Su Dewar et Gicquel la critica francese ha già fatto il suo primo giro di ronda. Dopo gli allori del Prix Marcel Duchamp, vinto nel 2012 contro le previsioni di una parte dei bookmaker, per descrivere la loro scultura si è parlato di sabotaggio del ready-made duchampiano, di humour, di pulsione totemica, di dilettantismo rivendicato, d’interesse per l’artigianato, di forma come veicolo di contenuto e di contenuto come veicolo di forma. Tutto molto vero: le loro toilette in argilla occhieggiano senza dubbio al ready-made, salvo che sono handmade, i titoli delle loro opere eleggono il nonsense alla Lewis Carroll a nuova chiave di lettura del mondo, la scelta dei loro soggetti scultorei — una monumentale tuta tecnica da pescatore in gres, un sandalo Birkenstock solitario in legno, una Ferrari marmorizzata — mette in scacco tutte le regole della statuaria classica, mescolando e confondendo allegramente i generi, le iconografie e le iconologie. Un esempio per tutti? L’opera che è valsa loro gli onori duchampiani, Gisant: scultura funeraria delle più atipiche, il compianto di Dewar et Gicquel era un sub in pietra supino, con tanto di muta, pinne e boccaglio.
Ma se, in fondo, fosse tutto molto più semplice di così? Dal vivo, Daniel Dewar e Grégory Gicquel sono timidi. Parlano poco, evitano accuratamente ogni riferimento teorico o teoretico, si esimono dal fare sfoggio di citazioni colte e di prese di posizione a effetto sulle loro opere e sui loro metodi di lavoro. Annuiscono disciplinatamente quando si parla loro di Baudelaire e del Pittore della vita moderna, entusiasta della libertà accordatagli dalla perdita accidentale di quell’aura che Benjamin avrebbe reso, qualche decennio più tardi, un grande classico del nostro tempo. Ammettono che lo humour è uno dei loro interessi, che l’artigianato li affascina, che fino a ieri l’etichetta di dilettanti calzava loro a pennello, perché hanno iniziato con la fotografia e l’installazione, la scultura è venuta più tardi: “un incontro quasi casuale e una conquista progressiva”.
Tutto sommato, però, l’unica definizione ricorrente in cui Dewar e Gicquel sembrano riconoscersi davvero, è quella di praticien: termine che non parrà azzardato definire umile, visto che, nei grandi atelier di scultura dei tempi che furono, i praticanti erano quei giovani scultori in erba incaricati di sgrossare la pietra prima che il maestro traesse, dal blocco sbozzato, le forme della vita. Un termine umile, certo, ma anche carico di conseguenze critiche, perché rivendicare i diritti della mano e della materia, oggi, non è cosa di poco conto. La scultura, per Dewar et Gicquel, è quindi innanzitutto una pratica: una disciplina meticolosa che trae la sua prima ispirazione talvolta da un materiale — l’argilla, la pietra granitica, la ceramica ma anche i tessuti, il legno, l’acciaio — talvolta da una visione fugace, da una discussione, da un’ipotesi che, nella scelta di una certa tecnica e di un certo materiale, trova il suo equilibrio aureo e la sua ragione necessaria.
Nell’ambito di questa esigenza pratica costante, esito dell’agire della mano sulla materia, la scultura di Dewar e Gicquel articola le sue soglie di ambiguità e di chiarezza, le sue derive soggettive e oggettive, i suoi riferimenti scherzosi o serissimi alla storia dell’arte e dei generi nell’arte: libera per esempio di perdere il proprio corpo per farsi immagine, come nella loro ultima installazione site specific per il Palais de Tokyo. “Jus d’orange” articola, nello spazio di due sale, due degli innumerevoli destini possibili della scultura come interrogativo aperto: nella prima, il paradosso di un bagno pubblico d’artista, collezione di sanitari manufatti tanto fedeli a quelli industriali nell’aspetto, quanto inservibili nella pratica. Nella seconda, una proiezione video all-over che avrebbe fatto invidia a Pigmalione, ma anche ai precursori tardo-secenteschi del cinema: un minuetto ciclico di figure animate secondo il principio della stop motion e della lanterna magica, frutto di una sceneggiatura per sole sculture i cui attori d’argilla sono esistiti per l’attimo di un ciak.
“Tutto quello che scrivono su di noi ci interessa ma, se dovessimo scegliere, ci piacerebbe che la critica si occupasse piuttosto di descrivere le nostre opere, di farle vedere”: ancora una volta una trappola di disarmante semplicità, se è vero che la traduzione delle immagini in linguaggio è un’operazione solo apparentemente innocente. Operazione ancor più complessa, se si considera il carattere ondivago e capriccioso del percorso del duo francese, la natura enciclopedica e bulimica di un’ispirazione che non esita a sovvertire ogni automatismo plastico e concettuale tra soggetto, materia e titolo, mescolando classico e contemporaneo, cultura alta e immaginario pop, grandi occasioni e quotidiane banalità, mitologie occidentali e totem esotizzanti. Nel buen retiro bretone dove si riuniscono per deliberare e sferrare i loro assalti alla materia, il risultato di questo processo tanto muscolare quanto creativo è imprevedibile anche per i suoi autori: talvolta erudito, talvolta naif, spesso ironico, ancor più spesso surreale. Sempre patafisico, nel suo senso primario di una “scienza delle soluzioni immaginarie”.