Luca Trevisani: Una scuola si giudica per il prestigio degli insegnanti (ovvero il suo potenziale) o per gli studenti sfornati?
Alberto Garutti: Non sembra difficile rispondere a questa domanda perché appare evidente che sia i docenti prima che gli studenti poi, ossia coloro che la fanno funzionare determinino il valore di una scuola. Ma sarebbe troppo facile se non si considerasse come importantissima la caduta di queste energie nella realtà della vita. Infatti, credo che il vero valore di una scuola debba risiedere nella capacità della stessa (che è fatta di insegnanti e studenti) di determinare nel territorio un’influenza positiva proiettando anche nel tempo il suo valore potenziale che ha a che fare con i vari processi di ordine culturale politico ed economico. Una scuola deve essere un’interfaccia con la realtà. In primo luogo perché al suo interno si deve prima di tutto imparare a costruire una visione critica etica e poetica; poi, questa deve essere gestita, nei rapporti con l’esterno, come una qualsiasi azienda: in questo senso il marketing fa lezione! Aiuta a capire che ci deve relazionare con il territorio, conoscere i destinatari del proprio lavoro, destinatari che sono anche gli inconsapevoli committenti, comprendendo dunque le evoluzioni sociali. Insomma una specie di marketing strategico che si basi sui bisogni degli individui e sulle organizzazioni.
Si potrebbe sintetizzare così: il 50% di un opera d’arte è composto dal suo pensiero e dal suo essere opera. L’altra metà di essa, consiste nella sua gestione. È questo che la scuole dovrebbero insegnare.
LT: Penso al Bauhaus o al Black Mountain College, di cui si parla per gli insegnanti altisonanti e per il programma, ma non per chi vi è stato formato.
AG: Il successo dell’insegnamento si misura nella fama raggiunta dallo studente? Credo di sì, anche se io non ho mai pensato al successo del mio insegnamento né alla fama dello studente.
LT: In molti definiscono il suo insegnamento come prettamente strategico. Come non ci si fa abbindolare dal sistema?
AG: Già faccio fatica a parlare del mio ruolo di insegnante, perché lavoro con l’idea che ci si debba liberare dall’abito istituzionale del docente, ma anche di quello dello studente. A me non interessa che lo studente che mi porti un bel “compitino” per prendere 30 e lode, ma mi interessa che queste due figure (il docente e lo studente) si trovino sul “terreno comune” dell’opera d’arte, con tutti i problemi e le domande che questo tema pone. Per esempio la responsabilità rispetto al proprio ruolo di artista prevede la conoscenza dei meccanismi del sistema, la frequentazione sistematica delle mostre che ci interessano, che sono la vera scuola a cui noi facciamo riferimento. Potrei andare avanti con un lunghissimo elenco. Ma vorrei dire una cosa che ritengo importante: bisognerebbe tentare di fare un’operazione di educazione sentimentale… Un giorno mi intervistarono e mi chiesero quale consiglio potevo dare al ministro dell’Istruzione, risposi dicendo che non volevo dare alcuna indicazione, ma poi me ne venne in mente una e dissi: “Vorrei che in tutte le università si tenessero dei corsi di educazione all’emotività, una specie di educazione sentimentale”. Mi guardarono con un certo scetticismo e l’intervista si chiuse. Ma questa è una cosa che tento di fare sempre con i miei studenti, perché credo sia il tessuto connettivo che tiene insieme il mio corso. Io lavoro molto su quello. Mi sembra che lavorare sull’educazione sentimentale sia irrinunciabile, direi prioritario.
LT: Quali pensa siano le responsabilità di un artista che insegna ad altri artisti, o futuri tali? Le pesano?
AG: Faccio difficoltà a pensarmi nel ruolo di insegnante. A me interessa che i giovani, coi quali mi incontro in Accademia, si appassionino moltissimo al loro lavoro, al punto tale da essere essi stessi portatori di sensibilità, visioni e nuovi scenari. Insomma, la cosa importante è che il corso non lo faccia io ma che si autogeneri. Mi aspetto che un giovane mi prenda sotto braccio e mi dica: “Alberto, vai in fondo alla via, gira a sinistra, al semaforo a destra, sempre dritto”… Penso che sia davvero così.