Francesca Boenzi: Recentemente hai analizzato l’opacità linguistica come strumento attraverso cui il potere si rende inafferrabile. Credo tuttavia che il concetto di opacità possa essere utilizzato in maniera ambivalente. Pensi che, intesa come irriducibilità a una verità, l’opacità possa costituire anche uno spazio di libertà o un’alternativa di pensiero?
Danilo Correale: Sicuramente l’idea di opacità linguistica alla quale faccio riferimento può rappresentare un territorio di libertà (ma di chi? per chi? quale libertà?), da non confondersi però con la sovrastruttura retorica sulla quale il neoliberalismo ha costruito il proprio terreno e prosperato, proprio in virtù dell’uso improprio di un concetto tanto semplice quanto ambiguo e manipolabile. Più che all’opacità come territorio di libertà credo nella potenzialità di ricercare nuove fonti, nuovi modelli disegnando nuovi scenari. In diversi aspetti la “società affluente”, tende a esser raccontata attraverso statistiche, tabelle, presentazioni,previsioni, indici di vario tipo, come strumenti mediante i quali si tenta di decodificare e rappresentare un’intrinseca complessità. Un flusso continuo di dati già “arbitrariamente digeriti”, attraverso il quale influenzare le libertà individuali. Credo che, solo attraverso la rimessa in gioco della componente umana, si possa configurare un nuovo campo di azione e in questo senso il pensare “alternativamente” può diventare utile al fine di ristabilire un equilibrio. Prendendo però in considerazione il desiderio del singolo individuo, più di qualunque altro fattore, quale forza generatrice, creatrice e di resistenza.
FB: La mostra “We have a business proposal” (2012) alla galleria Raucci Santamaria, comprendeva una serie di tentativi di lettura di ciò che è inafferrabile alla luce di immagini più tangibili. Penso in particolare al lavoro The Visible Hands. In che modo hai affrontato qui la riflessione sull’individualità e sull’aspetto umano del potere?
DC: La mostra raccontava l’atteggiamento spesso performativo attraverso il quale il potere si esprime e la sua complessa relazione con il tessuto sociale. Ponendo l’attenzione su ciò che si cela dietro il mondo istituzionale, inteso non come blocco inaccessibile ma come una struttura composta e organizzata da individui. The Visible Hands rappresenta l’asse principale di questa ricerca. L’idea di sottoporre a una chiromante le mani di sei personaggi — alzate per prestare giuramento in tribunale — per una lettura della loro personalità, racconta di come la soggettività del potere, sia esso finanziario o politico (non svelo mai infatti chi siano), sia un territorio di per sé ambiguo. Il metodo stesso adoperato in questo progetto dovrebbe proporre una riflessione.
FB: Vorrei chiederti qualcosa sul ruolo della musica nelle diverse fasi della tua ricerca. Fin dai primi lavori, ti sei riferito a questo ambito come paradigma per parlare di dinamiche sociali, processi economici e politici. Nel lavoro Words of Chaos (2010) hai lavorato sull’inaccessibilità del linguaggio finanziario, riproducendone una serie di termini in forma di loghi di band metal. In altri progetti come The Istanbul Simphony (2009) hai invece analizzato la musica come fattore identitario.
DC: Credo che questo interesse, non solo nel lavoro, parta dalla mia passione nel guardare ai messaggi visibili ma non espliciti: la musica rappresenta uno di quei contenitori dove il messaggio — sia esso di dissenso, protesta, critica o propaganda — si può trovare in maniera trasversale. Mettere in relazione economia, culture popolari, critica istituzionale, attraverso un continuo detournement, può essere utile al fine di eludere la frequente aridità del discorso politico.
Allo stesso tempo credo che una delle principali trasformazioni culturali create dal moderno capitalismo è stata quella di definire “tempi e ritmi” in diversi aspetti della vita. All’interno di questo universo apparentemente caotico è possibile ancora definire ed estrarre delle soggettività: il caos non rappresenta, infatti, nient’altro che uno spazio eterogeneo. I progetti che hai citato lavorano esattamente su questo rapporto tra il materiale, il corpo e la parola, che è alla base di un processo collettivo. In entrambi i casi, il filo conduttore, anche se non manifestato, è il suono. Nel primo progetto che citi, Words of Chaos, la costruzione dei loghi è avvenuta attraverso la collaborazione con un disegnatore specializzato in cover di album punk e metal. Con lui ho provato a ridare una forma a quelle terminologie appartenenti al glossario finanziario, che sembrano aver configurato un nuovo idioma. Istanbul Symphony invece è stato portato avanti in collaborazione con un’azienda, produttrice di piatti per batteria di origini Armene, la “Istanbul©” di Istanbul. I suoi operai, attraverso la lavorazione di un metallo semplice come l’ottone, trasmettono inconsapevolmente le emozioni al materiale plasmato, veicolando così una storia indelebile, la cui memoria viene restituita attraverso il suono. Questo camouflage, questa compressione di storie racconta bene come la forma, le azioni e la materia lavorata possano raccontare molto più di quello che rappresentano.
FB: L’ idea di camouflage — come mascheramento e mimetizzazione — mi sembra centrale nella tua pratica, nel modo in cui dalle premesse concettuali deriva il processo di produzione dei lavori. Sto pensando al meccanismo messo in atto per il progetto Pareto Optimality, presentato nel 2011 presso Supportico Lopez, così come anche a The Warp and the Weft, recentemente presentato negli spazi di Peep Hole…
DC: The Warp and the Weft parte da un’indagine tesa a mettere in relazione diverse forze, attraverso un gioco di equilibri. Come in un incontro di Judo, in cui è l’utilizzo della forza dell’avversario stesso a causarne l’errore e la conseguente caduta. Il camouflage sta nell’armonizzazione e adattamento, ripetizione e decontrazione, di una rappresentazione indirizzata alla costruzione di un’identità, di qualcosa che di identitario non ha nulla. Così la produzione del tessuto tartan, che è un costrutto culturale moderno teso alla ridefinizione di un territorio — quello Scozzese —, riflette qui il tentativo di creazione di un’immagine e un mito corporate. L’utilizzo del tessuto diventa metafora e prodotto attraverso il quale rappresentare e condensare un racconto più stratificato. Anche Pareto Optimality è la restituzione di un processo: il lavoro si inserisce nelle trame di un sistema, fino a stabilire un paradosso e rendere tangibile il rapporto conflittuale tra consumo ed esperienza. L’idea alla base del video, The Surface of my eye is deeper than the ocean, di investire il budget di produzione nell’acquisto di “gratta e vinci” è la ricreazione in scala di una comunità, in cui l’articolazione della speranza è una diretta conseguenza di un certo tipo di discorso politico.