“Darren Bader is an artist working in [some] place(s) [some] time(s)”. L’incipit di questa biografia breve fornita da Darren Bader (Stati Uniti, 1978; vive a New York) in occasione della mostra “.com/.cn”, inaugurata alla K11 Foundation di Hong Kong nel marzo scorso, ben descrive l’attitudine dell’artista americano a sfuggire ogni tipo di rigido incasellamento che riguardi la sua pratica artistica, così come la sua persona. D’altra parte, le due vanno a braccetto, confondendosi l’una nell’altra.
Oltre che opere, le sue sono operazioni, che slittano continuamente tra ambiti disciplinari diversi: la musica, il cinema, la scrittura. Bader si appropria di oggetti, immagini, testi, suoni e situazioni che incontra lungo il suo percorso come un perfetto semionauta, per usare una definizione di Nicolas Bourriaud.[1] Non produce ma postproduce, editando materiali già informati che ricombina tra loro dando vita a nuove costruzioni di (non)senso. Utilizza tattiche per reinventare l’ordinario, attua pratiche di sviamento, lavora di straforo, avrebbe detto Michel De Certeau.[2] Crea regole per poi disfarle dall’interno, mettendone in luce l’aleatorietà. Afferma a chiare lettere il suo essere un artista (“I am an artist. Never mind which kind of artist, for it is such an onerous thing to have to deem oneself this or that”, scrive in una lettera indirizzata a Tom Cruise e alla NASA),[3] per poi fare giochi di prestigio con il suo nome, che appare e scompare dalle didascalie, mischiandosi ad altri, più o meno veri, e rendendo arduo (per usare un eufemismo) ogni tentativo di attribuzione.
Dall’inafferrabilità della sua (post)produzione, emergono le questioni più urgenti e, in parte, irrisolte di tutta l’arte contemporanea: autorialità, originalità, attribuzione del valore economico, ma anche il ruolo delle istituzioni nel processo di legittimazione dell’arte. Bader le tocca tutte, senza affrontarne nessuna direttamente. Come un giocoliere, maneggia palle infuocate tenendole in sospeso il tempo strettamente necessario affinché non brucino. Come un prestigiatore, mostra carte che poi fa sparire sotto altre, divertendo e al tempo stesso stordendo chi cerca di stargli dietro.
Nel rendere imprevedibili le sue mosse, Bader mostra tuttavia alcune costanti procedurali, prima tra tutte l’accoppiamento di elementi che apparentemente non hanno nulla da dirsi. Come ha scritto Luca Lo Pinto: “Pianifica degli speed dates che talvolta si trasformano in matrimoni. Fa sbocciare l’amore tra due innamorati che non sanno di esserlo”.[4] Così la lasagna incontra l’eroina, la pizza gli orecchini, i gamberi un campo di calcio balilla, una forma di parmigiano i pattini da ghiaccio, una sedia comune la sua ombra realizzata con la marmellata. Si tratta di associazioni che spesso mettono insieme oggetti di uso comune con cibo e animali, dando vita a un dialogo tra la finitezza dell’oggetto con l’imprevedibilità dell’organico, soggetto a deperimento, e dell’essere vivente (gatti, capre), libero di muoversi nello spazio.
In questi incontri Bader ama coinvolgere anche altri artisti. Emblematica in questo senso è la mostra al MADRE di Napoli dal titolo “(@mined_oud)”, dove l’artista non solo ha messo in campo i suoi slittamenti pregressi, inserendo opere di altri, attribuendosi opere non realizzate da lui – ma sue in quanto in suo possesso perché regolarmente acquistate – o, ancora, attribuendo sue opere a nomi reali e fittizi; ma ha voluto dialogare con gli artisti e le opere già presenti nella collezione del museo, intervenendo in quelle stesse sale in modo da rendere il tutto ancor più (s)connesso. Navigare la mostra può essere un incubo per chi confida nella veridicità dei cartellini museali: in un percorso costellato da inserimenti, inversioni, indizi, ammiccamenti, nonché dai suoi immancabili giochi di parole, l’artista inscena una sorta di caccia al tesoro che sollecita l’attenzione dello spettatore. Solo per i più attenti suonerà un campanello di allarme; per tutti gli altri potrebbe restare la sensazione di aver preso parte a un gioco senza conoscerne le regole.
Eppure le regole ci sono. E, in molti casi, sono nero su bianco. Ancora nel cortile del MADRE, Bader ha disegnato una scacchiera. Chiunque può organizzarvi una partita, a patto di usare scarpe o oggetti personali come pedine, oppure pedine viventi che siano ognuna in una relazione parentale con qualcun altro. I pedoni saranno tutti figli, cugini di primo grado e nipoti di zio; le torri saranno zie, fratelli, nipoti di nonno e così via, secondo uno schema preciso. Dare istruzioni, descrivere un’opera indipendentemente dal vederla realizzata, è una componente fondamentale del suo lavoro. Ci sono opere che vivono in forma di didascalie e come tali vengono vendute.
Spesso le opere di Bader hanno a che fare con accoppiamenti che il collezionista può riproporre a partire da poche indicazioni di base: “couch/fake couch”, un divano vero con uno falso; “cow and/with bed”, una mucca qualsiasi con un letto qualsiasi, a patto che siano percepibili insieme dallo sguardo. “Il lavoro può non essere costruito”, diceva uno degli statements di Lawrence Weiner del 1969 – ed è proprio in questo “essere in potenza” che si giocano molte delle partite di Bader. In quell’ironia che sa di presa in giro, che puzza di bluff ma non abbastanza: alla fine le carte le vai sempre a vedere.
Istruzioni, nominazioni, scelta dei titoli, rime – sono solo alcune delle operazioni che rendono chiaro qual è il materiale prediletto da Bader: il linguaggio. L’elemento visivo e quello semantico sono alla base delle associazioni e dei bilanciamenti pensati dall’artista; dove non è l’immagine, subentra la parola, o tutte e due lavorano insieme. Nel 2014, alla Andrew Kreps Gallery di New York, Bader presenta “To Have and to Hold”: oggetti di varia natura sono sparsi nello spazio; il comunicato stampa è una copia del contratto da rispettare in caso di acquisto di uno dei lavori, che include anche la possibilità di distruggere il lavoro stesso e di rimpiazzarlo con un oggetto simile.
The dog obsessively barks at the elevator. And I tell the dog, “That’s right, the elevator is You”. Così come gli accoppiamenti visivi seguono associazioni libere, molte delle frasi che compaiono nei lavori di Bader, si fondano su incongruenze o affermazioni sfuggenti, finanche paradossali. In alcuni accostamenti riecheggiano gli aforismi di Ludwig Wittgenstein, tra cui il più celebre “una rosa non ha denti”: “Un neonato non ha denti. Un’oca non ha denti. Una rosa non ha denti. L’ultima proposizione – si vorrebbe dire – è certamente vera! Più certa almeno di quella che un’oca non ha denti. E tuttavia non è così chiara. Infatti, dove mai una rosa dovrebbe avere i denti?”, scriveva Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche.[5] Nei continui cortocircuiti tra significante e significato messi in atto da Bader, emerge quella pluralità delle funzioni linguistiche che garantisce un rinnovamento continuo del linguaggio stesso, in grado di generare nuove (de)costruzioni di senso. Per dirla con Sol LeWitt: “I ragionamenti razionali ripetono ragionamenti razionali. I ragionamenti irrazionali portano a nuove esperienze”.[6]
Non è un caso che Wittgenstein sia stato letto e amato dagli artisti concettuali, dove per concept art si intende appunto “un’arte il cui materiale è il linguaggio”, asseriva Henry Flynt nel 1961. A voler cercare un padre concettuale di Bader, questo potrebbe essere John Baldessari, non solo per l’utilizzo ironico della parola (si pensi a Terms Most Useful In Describing Creative Works Of Art [1966-68]), ma anche per una riflessione sull’autorialità (Commissioned Paintings [1969]), fino ad arrivare a una forma di appropriazionismo che riedita opere dei colleghi (Baldessari sings Lewitt, [1972]).
Come dichiara Bader, di frequente i suoi progetti consistono unicamente “di rigore concettuale e di una certa giocosità di tono”.[7] Con un twist, si appropria di alcune procedure del concettuale storico, che riattualizza nell’era di Google e dei social media. Su queste piattaforme la formula dell’istruzione per la realizzazione dell’opera trova canali di diffusione virale e un pubblico a distanza che prende parte ai processi innescati dall’artista – come, ad esempio, nel progetto che accompagna la mostra al MADRE che, attraverso i social network del museo, dà agli internauti la possibilità di creare il proprio “Darren Bader”. L’invisibilità e la ricerca dell’impersonalità dell’artista si sposano perfettamente con l’anonimato e la libera circolazione di contenuti del web. L’immaterialità del linguaggio incontra l’immaterialità del digitale, le parentesi quadre e tonde si giustappongono nei titoli a cancelletti (“#I am just living to be dying by your side”, alla galleria Franco Noero, Torino, 2013) e chiocciole (“(@mined_oud)”, al MADRE).
Con il linguaggio, anche l’utilizzo dell’elemento sonoro è ricorrente nella pratica di Bader: alla Biennale di Lione del 2015 presenta un’installazione composta da venti altoparlanti che trasmettono simultaneamente suoni che rimandano (tra gli altri) al Vecchio Testamento, al numero di conto corrente dell’artista, alla dialettica di Hegel, agli ingredienti della Linzer Torte. Nello stesso anno, in occasione della mostra dal titolo tautologico “Rocks and Mirrors” alla galleria di Franco Noero di Torino elabora Proposta per le 9 Sinfonie, un’installazione sonora in cui le Sinfonie di Beethoven, registrate da diverse orchestre, sono tutte suonate contemporaneamente, una sinfonia per ciascuna stanza dell’appartamento dove ha sede la galleria in Piazza Carignano. Nel 2017, la sua mostra “Forest/Trees” alla Greenspon Gallery di New York è una murata di più di cento speaker neri, ognuno dei quali suona una playlist composta grazie alle parole presenti nei titoli delle canzoni: ad esempio, la playlist “Months” include dodici titoli nei quali sono citati i mesi da gennaio a dicembre; la “Salade Nicoise” raccoglie canzoni che menzionano tonno, fagioli verdi, olive, patate, uova sode, acciughe, ovvero gli ingredienti dell’insalata, e così via. Ancora una volta, tutte gli speaker suonano contemporaneamente, rendendo indecifrabili i singoli suoni.
La fluidità con cui Bader si muove tra mezzi espressivi così diversi riconduce però sempre alla scultura: anche immagine, linguaggio e suono sono concepiti come elementi scultorei, che affermano una loro presenza nello spazio. Ed è lo stesso spazio espositivo che entra nel processo di (de)costruzione di senso. L’artista agisce come un curatore che fa interagire opere di autori diversi, ragionando sulla messa in display come ingrediente completivo dell’opera stessa. In tal senso, molti dei suoi lavori non sono formalizzazioni “chiuse” ma aperte a possibili ri-editing, a seconda dell’occasione nella quale vengono presentate. È il caso della scultura/melenzana a quattro zampe/mani dal titolo Sculpture #1 che intinge la propria cannuccia/proboscide in pozze sempre diverse, contaminandosi all’occorrenza con altri lavori (al MADRE è esposta con alcune sculture cave a forma di bocce). L’opera appartiene inoltre a un ciclo di lavori che tradisce una matrice unmonumental, seppur dissimulata perché invisibile; queste sculture sono infatti riempite con materiali di scarto: olio da frittura nel caso di Sculpture #1, cavi da computer nella scultura minimal Scultpure #3, spazzatura varia con fondi di caffè e friarielli nel caso di Scultura #3.85, in omaggio alla produzione in terra campana per la quale sono stati forniti elementi dalla Fonderia Nolana Del Giudice. Un video promozionale invita alla realizzazione della Sculpture #4, progetto a cui tutti possono partecipare commissionando una propria scultura-autoritratto da riempire con materiali di scarto che non trovano una collocazione utile. Il video promuove un servizio a questo scopo, ma non è fondamentale che venga seguita questa procedura, l’importante è mettere a disposizione l’idea. “In fondo, chi non è un artista?”, recita il claim.
Partecipare al gioco è la chiave di tutto. Che si tratti di scovare indizi nascosti, sciogliere rebus, accoppiare cose, seguire istruzioni, fare una partita a scacchi, adottare un gatto sfruttando un’offerta 2´1, scartare e mangiare dolcetti della fortuna, lasciare una donazione per qualcosa o per niente, l’importante è partecipare. Jerry Saltz ha scritto di Darren Bader che il suo lavoro è “late-late-late post–Conceptual Relational Aesthetics”[8] – ed è effettivamente nella promiscuità che si accende la miccia per un mix esplosivo, che non solo fa reagire il concettuale anni Settanta con l’arte relazionale anni Novanta, ma l’oggetto trovato con la trovata, le formule matematiche con i giochi di parole, Dürer con i giornaletti porno, la nobiltà della scultura con i rifiuti, le angurie che si chiamano “gatto” con gatti veri. “Scrittore mancato”, suggerisce Bruce Hainley;[9] ma probabilmente mancato regista, compositore, curatore, Bader reinventa costantemente il quotidiano con una prolifica energia creativa che costruisce un intero mondo dove anche le regole e le istruzioni lasciano campo aperto a possibili interpretazioni, dando vita a un’imprevedibile opera collettiva.