Non c’è probabilmente nulla di più ozioso del guardare uno skater alle prime armi.
La cosa che curiosamente mi appare più ingombrante e, in qualche modo, da ripensare del lavoro di Diego Marcon, è il lungo piano sequenza in She Loves You dove egli riprende un ragazzino che tenta di fare un olley con lo skateboard e, invariabilmente, fallisce. Non è secondario il fatto che l’inquadratura sia sistemata in modo che egli sia incasellato centralmente, davanti ad uno di squallido palco che accentua l’insopportabilità dell’insieme. La cosa che mi ha sempre colpito è che, ad un certo punto, la telecamera comincia una lunga panoramica a 360 gradi, che abbraccia lo scenario circostante (un interstizio fra una provinciale ed una fabbrica abbandonata nel Varesotto) e che torna allo stesso punto di partenza, senza che l’olley sia effettivamente riuscito. Nel frattempo, fuori campo, continua a sentirsi ad intervalli regolari il rumore della tavola che si schianta sull’asfalto.
E’ curioso che proprio questa scena banalissima mi salti alla memoria più di molte altre; però mi pare che in qualche modo in essa sia contenuto un tema cruciale della sua poetica, che é la noia. Noioso è il soggetto, indesiderabile è il luogo, ma diabolico è l’infierire con una panoramica che, ritornando nuovamente lì al punto di partenza, fa erompere l’angoscia di un tempo circolare che si richiude su sé stesso all’infinito. Senza che, peraltro, l’olley riesca mai.
Diego Marcon, sebbene il suo lavoro sia visibile soprattutto in contesti legati all’arte, proviene dal cinema. Ricordo che al liceo aveva una discreta quantità di videocassette, tutte scrupolosamente etichettate e catalogate, che occupavano un’intera parete della sua camera da letto.
Erano i primi duemila, e internet non aveva ancora dato il colpo di grazia all’analogico che continuava a prosperare nelle case dei videofili. Egli stesso scambiava con altri amatori film rari per posta; mi sembra di scorgere in questa attività un’ansia catalogatrice che diverrà poi una parte importante del suo lavoro. Quest’ansia tuttavia non è per me tanto evidente nel processo di accumulazione di chilometri di nastro, ma nella catalogazione: nelle file di etichette bianche tutte vergate allo stesso modo, con la stessa impaginazione interna, il margine in alto a sinistra per il titolo, quello in basso a destra per l’autore. La collezione deve essere ancora lì a casa di sua madre, ormai praticamente inservibile… Mi viene da pensare ai miliardi di tonnellate di materiale sul quale questa memoria video e audio veniva registrata, e che ora è semplicemente massa inerte, peso puro. E’ facile che a questo pensiero scaturisca un certo sentimentalismo, ma non credo che questo sia il caso, per esempio, di SPOOL.
SPOOL è un progetto che si articola in una serie di lavori, chiamati tapes, ciascuno dei quali parte da un differente archivio di film di famiglia. La particolarità che lo distingue dal mare magnum di lavori di questo tipo è la tipologia dell’archivio: si tratta infatti di video analogico e non di pellicola, il che cambia completamente la natura del materiale. Il supporto video, più economico, trasformò l’archivio di famiglia in qualcosa di simile al prodotto di una telecamera di sorveglianza: una mole smisurata di materiale destinata, nella maggior parte dei casi, a non essere mai rivista. L’archivio di famiglia viene, in qualche modo, spinto al di fuori della sua consueta ritualità: la videocamera è sempre accesa e, perciò, ormai invisibile. Questa sua invisibilità le permette di penetrare in luoghi invisibili, ovvero la dimensione domestica; non tanto come luogo fisico ma come luogo relazionale e intersoggettivo. La casa e la famiglia, difficilmente rappresentabili o documentabili da un osservatore esterno, vengono così mostrate in una nudità, per così dire, autentica, a volte perfino disturbante. L’autore dei filmati è un membro della famiglia (spesso si tratta del padre) e la videocamera assume i tratti di un inconsapevole strumento psicoanalitico: ogni movimento di macchina, ogni insistenza, ogni omissione è potenzialmente test clinico.
Ma a parte tutte le considerazioni di ordine psicoanalitico che si possono fare su SPOOL, trovo che ciò che vada indicato è il basso fondamentale che percorre tutta questa serie di lavori, ovvero, ancora una volta, la noia. La videocamera riprende non il luogo di lavoro, ma il tempo libero; e, diversamente da quanto poteva succedere con la cinepresa, essa viene azionata non per riprendere eventi speciali, ma viceversa per riprendere il consueto scorrere della vita: ciò che viene prodotto è un duplicato integrale della vita, ma privato dell’immediatezza. Nelle interminabili riprese di fasciatoi, gite in bici, spiagge e album fotografici si delinea una umanità del tempo libero intenta nell’oblio di sé, per dimenticare l’orrore di un qui e ora consumato in famiglia, perduti in una provincia lontana e senza rimedio. Forse questi archivi vanno visti come doppelgänger spettrale, prodotto a immagine e somiglianza della vita per scongiurarne un’angosciosa singolarità senza senso. Forse è questa, sin dal principio, la vocazione dell’immagine.
Nausea dolce, sulla poltrona di un cinema, quando fuori fa freddo e ci si lascia andare al sonno.
Mi ha detto Diego che ha in progetto un film durante il quale ci si potrà addormentare e che, risvegliandosi, lo si possa trovare ancora lì, immutato.
Nella sua ricerca c’è un tema sotterraneo ma onnipresente del sonno, appena indicato o sfiorato, che tuttavia pare impregnare lo sguardo; viene sempre da chiedersi, come quando ci si addormenta, se si è già al di là, o non ancora. C’è tutta una schiera di fantasmi pronta ad emergere, ad erompere fuori da una immagine che a stento li contiene: in Storie di fantasmi per adulti la vecchia casa di un cacciatore diventa la roccaforte contro l’invisibile; e pare veramente che il traboccare di suppellettili sia una sfida quantitativa a ciò che sta fuori, sconosciuto e selvaggio. Del resto il cacciatore non si accontenta delle modeste figure apotropaiche di cimeli e fotografie; deve avere il suo arsenale ben carico, quando decide di uscire nella notte. I trofei di caccia che riempiono le pareti mostrano al visitatore le creature che vivono al di là del confine. Catturarle vive non si può: al di qua devono essere imbalsamate, e divenire immagine esse stesse.
Non dev’essere casuale che il suono dei grilli e delle cicale ricorra nel lavoro di Diego Marcon; in Litania diviene un refrain costante, dal primo all’ultimo secondo, e accompagna lo spettatore nel calare della sera, fino al buio più completo. Esse ci cantano dall’invisibile; ci testimoniano la potenza evocativa dell’udito, che può almeno stare in ascolto di ciò che non si vede, ed è così tutt’uno con l’oscurità. Platone descrive le cicale come una antica stirpe umana che si abbandonò così a lungo al canto da dimenticare di nutrirsi, e perciò morì; le Muse, in ricompensa, restituirono loro una vita interamente dedicata al canto: voce mistica di coloro che hanno dimenticato il corpo dietro di sé, e vivono ora come sola presenza spettrale.
Nella mostra Pour vos beaux yeux il piccolo spazio di Gasconade è dominato esclusivamente dal pannello di proiezione, un rettangolo bianco che fluttua nel buio; sulle prime pare che sia illuminato di pura luce proveniente dal proiettore, ma a ben guardare ci si accorge che c’è della sporcizia di pellicola che frigge sulla superficie. Infine, dando il tempo agli occhi di abituarsi, appaiono i profili diafani, appena percepibili, bianco su bianco, di nuvole. La loro immagine pare farsi strada con fatica attraverso i molteplici supporti. Ci accorgiamo a tratti dei nostri stessi occhi, attraverso la scia di compensazione lasciata sulla retina dalle zone più luminose, che trasformano il tutto in un confronto di masse rossastre. Nonostante l’aspetto anemico questo lavoro deve iscriversi nel filone del paesaggio di nuvole; esse sono state un oggetto intrigante per la pittura occidentale in quanto incerto per eccellenza, forma priva di sostanza.
Pare che Turner solesse stare a lungo nello studio buio, per poi aprire le tende di colpo e sperimentare una cecità temporanea. In un suo dipinto un sole abbagliante dilaga su un paesaggio costiero, annichilendo i profili di uomini e navi ai margini della tela. Il quadro si riferisce a Marco Attilio Regolo, un militare romano che fu condannato dai cartaginesi all’abbacinamento, tramite l’asportazione delle palpebre. E’ difficile stabilire se la sua figura è fra quelle presenti sulla spiaggia; viceversa il dipinto potrebbe essere una soggettiva di Regolo, in preda alla lacerante agonia della vista.
L’ultimo lavoro di Diego Marcon è Interlude (introducing Dick the Stick); si tratta, sorprendentemente, di un cartone animato, come se dopo la tabula rasa costituita da Pour vos beaux yeux dal bianco potesse solo riemergere una linea di contorno. “A nord, nulla. A sud, nulla. A est, nulla. A ovest, nulla. Al centro, una tenda e, davanti alla tenda, un soldato impegnato a lucidare uno stivale”. Così recita il testo di Georges Perec al quale il film è ispirato e che è stato trasformato in immagine con un paziente lavoro di disegno.
La sensazione di spaesamento generata da questo lavoro somiglia a quella di uno spettatore che, dopo aver assistito ad una lunga, trascinante, ispirata ouverture orchestrale in un teatro, al termine dell’impetuoso crescendo finale e in un silenzio sfiorato solo dal fruscio del sipario che finalmente si apre, osservi interdetto al centro della scena un idiota che, imperterrito, lucida il suo stivale.
Alle sue spalle c’è una tenda: probabilmente è lì che dormirà, prima di ricominciare a lucidare un frame dopo l’altro, per chissà quanto tempo ancora.