Chi è Dafne Boggeri?
i-D è un lavoro del 2006 dove l’artista si presenta in quattro carte d’identità, indossando in ciascuna una maglietta con una scritta diversa; la serie completa compone la frase: trans/lation/some/time. La traduzione non risolve l’enigma che, anzi, si infittisce quando nel campo relativo alla professione nei documenti si legge “astronomo”. Dafne Boggeri si divincola dalle definizioni e si muove agilmente fra una molteplicità di linguaggi.
La raffigurazione dell’artista solitamente consiste in una figura incappucciata che protegge ogni leggibile identità con l’ausilio di felpe con cappuccio, retaggio della cultura hip-hop e del writing che fanno parte del suo passato. Boggeri c’è, ma non si fa mai vedere, è una presenza spettrale dietro a una porta (Untitled, 2007, in occasione di “Mumble Mumble” alla Galleria Raffaella Cortese), una mano che spunta da una grata (Hidden Line on Explicit Surface n° 1, 2006, al Centre culturel français de Milan). Oppure nel video Extra Ordinary, realizzato durante la residenza presso Le Centre des Récollets di Parigi nel 2004-05, dove l’artista diventa un clone dell’Elliott di E.T.: una felpa rossa che corre in sella a una bicicletta, custode di una misteriosa sagoma bianca nel cestino. Infine, sullo sfondo di una desolata Los Angeles, diventa Black Sheep per una serie di fotografie, poster e performance del 2007. Dafne Boggeri è ogni volta uguale e diversa: performer, musicista, attivista queer, raffinata grafica, dj; la si prova a rincorrere in immagini frammentarie che compongono diverse opere, come il poster in cui la scritta “OST” sopra la facciata del teatro berlinese Volksbühne si trasforma in “LOST” (Lost, 2008), semplicemente aggiungendo una L dell’alfabeto muto all’immagine sullo sfondo. Ancora una volta siamo lost in translation. Il sottrarsi dalla visione diretta ritorna in Apparentemente assenti, implicitamente convocati (after party): la perfomance del 2008, infatti, è composta da una montagna di coriandoli ammucchiati in un angolo, con in cima due tubicini che spuntano come antenne e permettono all’artista (che si nasconde all’interno) di respirare. La sua presenza si rivela solo nel momento in cui distrugge il cumulo di carta con il proprio corpo, ne fuoriesce e scompare nel nulla, cogliendo di sorpresa gli spettatori.
Codice (2008) invece, una performance realizzata in uno spazio di due metri in occasione di Zoo Art Fair a Londra, presenta lo stand bloccato da una cortina di cartone rigido nero alta 190 cm. Boggeri vi si nasconde dietro come un animale in gabbia e ci resta per quattro ore filate con la sola compagnia di un trampolino, utile per fugaci apparizioni. A intervalli scanditi da uno spartito musicale tradotto in un codice morse di punti e linee, la sola testa dell’artista spunta dalla barricata, cortocircuitando con sagacia un meccanismo di visione e fruizione dell’arte nel contesto fieristico. Nelle operazioni artistiche di Boggeri il pubblico è sempre chiamato in causa, non a una meccanica interazione ma piuttosto a completare l’opera, a cogliere gli indizi che l’artista sapientemente offre e a provare a chiudere il cerchio. Per entrare nei lavori di Boggeri è necessario un salto, uno sforzo che è mentale quanto fisico, come esemplificato nella personale tenuta dall’artista presso Careof a Milano nel 2008. “Vorrei che il cielo fosse bianco di carta” è il titolo della mostra che riprende la canzone partigiana Se il cielo fosse bianco di carta, e anticipa l’operazione principale messa in atto, quella che modifica la spazio espositivo, abbassandone il soffitto con liste bianche di cartone, mentre i neon del tetto vengono portati a terra e appoggiati in verticale ai pilastri al centro dello spazio, simili a spade laser momentaneamente abbandonate. Ma prima di vedere tutto questo, come per Alice che passa attraverso lo specchio, i visitatori si vedevano costretti a salire, strisciare e uscire da alcune auto, rigorosamente nere, poste all’interno dello spazio espositivo, in corrispondenza dei tre passaggi. In … (2008), ancora una volta la percezione si modifica attraverso il rivolgimento di una situazione che porta lo spettatore da una posizione di passività alla necessità di svolgere un’azione. La sovversione prosegue, l’artista mescola con astuzia le carte: su due mensoline bianche allineate sono adagiate sul dorso 56 carte da gioco, ciascuna con un pattern diverso dall’altro.
C’è poi una pila tenuta insieme da un nastro, che racchiude 35 supporti analogici e digitali di diverso formato che custodiscono la registrazione di una risposta a una domanda fatta dall’artista a Bettina Koester, protagonista negli anni Ottanta della scena musicale No Wave (Stop me if you think you’ve heard this one before, 2008); le parole dette in quell’occasione, scomposte e trasferite sui diversi formati, si consumeranno con il tempo insieme alla inusualità di alcuni di quei supporti magnetici. Nell’esperienza di Dafne Boggeri c’è una rivoluzione silenziosa, più dirompente proprio perché sceglie di essere asciutta e minimale, sussurrata e mai gridata. L’autorialità dell’artista è spesso messa a disposizione di azioni libere in simbiosi con progetti collettivi queer in Italia e all’estero che esulano da formati preordinati.
L’attitudine è quella di un’apertura alle forme e ai mutamenti, spesso prediligendo un approccio do-it-yourself, occupandosi di progetti editoriali indipendenti o trasformandosi in promoter musicale e organizzando eventi che volutamente mescolano i confini tra le discipline. L’unicità dell’opera d’arte è ribaltata dalla molteplicità della sua riproducibilità come scriveva Walter Benjamin nel secolo scorso, così l’artista produce edizioni illimitate di poster o serie di magliette. Dafne Boggeri è un’attenta osservatrice del “mondo di sghimbescio”. Rifugge e si districa dalle definizioni. Lavora con installazioni, musica, video, fotografia, ha partecipato a numerosi festival in Italia e all’estero ed ha esposto in numerose collettive sia a livello nazionale che internazionale (Svizzera, Belgio, Francia). C’è un progetto del 2007 che nasce come neon e poi diventa una serie di magliette con la scritta “ERRORIST”; qui, come del resto in altri lavori, la punteggiatura è vitale, ulteriore riprova che un’alterazione minima può rappresentare un cambiamento di piani radicale e farci ripensare di nuovo tutto. Fino alla prossima volta.