“La semplicità della forma non si traduce necessariamente nella semplicità dell’esperienza”. Se dovessi riassumere “Incontinent”, la personale di Dora Budor alla GAMeC userei probabilmente le parole di Robert Morris. Il minimalista fuori dalle righe, che si allontanava dalla specificità dell’oggetto a cui teneva tanto Judd, scriveva questo passaggio in “Notes on sculpture, Part 2” su ArtForum nel ’66. Ho ripensato a quel testo e a quelle parole nello specifico davanti ai due parallelepipedi incompleti e vuoti che impattano l’ingresso dello Spazio Zero del museo in cui è allestita la mostra. Un calco tripartito di ventinove metri lineari, Kollektorgang (I-XIV), Kollektorgang (XV- XXIV), e Kollektorgang (XXV-XXIX) (tutte 2021), – di cui a Bergamo ne vediamo solo due porzioni – prodotto per “Continent”, una mostra decisamente più muscolare alla Kunsthaus Bregenz (2022).
A Bregenz Dora Budor concepisce la scultura-installazione facendo un calco della sezione di tunnel a diaframma (le cui pareti si estendono verticalmente) che circonda le fondamenta della Kunsthaus, un espediente ingegneristico “utile” alla vita della stessa poiché impedisce il collasso degli edifici adiacenti e espelle le infiltrazioni del suolo alluvionale su cui Peter Zumthor progettò l’edificio. Così i muri di Kollektorgang presentano un esterno e un interno, due facce della produttività: ciò che vediamo esternamente, appena entriamo o muovendoci lungo il perimetro dello spazio “sacrificato” di quell’area della GAMeC, è una superficie pastosa, porosa, data dal tipico silicone da restauro impiegato per la pulitura dei monumenti preservandoli dall’abrasione – il lattice ha assorbito lo sporco del tunnel donando alla superficie un carattere epidermico; all’interno invece l’effetto ottico e tattile è decisamente diverso, la struttura viene compattata con una mistura di cemento e carta tritata raccolta dalle realtà produttive che circondavano lo studio dell’artista a Berlino durante i mesi di produzione di “Continent”.
Se a Bregenz Budor trasla i muri dalle fondamenta nello spazio espositivo, costeggiandone il perimetro e riflettendo sul vuoto quale dimensione di reazione alla iperproduttività, qui a Bergamo la tensione si gioca sui pieni, a tratti sulla costrizione del corpo tra i corridoi angusti determinati dai volumi di Kollektorgang e dal leggero effetto percettivo dato dalla resina lucida che fissa una esigua percentuale del grigio del pavimento sulle pareti perimetrali.
Un deumidificatore è abbandonato all’interno di uno dei muri, un elemento che gioca ancora una volta con la nozione di uso/produttività. Tanto fisico è l’oggetto quanto invisibile il rumore che proviene dagli indotti di areazione: Termites (2022), i vibratori che Budor ha collocato in questi elementi infrastrutturali della stanza, che attivati urtano sulla superficie metallica contaminando l’esperienza.
Perciò non è un azzardo dire che la forma di Budor è ‘semplice’, ma non è propriamente corretto, anzi rischia di essere approssimativo. La formane i lavori di Budor è sempre il risultato del cortocircuito di un processo, riattivato al contrario, destrutturato e ricucito – come le linee di sutura visibili tra una lastra di muro e l’altra in Kollektorgang, che mi hanno riportato alla mente i punti di giunzione nel lavoro presentato nella mostra “Ephemerol” da Ramiken Crucible a New York (2015) –, ma mai del tutto risolto nell’oggetto.
La pratica di Budor mette alla prova la comunicabilità dell’arte e dell’artista, e negozia costantemente la sua abilità nel celare/calare un processo dentro la forma. E lo fa anche in Love Streams (2022), una serie di lavori concepiti in momenti che Budor definisce improduttivi nell’economia delle sue giornate lavorative. Allestiti lungo la parete del corridoio adiacente, Love Streams inganna ancora una volta la percezione della forma: quelli che sembrano schizzi su carta sono in realtà una rivisitazione del frottage surrealista, realizzati sfregando con la carta vetrata i residui di psicofarmaci antidepressivi sul pavimento e sulle pareti del suo studio.
Questa sorta di automatismo evade per un momento dalla processualità chirurgica che caratterizza le produzioni di Budor. È un respiro, una possibile cura agli impedimenti della forma o della vita.Dora Budor,Kollektorgang (I–XIV)eKollektorgang (XV–XXIV), 2021. Vedutadella mostra “Incontinent” pressoGAMeC, Bergamo, 2022. Fotografia diAntonio Maniscalco. Courtesy l’artista eGAMeC, Bergamo.