Dénes Farkas, artista estone con origini ungheresi di base a Tallin, è stato nominato per rappresentare l’Estonia alla 55ma Biennale di Venezia. Questo progetto, dal titolo “Evident in Advance” (a cura di Adam Budak) rappresenta un’occasione per guardare ai precedenti capitoli della sua opera. C’è una preistoria sulla quale io voglio focalizzarmi: con una formazione in incisione e fotografia, Farkas ha cominciato con una fotografia a colori che rappresenta persone in luoghi e situazioni intime. Il lavoro all’epoca era abbastanza tranquillo e l’artista oggi guarda a esse senza pensare al potenziale comunicativo. Senza dubbio posso ricordare qualcosa — forse più evidente l’effetto di natura morta della repentina pausa dal flusso del tempo delle immagini evocate e dalla sensibilità accentuata nei dettagli — che Farkas ha conservato di questo periodo.
Dal 2006 Farkas è conosciuto per le sue immagini a colori dalla raffinata scala dei grigi di modellini di carta bianca che rappresentano intricati spazi sociali che fungono da ambientazioni per tipiche situazioni condivise, accoppiate ai titoli (né frasi o citazioni sono inventate dall’artista) indirizzando lo spettatore verso il contesto delle immagini astratte. È stato debitamente affermato nel comunicato stampa del progetto della Biennale che “la pratica fotografica post-concettuale di Farkas costruisce la sovrastrutture della società nel momento in cui rinnova e ricostruisce la sua identità. Utilizzando significati minimali, l’artista costruisce spazi cinematici di contemplazione, dove la trama aspetta il suo autore e i personaggi sono assenti”. Su una delle prime foto realizzate in questo modo, dal titolo C. Bernstein, lo spettatore guarda lo spazio disfunzionale dell’ufficio con una serie di scrivanie vuote che si dissolvono nell’orizzonte pittorico. Come rivelato dall’accenno alle origini della citazione (non ci sono suggerimenti utilizzati nei lavori successivi) lo spazio probabilmente è riferito al quarto potere, ovvero l’ufficio del Washington Post, il luogo della scoperta dell’affare Watergate. Rispetto al generalmente positivo esito della democrazia di quel particolare evento storico, non possiamo ignorare l’apparente impossibilità delle strutture rappresentate. In un’altra immagine, Liberal Democracy, della stessa serie, l’effetto è spinto addirittura oltre la rappresentazione di uno spazio immaginario, una griglia senza fine di stanze con una porta di ingresso e due uscite come metafora dei limiti delle scelte che abbiamo a disposizione. In questo labirinto che trasuda una conclusione vagamente marxista e che non somiglia alla consapevolezza degli uomini che determinano le loro esistenze, ma alla struttura dei loro scenari sociali che determina le loro consapevolezze, non si può prestare aiuto ma solo arrivare a un certo senso di fallimento. Nella sua successiva mostra del 2009, dal titolo “How the fuck are you tonight”, Farkas continua a rappresentare spazi sociali come labirinti escheriani, coinvolgendo in un gioco con immagini dal formato di una Polaroid parallelamente a un’installazione fotografica a colori della qualità più alta. Da qui egli rende lo spettatore consapevole della doppia fase dell’artificialità pittorica prima creando gli elaborati modelli di carta e poi le fotografie. E la veridicità dell’immagine, che senza dubbio lo interessa, risiede sempre da qualche parte nel mezzo, in uno stato di flusso costante. Nel successivo lavoro Superstructure (2010) per la mostra “Blue Collar Blues”), l’artista giocava con l’immagine delle sedie che rappresentano persone tra le griglie dei social network. Egli stava andando oltre l’angolino più privato e personale e la mostra “Next to nothing” con la serie “Closing up”(2010) rappresenta luoghi intimi, per esempio un letto con due cuscini in una foto dal titolo Life Sentente, in ungherese.
Un certo cambiamento si è verificato nel lavoro dell’artista alla mostra successiva, “Let’s Play, The Game is Over” (2010). Nel mini catalogo montato sul muro come una griglia rigida, che i visitatori potrebbero prendere con sé lasciandosi dietro le pareti vuote della galleria, è stato riepilogato il suo lavoro precedente a quel periodo ed è stato mostrato in combinazione con i light box senza titolo che rappresentano parchi giochi abbandonati — un’altalena solitaria e un tavolo con una sedia messa all’incontrario. In qualche modo questo risuona con la sua ultima mostra “The day that doesn’t exist” (2012) con il suo immaginario onirico di un sogno senza via d’uscita. Nel frattempo, con il progetto “When we only still learned the words” (2011), egli ha acquistato interesse per il meccanismo basico dei nomi adattati a orizzonti semantici di differenti lingue della sua vita — estone, ungherese, russo, finlandese o inglese grazie a un altro mini-catalogo montato sul muro. Alla collettiva “Beyond” (2011) a cura di Adam Budak, l’ampia rimodellazione dello spazio espositivo di Farkas dove il lavoro era situato, The Great Hall al KUMU Art Museum, era in coppia con titoli apparentemente irrilevanti di fronte all’immagine, presa dal saggio The Judgement Day di Giorgio Agamben e aperto con definizioni di parole ricorrenti dal dizionario etimologico. Si trattava di una meditazione sulla veridicità di entrambi i media — parole e immagini. La verifica delle parole utilizzate infondeva inoltre dei dubbi sul visibile mentre l’ultima modellava la realtà dello spazio espositivo in una spaventosa maniera senza vita. È stato con queste ultime due mostre menzionate che Farkas ha a poco a poco approcciato l’ambizione teorica del progetto “Evident in Advance”. Sembra che preso tra l’artiglieria pesante teoretica — scrittori come Bruce Duffy (troppo biografico) e Georges Perec (troppo dettagliato), i filosofi Ludwig Wittgenstein (troppo ermetico) e Gaston Bachelard (troppo intimo) — con le foto che modellano gli interni del leggendario Villa Stonborough-Wittgenstein, l’artista è nuovamente destinato a negoziare le inadeguatezze della rappresentazione, fallendo e fallendo ancora per fallire più gloriosamente, per parafrasare uno degli autori preferiti dell’artista.