Sono in una stanza oscurata artificialmente nei nuovi spazi della Mason’s Yard di White Cube e incomincio a rendermi conto che Damien Hirst è decisamente in ritardo per la nostra intervista. Non che il poter intervistare uno dei più ricchi e celebrati artisti di oggi mi metta in soggezione. Con venticinque anni di esperienza nel campo dell’arte, quei giorni sono passati. Ma il fatto di stare qui, nel santuario privato della più prestigiosa galleria d’arte contemporanea inglese, nel cuore del Myfair, epicentro dell’esplosivo mercato internazionale, con lo sguardo fisso su For the Love of God di Hirst — l’opera d’arte contemporanea più costosa mai realizzata — fa sì che il tempo si fermi. Nei giorni che hanno preceduto l’inaugurazione della sua nuova personale, dall’appropriato titolo “Beyond Belief”, la stampa teneva così sotto stretta sorveglianza il memento mori di Hirst tanto da pensare che si trattasse di una questione di sicurezza nazionale piuttosto che della più ambiziosa mostra d’arte contemporanea dell’anno.
Quando le scintillanti foto di For the Love of God sono state pubblicate, ero piuttosto scettico, specialmente per via di questa frenesia da pre-show. Ma niente può prepararti a quello che si prova guardando “dal vivo” questo sbalorditivo oggetto.
Realizzato in diciotto mesi da Bentley & Skinner di Bond Street, l’opera di Hirst è un calco di un teschio umano completamente ricoperto da 8.601 diamanti VVS perfettamente tagliati (1,106.18 carati). Un fantastico diamante rosa — perfettamente tagliato — dalla forma a pera è incastonato al posto del terzo occhio, al centro della fronte del teschio. Quest’opera, il cui numero di diamanti è tre volte superiore a quello della corona inglese (sempre prodotta da Bentley & Skinner) è costata più di 14 milioni di sterline. “Ha comprato così tanti diamanti che il mercato mondiale ha subìto un’impennata di circa il 15%”, ha dichiarato un commerciante di diamanti di Hatton Garden.
Quando finalmente Hirst arriva, su una Mercedes serie 5 grigio metallizzato con autista e vetri oscurati, è subito travolto dallo staff di White Cube e dalle guardie del corpo in completo nero e munite di ricetrasmittente e cimici nascoste nel taschino della giacca. Chiaramente non vogliono correre rischi, visto che For the Love of God costa 50 milioni di sterline [72 milioni di euro circa]. Tutto questo clamore ha creato un’atmosfera di tensione tra la gente, e se l’opera venisse rubata potrebbe considerarsi il più grande furto della Storia, dopo che la Monna Lisa venne strappata al Louvre nel 1911.
Da quando “Beyond Belief” ha aperto, poco più di una settimana fa, c’è stato un attacco a raffica da parte della stampa internazionale, e il fatto che Hirst lo consideri uno dei suoi lavori più importanti ha causato costernazione anche nel pubblico. Non preoccupato dal non ricevere consensi, Hirst parla apertamente quando altri, al suo posto, correrebbero ai ripari. Tutti hanno un’opinione su Hirst e sulla sua opera. Ma stranamente si è registrata una evidente assenza di interviste pubblicate e dichiarazioni rilasciate dall’artista in merito. È per questa ragione che ho incluso alcuni brani della nostra conversazione, per dare la possibilità allo stesso Hirst di parlare del suo lavoro e dello stato odierno del mercato.
La nostra conversazione parte da Mason’s Yard. Hirst indossa un paio di jeans e una t-shirt con un diavolo stampato sopra, è accogliente e alla mano, e spesso risponde alle mie domande con una raffica di risposte che me lo fanno sembrare un Jack Kerouac con accento da inglese del Nord.
Joe La Placa: Cosa ti ha spinto a fare For the Love of God?
Damien Hirst: Ho sempre amato i teschi. Sono un tipo estremo. Cerco sempre di capire quanto lontano posso andare, dove sta la fine. I teschi sono grandiosi, in questo momento sono ovunque, sono in ogni cosa. Stanno diventando una sorta di logo, sembra di stare in Messico il giorno dei morti. Ho cominciato a pensare quanto, qui in Inghilterra e in generale in Occidente, siamo ossessionati dai teschi. Mi sembrava davvero bizzarro questo amore per i teschi, il modo in cui vengono adorati, celebrati e stampati su foulard come ha fatto Alexander McQueen. Si vedono più teschi in Inghilterra che in Messico, ma se i messicani sembrano camminare mano nella mano con la morte, noi la nascondiamo sotto il tappeto.
JLP: Oppure facendo un lifting facciale!
DH: Ho pensato: perché questo? Come è avvenuta questa sorta di assunzione incondizionata dell’immagine del teschio? Cosa seppelliamo davvero quando muoriamo? Cosa sotterriamo al suo posto? Ricchezza? Soldi? Arte? Potere? Ho pensato che i diamanti sono per sempre… ho pensato ai ragazzini che vengono spediti dentro a dei buchi nelle miniere di diamanti per prendere le pietre e sono pagati pochissimo… e alla gente che si uccide per averli.
JLP: Vedo questo teschio come un’avvertenza, la morte mascherata dietro a pietre preziose per le quali la gente si uccide.
DH: Penso che tutte le cose grandiose abbiano qualcosa di simile a questo, si diventa faziosi. Si è pro o si è contro; li ami o li odi; li vedi belli o orrendi. Questo è forte. Ma la ricchezza, sai, non dura a lungo. Ma è quello che la gente vuole. Io sono in una posizione privilegiata, in cui posso permettermi di fare cose di questa portata, così ho pensato, vaffanculo, lo faccio.
Scendiamo al piano di sotto per vedere Death Explained, l’ultima evoluzione dell’opera-icona di Hirst The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, uno squalo minaccioso che fluttua nella formaldeide. In Death Explained lo squalo è tagliato a metà con una precisione da laser. Le due metà sono inserite ciascuna in una teca e uno spazio abbastanza grande tra le due permette allo spettatore di passare in mezzo e camminare attraverso le interiora dello squalo.
JLP: Perché hai tagliato lo squalo a metà?
DH: Tagliamo tutto a metà, non credi?
JLP: Mostrando le budella, l’interno?
DH: Se vuoi guardare attraverso un microscopio, spesso devi uccidere ciò che stai guardando. Quando tagli qualcosa come questo è per mostrare l’interno. Poi lo guardi e pensi: ah! Ecco come funziona! Ma non funziona più perché lo hai tagliato a metà.
Allineati lungo i due muri opposti del seminterrato, la serie “Biopsy Paintings”. I trenta titoli sembrano presi da un trattato di medicina, come ad esempio M122/388 Paget’s Disease of the Breast, light_micrograph_SPL.jpg. I lavori sono composti da fotografie di diverse forme di cancro e altre malattie terminali prese dalla Science Photo Library. Le immagini sono fotografate attraverso il microscopio e serigrafate su tela. Centinaia di lame chirurgiche sono sparse sulla tela, assieme a vetri rotti e capelli, tutti intrappolati in una resina trasparente.
JLP: Perché i bisturi, il vetro e i capelli?
DH: Il dolore… quando ero bambino ero solito gironzolare in un garage. C’erano molte macchine distrutte, avrei voluto farne qualcosa. Avrei voluto trovare dei vetri rotti, del sangue da qualche parte e dei capelli.
JLP: In un certo senso l’ansia di morire è diminuita ora che ti sei immortalato facendo For the Love of God?
DH: Non so se “ansia” sia la parola giusta per descrivere ciò che si prova nei confronti della morte, nel senso che si tratta di un mix di emozioni. Ogni giorno, quando mi sveglio, ogni volta che ci penso, lei cambia, e tu ti adatti, ma non ce la fai. Ma è solo una specie di abuso. C’è questo grande poema di Philip Larkin, Audade, che trovo stupefacente. Parla dell’insonnia, ma parla anche della morte, ed è molto bello. Praticamente dice: se pensi alla morte abbastanza a lungo non puoi andare avanti.
JLP: Per il pensiero orientale la contemplazione della morte, quella che chiamano “temporaneità”, è una delle principali attività del Buddismo.
DH: Non ci credo. Non penso funzioni.
JLP: No?
DH: No, non penso possa fornire una qualche soluzione. Penso sia solo una leggenda. Il Buddismo è come avere un grande yacht parcheggiato di fianco ad altri yacht più grandi. E così continuano a parlare di questi enormi e immaginari yacht che tutti “possiamo” avere ma che nessuno avrà mai. La vita fa schifo da molti punti di vista.
JLP: La vita è sofferenza…
DH: Eh sì, la vita è proprio sofferenza. Tu pensi di poter ciarlare quanto ti pare e piace ma, a fine giornata, qualche fottuto nazi ti passa di fianco, ti ficca una baionetta nel petto e si scopa la tua fidanzata!
Diversamente dal resto della galleria, il pianterreno è pieno di vita. I “Birth Painting” di Hirst hanno come soggetto immagini fotografiche del figlio più piccolo dell’artista, Cyrus, nato con parto cesareo nell’agosto del 2005. Queste opere sono nello stesso tempo brutali, nella loro cruda descrizione della nascita, e tenere. Sono il gesto di un padre amorevole che vuole immortalare suo figlio.
JLP: Quindi non credi nella reincarnazione o in qualcosa di simile vero?
DH: No, non ci credo. Credo che l’arte sia davvero qualcosa di spirituale, una cosa religiosa; lo penso davvero! Veder nascere un bambino è credere nei miracoli. La vita è incredibile. Ma non credo in nessuna di queste stronzate soprannaturali. Credo nel fortuito. Siamo parte di un tutto, perciò se agisci correttamente puoi dar vita a grandi momenti dove accadono grandi cose. Può essere fatta della grande arte, o semplicemente una grande festa. Se metti tutti gli ingredienti giusti, nelle giuste dosi, le cose girano per il verso giusto. Se invece remi contro, le cose vanno male. Ma questa è la mia opinione…
Continuando il nostro percorso, scendiamo le scale e sempre più visitatori ci fanno da seguito, allungando le orecchie per ascoltare cosa dice Hirst. Uno dei più coraggiosi, una giovane studentessa, si porta dietro un modello tridimensionale di una testa sezionata. Nel tentativo disperato di avere un autografo, ci interrompe bruscamente pregando Hirst di firmarle il modellino. Sebbene appaia infastidito, glielo firma con estrema naturalezza. Con la folla alle calcagna, è tempo ormai di andare nell’ufficio privato di Jay Jopling, al piano di sopra.
Mentre sto scrivendo questo articolo, almeno sei potenziali clienti sono in competizione per aggiudicarsi For the Love of God. Uno di loro, che preferisce rimanere anonimo, ha già organizzato un tour lungo due anni, in grado di ammortizzare, sulla base delle entrate alle mostre, una grossa percentuale dell’acquisto.
JLP: For the Love of God ha un prezzo enorme, 50 milioni di sterline…
DH: È troppo basso! La gente lo vuole davvero.
JLP: 50 milioni di sterline è troppo basso?
DH: Ma certo! Se uno dei gioielli della corona fosse messo sul mercato, lo venderebbero sicuramente per molto di più. Ed è solo uno dei tanti.
JLP: Certo, ma rispetto ai prezzi con cui l’arte contemporanea di solito viene venduta, questo è al di là di ogni limite, specialmente per un artista vivente.
DH: Non credo proprio, e poi cosa intendi con “artista vivente”? È una fottuta fregatura questa cosa degli artisti ancora in vita non credi? Cioè, l’arte dura da centinaia di anni, va avanti da secoli, mentre la vita di un uomo dura meno di cento anni. Considerato questo, gli artisti in vita sono veramente pochi. E il mercato ha 2.000 anni ed è al di sopra dell’attività artistica, o no? Ti devi dimenticare questa cosa degli artisti viventi e parlare solo dell’arte. Quando sono entrato nel mondo dell’arte ero consapevole della mia volontà di cambiarlo. Lo trovavo veramente fastidioso, sembrava una specie di club dove la gente dovrebbe vendere a un prezzo irrisorio le opere agli investitori che poi si fanno i soldi. I collezionisti vogliono staccare l’arte dagli artisti e dato che vengono prima e danno all’artista quattro soldi, dopo, quando l’opera viene rivenduta, possono fare i soldi veri nel mercato secondario. Ho sempre pensato che questo fosse fottutamente sbagliato. Il mercato primario sono io, l’artista. E io voglio avere i soldi per stare nel mercato primario. Dico sempre che è come andare da Prada, comprare un cappotto per due lire e poi rivenderlo a un ente benefico 100 volte tanto. È fottutamente sbagliato! Perché fanno così? L’arte dovrebbe essere costosa in prima battuta. Non ci dovrebbero essere tutti quei vecchiardi che si fanno vagonate di soldi col mercato secondario.
JLP: Quindi mi stai dicendo che sono gli artisti che devono fare la parte del leone per quanto riguarda le vendite, non i mercanti e neanche i collezionisti, giusto?
DH: Giusto. Dovremmo aver imparato da quel che è successo con Van Gogh. L’arte ora è un bene! La gente si beve questi fottuti giochetti del vintage non credi? “Oh è una cosa antica, deve per forza essere cara”. Ma la priorità deve essere un’altra. Quando vai a casa di qualcuno e vedi un quadro appeso al muro, se è nuovo dovrebbe essere molto più interessante rispetto a uno vecchio… ed è lì, nel nuovo, che i soldi andrebbero spesi.
JLP: Venerdì scorso ho partecipato a una conferenza alla London School of Business. Il titolo era “ Art as a Asset Class” [Arte come risorsa di classe]. Praticamente un sacco di banche e ricchi manager si stanno mettendo a investire sempre di più nell’arte trovando difficoltà nel farlo perché le transazioni nelle gallerie, che al momento rappresentano il 65% del ritorno mondiale nel campo delle belle arti, e i prezzi a cui le opere sono vendute, vengono resi pubblici con riluttanza. Di solito si va in una galleria, si chiede al gallerista il prezzo di un lavoro importante e praticamente ti viene detto “niente da fare”.
DH: Questo perché sono tutti farabutti. Mi ricordo quando chiesi a un gallerista con cui ero solito lavorare “perché non vendiamo quest’opera a un prezzo più alto?” Lui mi rispose “beh, devi permettere alla gente di comprarlo e farci un po’ di soldi”. “Funculo!” gli ho detto. Se lo stanno comprando per farci dei soldi allora non dovrebbero comprarlo per niente. Dovrebbero comprarlo per appenderlo al muro. Non voglio vendere a persone per far sì che possano guadagnarci dei soldi! Un’altra volta sono andato in una galleria sbronzo, dopo pranzo, e ho chiesto di poter comprare un quadro. “Chi è lei?”, mi hanno chiesto. E io, “fanculo chi sono, voglio comprare un quadro!”. Il problema è che non puoi comprare nulla se prima non hanno capito chi sei perché il prezzo cambia a seconda di quanti soldi hai, il che è superato.
JLP: Al momento è vero. Ma il mercato dell’arte si sta muovendo verso una maggiore trasparenza. Ne è la prova la drammatica crescita del fatturato in case d’asta storiche come Christie’s, il cui guadagno, solamente in Europa, l’anno scorso è aumentato di oltre il 40%, il più alto nella storia della compagnia.
DH: Penso che l’arte sarà sempre un fottutissimo investimento. È la valuta più potente al mondo, la miglior cosa nella quale puoi spendere i tuoi soldi. E come dice il saggio: “Non ci sono portafogli nel letto di morte”. Non te li puoi portar dietro dopo che sei morto. Ma quel che puoi fare è costruire un museo, metterci dentro dei quadri e chiamarlo The Sainsbury Wing. Quindi, in un certo senso, comprare arte ti garantisce l’immortalità… se è questo quello che vuoi. Non c’è altro modo per farlo.
JLP: Negli anni Ottanta lavoravo con i writer. Pur dipingendo su tela hanno continuato a dipingere sulle vetture della metropolitana perché permetteva loro di spostare i dipinti da un posto all’altro ed esporli a un pubblico di tre milioni di persone al giorno.
DH: Penso sia una buona cosa. Io preferisco esporre in gallerie commerciali piuttosto che nei musei perché c’è più vita, le cose sono lì e la gente le può comprare. Mi piace il commercio che si crea. Mi piace il fatto che l’arte cambi le cose, smuova, ti faccia sentire vivo. Ma una volta che la metti in un museo comincia a morire. Di recente ho rifiutato di fare una mostra perché volevano far pagare il biglietto. Ho sempre voluto che le mie mostre fossero a ingresso libero. Se apri mostre così al pubblico, puoi in un certo modo giustificare i prezzi alti dato che non hai nessuna aspettativa, per esempio, dalla vendita dei biglietti. In più, se cominci a chiedere di pagare, un sacco di gente non vorrà fare lo sforzo di vederla, dicendo “non mi piacciono i musei dove devi pagare”.
JLP: Date le tue risorse — penso alla tua organizzazione Science che conta 125 persone nel libro paga — probabilmente potresti prendere in affitto uno spazio incredibile e aprire la tua galleria, se volessi.
DH: Beh, in realtà ci stavo pensando. Ma nonostante ami vendere arte, non mi piace venderla materialmente.
JLP: … le persone di Science potrebbero farlo al tuo posto.
DH: Sì, ma mi piacciono le gallerie, specialmente quelle con cui lavoro. Penso siano cool. Detto questo, stiamo pianificando l’apertura di una galleria a Lambeth con la mia compagnia Other Criteria. Anche se sarà una galleria, sarà più uno spazio dove possiamo divertirci. Ci piacerebbe poter mostrare cose che non devono essere per forza in vendita.
JLP: Ho sempre pensato che Other Criteria fosse il tuo braccio editoriale.
DH: Lo è, ma ora sta per avere anche una galleria affiliata, la Criteria Gallery. Vorrei fare delle mostre ogni 2-3 anni, invitando anche curatori esterni all’organizzazione. Non voglio una programmazione. Penso sia questo a fottere le gallerie, quando entri e dici di voler fare una mostra la settimana dopo, per poi scoprire che il loro programma è pianificato per i prossimi quattro anni.
JLP: Così la Criteria Gallery aprirà senza un programma.
DH: Sì. Partiremo vuoti e con un ristorante.
JLP: Quindi sarà una specie di complesso artistico.
DH: Avremo cinque edifici. Abbiamo grandi progetti con l’architetto Caruso St. John e, se tutto va bene, dopo questa mostra si comincia a costruire.
JLP: Che direzione prenderà il tuo lavoro nel futuro?
DH: Non sai mai dove stai andando, non credi? Io cerco solo di andare oltre facendo in modo che le cose rimangano entusiasmanti. Frank Dunphy, che cura i miei affari, mi ha detto: “Quel che devi fare è essere sicuro che stai usando i tuoi soldi per star dietro all’arte e non la tua arte per star dietro ai soldi”.
JLP: Frank è un saggio!
DH: Se fai arte solo per i soldi sei fottuto. Ma usare i tuoi soldi per fare dell’arte grandiosa è la cosa migliore che puoi fare. C’è molta pressione perché potresti annoiarti di quello che fai. E quando le aspettative sono alte, devi realmente sorvolare ciò che sembra facile e andare nella direzione opposta. Ogni volta la gente viene da me e mi dice: “Mi piacciono i tuoi primi lavori, ne hai ancora qualcuno?”. Vogliono la roba del passato perché è già testata, l’anno provata. E questa è un’altra paura, che il tuo lavoro vecchio sia buono e il tuo lavoro nuovo una merda. Così l’unica cosa è continuare ad andare avanti. Quando guardo un artista che ammiro, come Willem De Kooning, riconosco che negli anni i suoi quadri sono cambiati molto, sebbene tutti pensino sia solo un espressionista astratto. Ma De Kooning ha molto più a che fare con Soutine.
Ha solo cercato di soddisfare se stesso. Ci sono questi grandi cambiamenti ogni tre o quattro anni. È questo a renderlo così grande, che fa sì che sia lui l’unico a brillare sopra gli altri.
JLP: Penso che il cambiamento sia uno stato naturale dell’arte. Andar contro questa idea per gli artisti è causa di autodistruzione. Continuano a fare sempre la stessa cosa per i soldi, ma in realtà vogliono cambiare ed evolversi. Questo porta all’autodistruzione.
DH: Francis Bacon è un perfetto esempio del livello di evoluzione di cui sto parlando. È stato un pittore fantastico, lo amo. Come lui sto solo cercando di dare il massimo, di spingere le cose sempre più avanti.
JLP: Hai messo su una grande collezione?
DH: Ho cominciato lentamente a comprare qualcosa. Ma amo ancora collezionare. Ci sono grandi cose là fuori.
JLP: Cosa stai comprando ora?
DH: Jeff Koons, una coppia di Bacon, Richard Prince, Jim Lambie, Sarah Lucas, Matt Collishaw e molti altri. Ho perfino comprato uno stain painting di Helen Frankenthaler!
JLP: Ho come la sensazione che la tua sia una rinascita, come se fossi tornato sulla scena nelle vesti di un grande pittore come Tiziano.
DH: Certamente amo la pittura, ma non so se vorrei possedere il virtuosismo di Tiziano, nel senso che non ho bisogno della sua abilità.
JLP: Perché? Forse perché qualcun altro può farlo al posto tuo?
DH: I miei pittori preferiti sono Goya, Soutine e Bacon. La pittura riguarda la fede e la verità, l’abilità non c’entra. L’abilità viene dalla pratica. Ma la fede, la verità, il coraggio non li ricavi da nulla. Devi solo usare una delle abilità qualsiasi che possiedi e tentare di comunicare qualcosa. Questo è il bello della pittura.
JLP: Quindi il virtuosismo tecnico di un pittore non è importante?
DH: Se pensi a Bacon ovviamente no perché il virtuosismo di Bacon è fottutamente terribile.
JLP: Cioè?
DH: Cosa intendiamo quando diciamo: “abile a dipingere”? Il modo in cui dipinge le cose? È l’accuratezza con cui un artista rende verosimile qualcosa? È il virtuosismo?
JLP: In certi casi sì.
DH: Ma Bacon non aveva questo tipo di abilità. Era lacerato dal fatto di non riuscire a dipingere come Rembrandt. Così si è concentrato sul soggetto. Quando guardi i suoi lavori vedi chiaramente che non cercava il virtuosismo. Ha davvero tentato di fare quel che hanno fatto sia Velásquez che Rembrandt, ma con minore abilità.
JLP: Pensi che la pittura sia arrivata a un punto morto oppure c’è ancora spazio per la sperimentazione e l’innovazione?
DH: Penso che la pittura sia fantastica. Penso sia la cosa più fantastica che esista. È grandiosa perché i dipinti, come i libri, non passano mai di moda. Solo di recente la pittura si è liberata della fotografia. Penso che la pittura sia stata fottuta dalla fotografia. Ma ora che è stata messa a nanna possiamo tutti star tranquilli. Adesso è la fotografia a essere attaccata perché nessuno più ci crede, specialmente da quando è diventata digitale. La gente pensava che la fotografia fosse reale, ma questo è sbagliato. La pittura è reale, la fotografia è finta. Per un po’ la gente non poteva credere alla pittura perché la fotografia poteva rappresentare cose così reali. Ma non più, cara!