La scelta di Diego Esposito di sentirsi costantemente altrove asseconda lo stato d’animo del viaggio radicale di sola andata, dove uno zen naturale e l’abbandonarsi all’idea dell’emblematica promenade proustiana elaborano un’esperienza rigenerante e totalizzante del paesaggio come passaggio. L’itinerario segna il limite fluido tra il sé e la molteplicità del mondo, secondo un ascolto intenso del luogo con cui si instaura una relazione psicologica, sentimentale e concettuale.“I viaggi sono i viaggiatori”, scrive Fernando Pessoa, “ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo.”
La condizione dell’altrove, anche nel senso atopico della dislocazione interiore, amplia l’orizzonte con continui spostamenti della visione tra reale e simbolico, dal dentro al fuori, che dall’autore si trasmette all’osservatore, con il quale si cerca una sintonia, instaurando un rapporto autentico scevro da automatismi indotti e fuori da ogni retorica demagogica. La componente emozionale è il punto di contatto tra l’artista che la vive nel momento processuale e operativo e il fruitore nel pieno del coinvolgimento, sulla scia dell’opera d’arte totale dell’avanguardia, declinata con un linguaggio essenziale e cangiante, quanto più alieno da effetti speciali, ma neanche soggetto ad anoressia espressiva.
L’idea dell’arte di Diego Esposito è all’insegna del transito, che gli appartiene come maieutica, come metodo dialogico attraverso il quale ognuno scopre la propria verità, all’insegna della concezione dinamica del divenire dell’esperienza che assume inevitabilmente la forma di un ossimoro e un carattere enigmatico, in linea con le filosofie di vita orientali. Il difficile equilibrio su questo confine slittante, un luogo liquido e reticolare per eccellenza di connessioni tra vita e arte, culture, esperienze, differenze e cronologie, tra back to the future e departure from the past, su cui l’artista ha scelto di collocarsi, ne ha contraddistinto la tenuta di strada lucida e autonoma da grande outsider e incoercibile spirito libero.
Esposito esordisce verso la fine degli anni Sessanta, in linea con lo spirito del tempo, vivendo l’impegno sociale come ricerca individuale estendibile in termini di partecipazione, anticipando la fase post-ideologica. Ieri come oggi alle prese con la riflessione sulla prassi artistica anche nella sua concezione fattuale oltreché concettuale, con le problematiche percettive nel loro ampio spettro di accezioni e con l’idea dell’opera stessa come soglia, tra concretezza e smaterializzazione. Più che cercare, Esposito preferisce non tanto trovare picassianamente quanto più sommessamente ritrovare e ritrovarsi per poi un po’ romanticamente perdersi ancora assecondando un impenitente impulso a rendersi inafferrabile, cosa che naturalmente non esclude sintonie sperimentali e affettive come quelle romane, soprattutto con Francesco Clemente e Tullio Catalano. Anche il lusso di entrare e uscire dal sistema è una forma di passaggio di un apocalittico/integrato che crede all’etica del linguaggio come dimensione ontologica che riporti continuamente a metterne in discussione i confini, espressa in termini radicali di riduzione in una complessità densa di rapporti e significati.
L’opera come luogo dell’anima, campo magnetico e dispositivo catalizzatore spazio-temporale, in un fatale rapporto con il contesto particolare e con l’universale, getta idealmente un ponte tra i quattro punti cardinali: è un omphalos, un ombelico del mondo, un centro di gravità “impermanente” situato idealmente a Delos, la sacra isola-barca, uno dei luoghi di elezione dell’artista che, oltre la Grecia, si spinge in una rotta tutta a Oriente, medio ed estremo, dove respira sufismo, taoismo e relativa luce gnostica a pieni polmoni, dove ascolta il silenzio, pensa che “l’occhio sia muto”, scopre il concetto giapponese del MA, l’indefinibile per eccellenza, che non casualmente è indicato calligraficamente da una porta, sintesi di spazio e tempo, di interno ed esterno, aperto e chiuso. In Italia da Teramo, sua città natale, Diego Esposito si reca a Roma, poi a New York, girando da cittadino del mondo per i campus statunitensi, a stretto contatto con la beat generation; dopodiché parte e riparte per la California on the road again. Attualmente vive tra Venezia e Milano.
Scultore en plein air, interfacciando Paul Cézanne, Caspar David Friedrich, William Turner e Land Art da una parte, e Henri Matisse, Mark Rothko, Barnett Newman e Lucio Fontana dall’altra, colto da sindromi stendhaliane davanti a Caravaggio e agli affreschi pompeiani, Esposito intreccia minimalismo, concettualismo ed espansività emotiva, East & West, scultura e pittura, creando così il suo percorso personale, un vero e proprio tao che non ha nulla a che vedere con il frammentario nomadismo postmoderno: sperimentando l’attraversamento in quanto tale, libero dal condizionamento della meta, prende distanza anche dalla progettualità ideologica del moderno, proponendo una terza via.
Tutti i lavori di Esposito, immersi nell’ambiente o in luoghi chiusi, sono sue dirette emanazioni, organismi espansivi dove il vuoto da semplice concetto viene trasformato in oggetto estetico in architetture di pura energia, luoghi di tensione o giardini zen in cui il massimo è espresso con il minimo dei mezzi, come il progetto articolato su vari punti dei continenti a indicare un incontro ideale con l’asse terrestre, che ribadisce un’idea dell’arte non circoscrivibile se non nella sua essenza processuale e nel riverbero emotivo che rimanda a una dimensione globale ma non globalizzata. Tramite la prassi del sopralluogo, l’artista rivitalizza l’essenzialità dei contesti, come nelle opere dalla metà degli anni Ottanta, attivandone le tensioni occultate con attitudine rabdomantica ed evocandone l’aura per un contatto intimo che fa risuonare kandinskyane corde interiori. Per quanto eterogenee, le opere sembrano nascere per partenogenesi le une dalle altre, costituendo un organismo unico dalle molteplici direttrici concettuali e sensoriali, considerando possibili prospettive, relativi ribaltamenti e punti di fuga, in una visione che comprende anche l’istanza di perdita, di smarrimento, di malinconia. Si accorpano in famiglie, dagli “Oggetti invisibili” ai “Corpi neri”, toccando il punto massimo dell’incandescenza fino a eclissarsi, più per assecondare un istinto di protezione che per declinare l’esercizio dell’assenza, in totale simbiosi con l’ambito della loro collocazione. I titoli sono significativi: Arco, Architettura stellare, Dualitudine, Cascata, Giardino, Celato/Svelato, Passaggio, Tavola per naviganti, Volo dell’uccello notturno, fino ai “Naos” dove lavora dal 2000 sull’occlusione, sull’impraticabilità dello spazio come altra faccia della medaglia.
La vibrazione luminosa si fa vibrazione sonora in partiture strutturali, good vibrations non scevre da sfasamenti, vertigini, pensate in sinergia con musicisti sperimentali, o affidate alla loro sensibilità per orchestrarne tutte le potenzialità, fino alla recentissima elaborazione del compositore Roberto Cacciapaglia di quattro suoni evocativi di altrettanti venti in Magnetic Attraction, un’installazione site specific pensata in versioni e dimensioni variabili dal 2005 al 2010.
L’oscillazione tra eternità e precarietà, geometria e indeterminatezza, radicamento e rizoma, ancestralità e presa diretta con la realtà, progettualità architettonica e processi naturali, tempo e spazio, geometria e rarefazione, sparizione e apparizione, orientamento e disorientamento, apertura e chiusura, è il movimento di sistole e diastole dell’opera, il suo respiro pulsante e vivo. Oltre la rigidità banale della dicotomia, perimetra un territorio di elezione dove lo spazio infinito si trasforma in spazio empirico, un luogo abitabile dove tutto è esplicito anche se nulla è spiegato, ed è lì alla portata di tutti. Dove ci si può perdere perché quelle architetture cromatiche, misteriose e fatate, ci suggeriscono che in fondo è facile ritrovarsi ancora, come sperimenta romanticamente e ineluttabilmente ogni giorno Diego Esposito, artista globale e di frontiera, sulla propria pelle.