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Maximo Moralia

21 Luglio 2015, 12:17 pm CET

E se Jean Clair non avesse ragione? di Massimo Minini

di Massimo Minini 21 Luglio 2015
Leonardo Cremonini, Les sens et les choses, 1968. Tempera a olio su tela, 195 x 195 cm. Collezione Privata.

 

Leonardo Cremonini, Les sens et les choses, 1968. Tempera a olio su tela, 195 x 195 cm. Collezione Privata.
Leonardo Cremonini, Les sens et les choses, 1968. Tempera a olio su tela, 195 x 195 cm. Collezione Privata.

Leonardo Cremonini, nato nel 1925, aveva quarant’anni quando ho visto i suoi lavori per la prima volta nelle gallerie d’arte. Una nuova figurazione avanzava, con Dino Boschi, Mattia Moreni, Plattner, Adami, Baj, Aillaud in Francia, Arroyo, Recalcati, Bepi Romagnoni. Sull’altro versante c’erano Fontana, Manzoni, Castellani e naturalmente tante altre sfaccettature, Baruchello, Del Pezzo, qualcuno più anziano come Nigro, Accardi… Qualcuno rincorreva la Pop (Schifano, Angeli, Festa, Giosetta, Titina…).
Insomma un panorama ricco, quasi unico al mondo, primo in Europa, ma con la nostra poca sicurezza non ce ne accorgevamo. Poi, mentre noi eravamo un po’ frastornati da tutte queste diverse declinazioni, incluse alcune frange post-picassiane e post-baconiane, ecco che dalla volata del gruppo viene fuori la pattuglia poverista, spinta da analoghi movimenti americani ed europei e sbaraglia il campo in un attimo. Cremonini e gli altri sembrano fuori gioco.
Conoscerò Cremonini molto più avanti, affittando d’estate la sua casa a Panarea, dove lui era sbarcato nei primi anni Cinquanta con Matta e Anselmo Francesconi, dove aveva ospitato Francis Bacon, di cui era un delicato amico e seguace.
Ne scrivo ora, seduto a Panarea a casa sua, ma Lui non c’è più… Sotto la palma, nel giardino di agavi e aloe, immenso, selvaggio, con il mare qui davanti che Cremonini ha sovente dipinto.
E se ne parlo è perché nei giorni di polemiche per la Biennale di Venezia e l’orrido padiglione Italia dei trecento, torna fuori il nome di Cremonini.
Sull’onda delle polemiche suscitate dal libro di Jean Clair contro la modernità, Sgarbi indica proprio Cremonini o Frongia come i campioni da opporre allo strapotere celantiano. I vinti finalmente intravedono una possibilità di recupero.
Anche io mi chiedo spesso quali artisti potrebbero fare da contraltare alla vittoria concettual-poverista. Me lo chiedo non per eccesso di democrazia, ma per capire se sia possibile ristabilire una complessità di approccio, una ricchezza di punti di vista. Me lo chiedo non da militante ma tentando di pormi oggettivamente.
Be’, devo dire che non vedo possibilità di rivincita. Se il padiglione Italia a Venezia 2011 voleva essere l’occasione per dimostrare la pochezza dei vincitori e la vendetta dei vinti, ebbene, abbiamo avuto una lampante dimostrazione del contrario.
Non ci sono alternative, non abbiamo un Bacon, un Warhol, un Polke, un Golub, un Baselitz. Forse Francesco Clemente…
Cremonini, cui va tutta la mia simpatia sia per il mio antico amore sia per l’affitto ad agosto, non può onestamente reggere il confronto, né lo può l’onesto Vallorz che, già spinto da Giovanni Testori, oggi è proposto come improponibile campione dei figurativi che hanno vinto una battaglia ma hanno perso la guerra.
Questa contrapposizione potrebbe essere fonte di dialettica se solo da quella parte ci fossero forze di pensiero pari all’avversario. Invece se la pattuglia concettual-minimal-poverista ha aggiunto — e tanto — al nostro sapere, quell’altra si è principalmente lamentata del torto subito, dello scranno usurpato.
Stava per toccare il cielo con un dito e invece al fotofinish è passato l’avversario.
Già, ma cosa manca alla pattuglia amata da Jean Clair, Testori, Sgarbi? Manca la libertà di ricerca, costretta a una figurazione dolente, sangue e budella, che tanto piaceva a Testori, Vacchi, Ferroni, Vespignani, Pignatelli: la figura vissuta come rivincita è un vecchio modo di porsi. Un’inimicizia ormai superata dai fatti, il mondo che balla, un futuro da progettare, o almeno un presente da inventare, un’arte che non racconti i disastri ma il pensiero. Un’arte come la poesia di Morandi, l’invenzione di Fontana, l’ironia di Feldmann, il dandismo di Warhol, invece dei sederi di Guttuso, i mari di Guccione, i panzoni di Botero, il finto moderno di Mitoraj, la lingua morta di Vangi, o di Floriano Bodini? Avendo sul tavolo tutti questi, sto ancora con Boetti, Paolini, Fabro, Anselmo…
Ma Cremonini, forse per Panarea, forse per un’antica simpatia, lo guardo ancora con attenzione, pur nella leggerezza un poco sognante dei suoi azzurri mari di vacanza.

Massimo Minini è gallerista e viaggiatore nell’arte.

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