Dopo cinque cappuccini, David Lynch è pronto ad accoglierci. Il giorno prima, con grande sorpresa visitiamo la sua mostra “The Air Is On Fire”, alla Triennale di Milano. Ci guida la responsabile dell’ufficio stampa della Fondazione Cartier di Parigi Linda Chenit, riccioluta ed energetica francese talmente amichevole che non sembra provenire dalla ville lumière. Lynch è un uomo del Rinascimento, preso in mezzo tra il freddo del nord e la perenne finta estate di LA. Un artista sempre alla ricerca di misteri che non vuole risolti. Ma solo presentati, tra surrealismo e industrial…
Gea Politi: Ciao, scusa se siamo venuti in tanti a farti l’intervista ma alcuni ti intervisteranno, altri ti guarderanno e basta. Spero che per te vada bene…
David Lynch: Certo. Avremo un’intervista da tante parti dell’universo.
GP: Allora cominciamo. Io ti vedo come un uomo del Rinascimento, capace di fare molte cose. Di solito qualcuno bravo a fare film non è molto autocritico nei riguardi della “sua arte” tramite altri mezzi (pittura, scultura, design, ecc.), ma non è il tuo caso. Tu sei decisamente più laterale che frontale…
DL: Fin dall’inizio volevo fare il pittore. Ho raccontato questa storia un sacco di volte: stavo dipingendo un giardino, di notte, nello studio, e a un certo punto ho sentito un venticello provenire dal dipinto che ha fatto appena muovere le foglie. Così ho avuto l’idea del quadro in movimento. È stata questa esperienza a portarmi al cinema, ma ho sempre continuato a dipingere. Si dice che il video sia un mezzo che ne contiene molti altri, e anche noi, in quanto esseri umani, possiamo fare moltissime cose diverse…
GP: All is in one.
DL: Esattamente, bellissimo: la diversità sta nell’unità.
GP: Ho notato che disegni molti cani rabbiosi. Non avevi cominciato a farli per il Village Voice?
DL: Non per il Village Voice, per il Los Angeles Reader e per il Baltimore Sun, e poi anche per un giornale di Chicago. Sai, c’è molta rabbia nel mondo e credo che questi cani impersonifichino una specie di rabbia repressa. Da dove proviene? Dall’ambiente e da quello che il cane vede e ascolta.
Ilaria Bombelli: Quanto è importante il suono nel tuo lavoro? Questa mostra, oltre a essere immersa nel suono, vede disseminati lungo il suo percorso dei pulsanti che possono essere attivati dal visitatore per creare ulteriori sonorità: un plot nel plot. Tu affermi che “dipinti diversi possono avere suoni diversi”…
DL: Se ti concentri su un’immagine puoi trovare il suono giusto per quell’immagine, e quando lo trovi pouf! È come un esperimento: azione e reazione. Nel cinema devi farlo continuamente. Se il suono è sbagliato, non solo non si sposa con l’immagine ma la indebolisce. Nel caso della mostra si crea un paesaggio sonoro, e trovo che attraversarla senza il suono ti porti a seguire un’unica direzione, mentre all’interno del paesaggio sonoro molte più storie vengono a galla e affiora una profondità diversa.
IB: Nell’estate del ’66 hai realizzato Six Men Getting Sick (Sei uomini che si ammalano), il tuo primo corto, per la mostra annuale di scultura e pittura sperimentale organizzata dalla Pennsylvania Academy of Fine Art di Philadelphia, che frequentavi in quel periodo: è un’animazione di un minuto che viene proiettata sei volte su uno schermo-scultura con in rilievo tre calchi della tua testa realizzati da Jack Fisk. “E la sirena solitaria suona”. Perché hai deciso di includere il suono di una sirena?
(La sua canzone preferita di tutti i tempi è Song to The Siren dei Cocteau Twins)
DL: Il suono della sirena credo significhi che… qualcosa non va. È il suono della congiura, del malessere, e ho voluto quell’unico suono fin dall’inizio del progetto. Volevo che fosse qualcosa di… piccolo. E puro.
IB: Che ricordi hai di Philadelphia?
DL: Ogni sorta di ispirazione proveniva da Philadelphia. Nella mia testa era una città malata, intrisa di terrore, tormento, corruzione. Sentivi la violenza nell’aria, così spessa, persino camminare per strada era un rischio. Ma le idee venivano, l’esperienza in quella città mi ha ispirato molto. E quando mi sono trasferito a Los Angeles mi ci è voluto un anno per togliermi quella paura, la paura di Philadelphia.
GP: Perché avevi scelto Philadelphia?
DL: Non era stata una scelta. Ero andato in Europa con il mio amico Jack Fisk (The Man In the Planet’s Sister in Eraserhead)…
GP: …per studiare con Oskar Kokoschka, vero?
DL: Sì, esattamente, ma non l’ho mai visto. Sono sorti dei problemi e siamo tornati in America. Non so perché avessi scelto Kokoschka, la scuola sembrava giusta ma Salisburgo era troppo pulita e non mi sentivo ispirato. In seguito ho passato momenti difficili, facevo lavoretti di ogni tipo, ero a pezzi. Intanto Jack, non so per quale motivo, si era iscritto alla Pennsylvania Academy of Fine Art. Io venivo continuamente licenziato, perché non riuscivo ad alzarmi la mattina, e a un certo punto ho ricevuto la lettera del servizio militare. Jack, in quel periodo, si chiamava Ludden, John Ludden, ed è successo che, facendo io di cognome Lynch, per via dell’alfabeto siamo stati chiamati nello stesso momento. Per fortuna, perché alla chiamata per la caserma in Virginia mi svegliò Jack, buttando quasi giù la porta. Altrimenti sarei andato avanti a dormire e sarei finito in prigione [ride]. Fu durante quel viaggio che mi parlò della scuola. Nelle scuole che avevo frequentato non c’era serietà riguardo alla pittura, ma Jack diceva che alla Pennsylvania Academy c’erano degli ottimi insegnanti. Così decisi di andarci immediatamente.
GP: (Abbiamo toccato un punto dolente. Lynch è noto per dare risposte molto evasive ma qui…) “The Air Is On Fire” sembra più una grande mostra collettiva anziché di un solo artista. Ma ci sei solo tu. Ad esempio, dici che una delle tue più grosse influenze è stato Kafka (addirittura l’hai definito “tuo fratello”) ma nelle foto che vedo qui c’è qualcosa più simile a de Sade: la stessa donna che impersonifica più donne, una cattiva che le scampa tutte e l’altra buona a cui va tutto storto…
DL: So cosa vuoi dire, perché attraversi molti periodi della tua vita e negli anni li vedi in modo diverso, dipende dal fatto di essere da solo o con qualcun altro, e se quell’idea ti brucia dentro vai avanti oppure cambi completamente strada.
GP: Sembra che non ci sia un’identità…
DL: Beh, ce ne sarà pure una, da qualche parte…
IB: Di un dipinto parli di “slow and fast areas”. Cosa intendi?
DL: Se guardi lì (indica una parete dove sono affissi dei poster di Tarantino), il lento è il bianco e il veloce sono i poster. Le porte sono un’area veloce, come l’interruttore, forse la parte più veloce è l’insieme dei bianchi e neri dei poster, che non è necessariamente una cosa buona. L’area lenta è più ampia di quella veloce, ma l’area veloce è critica, perché conta “quanto” è veloce.
IB: E dici anche di amare le “texture organiche”…
DL: Tutti i tipi di texture sono interessanti, ma trovo che la carne sia particolarmente stimolante, anche le ferite e la decomposizione in quanto texture lo sono. In un dipinto, la ferita è un’area veloce mentre la pelle sana è lenta. Come in una fabbrica, che all’inizio è intatta ma poi, con il lavoro, produce fuoco, fumo, e diverse texture iniziano a coprire i muri, i pavimenti, le persone. E quando la fabbrica chiude, i vetri si rompono, i muri si deteriorano, ci sono delle perdite, le cose scoloriscono e ti ritrovi abbastanza in fretta con un intero altro set di texture.
IB: Spesso il titolo di un’opera entra nell’opera stessa. L’idea è di creare una sorta di vignetta o microsceneggiatura?
DL: No, quando hai un’idea, questa ti arriva con un pezzettino di storia. E questa storia può essere riassunta in una frase.
IB: Ripensando agli anni trascorsi alla Corcoran School of Art di Washington D.C., alla School of the Museum of Fine Arts di Boston e alla Pennsylvania Academy of Fine Art di Philadelphia, quali erano le questioni che sentivi più urgenti in arte?
DL: Più di tutte, Francis Bacon…
IB: …quindi se ti chiedessi con quale artista avresti voluto fare un cambio di vite, risponderesti…
DL: …beh, di sicuro non Francis Bacon! [ride]. Ma amo i suoi dipinti, credo che in Bacon ci sia qualcosa di veramente fantastico. Forse la sua vita è stata un tormento, ma qualcosa di davvero eccezionale accadeva in quel tormento.
IB: Come è nata la serie fotografica “Snowmen”?
DL: I pupazzi di neve sono delle sculture abbastanza incredibili. Ma questa serie è nata per caso. Ero tornato in una delle mie città natali, Boise Idaho, e mi sono ritrovato nella parte vecchia della città, che non era cambiata molto da quando vivevo lì. Era inverno e aveva nevicato, ma da tre-quattro giorni, forse una settimana, e i pupazzi di neve cambiavano continuamente aspetto per via del tempo, cosa che li rendeva sculture ancora più fantastiche, degli alieni…
(Portano il sesto cappuccino a David)
(In Italiano) grazie mille (torna all’Inglese) …ovunque c’erano solo pupazzi di neve, e decorazioni, perché era quasi Natale. E questo ha creato l’amosfera, ma è stata solo una fortuna…
IB: Nei tuoi film la “stanza” sembra essere una costruzione concettuale fondamentale. Lo è anche nel tuo lavoro di artista?
DL: In un certo senso… Tutto è fondamentale, ma la stanza è critica. Il luogo, il senso del luogo è molto importante. Una figura deve sposarsi in un certo modo con una stanza, e poi ci sono le aree veloci e lente. Una stanza indica moltissime cose.
IB: Quali sono gli elementi minimi per definire una stanza?
DL: Può anche non esserci niente. Sto pensando anzi che un esercizio interessante potrebbe essere quello di avere delle foto di stanze e vedere cosa viene fuori da ciascuna. C’è qualcosa in ogni stanza, alcune non sono interessanti, altre semplicemente ti afferrano.
GP: Finiamo con la meditazione. So che per te la meditazione è iniziata il primo di luglio, nel 1970, in Boulevard Santa Monica da un’insegnante che sembrava tutta Doris Day.
DL: Esattamente! Giusto [ride].
GP: Te lo ricordi bene quel giorno…
DL: Come se fosse ieri. Mi aveva chiamato mia sorella dicendomi che aveva iniziato a fare meditazione trascendentale. Mi colpì la sua voce, era diversa, più sicura. Io ero con Catherine Coulson, che ha interpretato Log Lady in Twin Peaks; le chiedo, “Catherine, vuoi fare meditazione con me?”, e lei, subito, “certo!”. Abbiamo trovato un centro e io ho avuto il mio mantra, che è un suono molto specifico, una vibrazione, un pensiero, che dalla superficie ti porta a un livello molto profondo. Per me è stato come essere nell’ascensore quando improvvisamente si rompe il cavo… boohm! Un’esperienza unica.
Ah, è l’ora di un buon pranzetto.
GP: Sì, con tutti i cappucci che ti sei fatto, quelli sono più che un bel pranzetto…
DL: Il cappuccino qui è talmente buono, sono così felice!
GP: Sappiamo che sei un amante… produci anche un tuo caffè a Los Angeles…
DL: Oh sì, il caffè firmato David Lynch. È ottimo. Mi ricorda un po’ questo, ma gli italiani hanno il meglio. Il mio è organico, l’espresso viene dal Messico, la miscela madre è una combinazione di caffè boliviani e sudamericani, il decaffeinato da altri posti ancora… ma quando li assaggio, mi sembrano tutti familiari.