Sembra quasi inopportuno affermare che il grande merito della mostra di Daniel Steegmann Mangrané, progettata per gli spazi del Pirelli Hangar Bicocca, sia quello di aver provato a riabilitare e rilanciare i codici del modernismo. Al di là dell’evidente, e quanto più attuale, attenzione alle tematiche ecologiche, l’esposizione dell’artista spagnolo – intitolata “A Leaf-Shaped Animal Draws The Hand” – tematizza un espediente che è, assieme, braccio armato e trappola del modernismo, il display. E qui lo si vuole intendere nell’accezione che più lo avvicina al dispositivo foucaultiano, ovvero come strumento che orienta e determina la visione facendosi produttore di soggettività. Se Steegmann Mangrané cerca infatti di riscrivere la sintassi di quella che Latour ha definito “Costituzione Moderna”, per smentire dicotomie come natura-cultura e soggetto-oggetto, è mediante l’utilizzo strategico del display che mette in moto un andamento oppositivo al modernismo, benché alimentato dai medesimi codici. In A Transparent Leaf Instead of the Mouth (2016-2017), ad esempio, l’eleganza dei volumi ondulari che contengono un ecosistema popolato da piante e insetti si fa portatrice di un’esibizione della separazione tra uomo e dato organico che, in un primo momento, esclude qualsiasi tipo di relazione. Dietro i moduli di vetro, non possiamo che contemplare la perfetta sintesi tra organismi e ambiente, ed è propriamente la percezione di questo netto distacco a squalificare la centralità del soggetto e a suggerire un desiderio di collisione ibridativa.
La natura di Steegmann Mangrané non è dirompente, violenta, impetuosa, bensì proporzionata, pacifica, equilibrata. È come se l’artista volesse estrapolarne e assecondarne una formale armonia interna – un’armonia matematica e precisissima – per poi collaborare con l’energia vitale che la percorre. Questa metodologia si manifesta in diverse opere presenti in mostra, come nel caso di Phasmides (2012), un film in 16 mm trasferito in digitale nel quale i movimenti di una famiglia di insetti stecco – animali noti per la loro capacità mimetica – compongono una sorta di coreografia nell’ambiente circostante, o in Elegancia y Renuncia (2011), una foglia essiccata e appiattita sulla cui superficie l’artista ha inciso forme circolari e che, investita dalla luce di un proiettore, svela il connubio tra le trame geometriche naturali e quelle artificiali. Inoltre, nell’insistente attenzione al processo di realizzazione dell’opera – riscontrabile soprattutto in un film come Spiral Forest (Kingdom of all the animals and all the beasts is my name) (2013-2015), girato con una cinepresa incorporata a una sospensione cardanica modificata che permette un movimento della macchina a 360 gradi –, ritroviamo un altro paradigma del moderno, o più precisamente, della “macchina artistica della modernità”, descritta da Agamben come un nodo borromeo che tiene insieme, come in una morsa irrevocabile, opera, artista e operazione.
Sebbene l’apparato espositivo risulti a tratti confuso, soprattutto a causa di una selezione dei lavori talvolta bulimica – l’opera Orange Oronges (2001), ad esempio, è una vera e propria stonatura – con “A Leaf-Shaped Animal Draws The Hand” il Pirelli Hangar Bicocca ritrova un’ambizione alla sperimentazione e un approccio critico al presente, che, senza dubbio, non avevano caratterizzato la programmazione più recente dell’istituzione milanese – per quanto mastodontiche, le ultime mostre erano rimaste nell’ambito della celebrazione. L’esposizione di Steegmann Mangrané, invece, si fa testimone di una puntuale e fertile commistione tra agenda politica e indagine tecno-estetica, nell’era dell’ipotesi geologica Antropocene.