trasferirmi. Devo dire che in pochissimo tempo ho fatto tante amicizie, proprio perché siamo in pochi a lavorare in questo mondo e ci si conosce tutti, ci si rispetta a vicenda. Tanti i progetti nati recentemente, da gallerie a spazi espositivi (uno solo in effetti, ma già imploso su sé stesso: ORR, e sappiamo tutti perché, ha!), da associazioni culturali a interventi di arte pubblica, come quello recente di Nathalie Du Pasquier nella stazione della metropolitana. Non dimentichiamo il riconoscimento, insieme a Bergamo, di Capitale della Cultura 2023, che spero veda le energie spostate dalla politica alla cultura, e che più che dare vita a progetti nuovi consolidi quelli esistenti, l’unico modo per non far scemare un’opportunità come questa, più unica che rara.
Residenza La Fornace
Non lontano dalle porte di Milano e all’interno della tipica cornice di campagna lombarda si trova la Residenza La Fornace, una cascina della seconda metà dell’Ottocento, attiva ancora oggi come agriturismo. Nasce come evoluzione della pratica artistica del fondatore, Edoardo Manzoni, classe 1993, che con la curatrice Giada Olivotto, 1990, ha scelto di utilizzare la realtà della cascina in cui è cresciuto per fare ricerca, invitando artisti a dialogare con il luogo e lavorare seguendo i ritmi della vita di campestre. E proprio in virtù di una tempistica dilatata, i capitoli di questo racconto bucolico si sono sviluppati nel primo anno seguendo le quattro stagioni e nel secondo, le fasi lunari. Ciò che è curioso per La Fornace è che si tratta di un progetto la cui unica modalità di fruizione sta nella documentazione fotografica del ciclo di residenza. Nessun visitatore ammesso. Tant’è che l’ubicazione precisa non è mai stata rivelata pubblicamente. Quello che il progetto fa emergere è un clash tra il mondo delle immagini digitalizzate e la natura. Uno accessibile a tutti e l’altro, aperto esclusivamente al dialogo tra gli artisti invitati. Anche la durata dei periodi di residenza coincideva con le stagioni o le fasi lunari e gli scambi dunque, si dilatavano per mesi nel primo caso o si condensavano a pochi giorni nell’altro. Un invito ad ascoltare il ritmo scandito dalla terra e dal luogo stesso, che vive in modo ciclico e mai frenetico. Dunque facile intuire come tutto dovesse necessariamente avvenire a porte chiuse, per non svelare in modo immediato la vita de LaFornace, e senza spettatori, tenuti a distanza da un display.
Un luogo già di per sé periferico diventa nel caso della Residenza La Fornace un momento di pausa e studio, che non segue scelte strategiche. Dialogo e distacco. Condivisione e filtro.
Altalena
Altalena è l’evoluzione contemporanea di quello che succede quando pensiamo agli incontri nei caffè cittadini o i circoli di letterati degli ultimi due secoli. Il gruppo che ha dato vita a questo progetto di ricerca collettiva è cambiato nel tempo ed è infatti sua caratteristica chiave quella di attivare sempre nuove connessioni, permettendo dunque al network di espandersi ogni volta, sulla base del focus di ricerca di ciascun progetto. Non c’è infatti una descrizione univoca per Altalena. Un caleidoscopio di personalità il cui obiettivo è quello di innescare meccanismi di contaminazione tra varie discipline, artistiche, scientifiche, filosofiche.
Nata nel 2017, Altalena si concretizza con un progetto di residenza in una piccola cittadina sul Lago Maggiore, conclusosi con una mostra all’interno di una prigione del 1200 a.C, e continua sempre in una località di provincia, dove i partecipanti erano invitati a fare un’esperienza di sonno polifasico. Attività sempre svolte in modo collettivo, come quella di un reading group sulla narrativa speculativa femminista e la residenza in una casa isolata nelle colline, dove i partecipanti hanno lavorato alla ricreazione di oggetti antichi e della tarda età del bronzo. Un glitch temporale esperito in modo collettivo, non finalizzato alla creazione in sé di artefatti artistici, quanto più alla creazione di un momento di autoformazione.
Ponendo sempre l’attenzione sul limitrofo e mai milanocentrico, Altalena ha proposto durante la Biennale di San Marino, una scalata con una geologa, che invitava i partecipanti a raccogliere oggetti naturali lungo il percorso, per nutrire la montagna, sulla scia di un’antica tradizione dei tagliapietre.
Sebbene la città sia stata il punto di incontro dei soggetti coinvolti, Altalena si ramifica nel territorio circostante e si insedia, temporaneamente, mutando identità di volta in volta e creando regole di gioco sempre nuove.