Elisabetta Benassi: Mi colpisce sempre il modo imprevedibile con cui vengono percepite le immagini, la nostra capacità di renderle ogni volta diverse: per me ogni opera è in effetti un innesco, un’ipotesi per nuove immaginazioni. Si tratta di creare un intreccio, una complicità di sguardi. Vorrei iniziare questa intervista giocando con questo modo “incrociato”: vorrei fare io a te, Lorenzo, delle domande sul mio lavoro e sviluppare una complicità, scambiarci i ruoli, anche perché considero i miei lavori come mezzi per creare risposte possibili e non come risposte in sé. Prendiamo ad esempio il mio ultimo video, Yield to Total Elation, che ho appena presentato a Roma. Ci sono tre “attori” — un’automobile rossa, un cavallo al galoppo, una cava di sabbia che divora indifferente una montagna — che si incontrano, si inseguono, si perdono e si ritrovano senza fine. Che cosa ti suggeriscono questi elementi?
Lorenzo Bruni: La macchina, il cavallo e la cava mi sembrano anzitutto un’immagine del moto perpetuo, del consumarsi e ripetersi di un tempo ciclico. È qualcosa già presente in altri tuoi lavori ma che qui diventa la materia stessa delle immagini. In questi anni hai esplorato i nodi dell’identità personale o collettiva di volta in volta riscoperti, rivitalizzati o a cui hai dato nuova visibilità (una visibilità “epifanica”). In qualche modo, lo scriveva Marco Belpoliti nel 2004, ti sei sempre occupata di fantasmi, di tematiche non risolte o non esplorate fino in fondo: lo hai fatto con Pier Paolo Pasolini (You’ll Never Walk Alone, 2000), col sogno modernista del Lingotto a Torino (Terra, 2004), col rimosso della Storia nell’intervento a Ostia Antica (Die Zukunft einer Illusion, 2005), con la distanza culturale nel video girato al Louvre nella sala de La Gioconda (Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 2004). In questo nuovo lavoro gli elementi di cui ti servi sono ancora diversi, c’è una contrapposizione tra forza meccanica ed energia istintuale, non nel senso di un’opposizione ma come una possibile convivenza tra le due forze. Celebri lo sforzo. Forse è questo il significato ambivalente di essere “protesi a una totale esaltazione” di cui parla il titolo, di celebrare la vitalità degli attimi disperdendosi nel tempo. La cava è una metafora perfetta di tutto questo. Questa idea c’è anche in un altro tuo video, The Dark Horse of The Festival Year (2006), in cui le rovine barocche di Palermo appaiono e scompaiono alla luce di un razzo legato a una bicicletta.
EB: Sì, ma più che l’idea di perdita o di oblio mi interessa quella di durata. Mi viene in mente un’opera di Bruce Nauman, Work, in cui una voce ripete ossessivamente “Work! Work! Work!…”: quel che serve è essere sempre presenti a se stessi. La ripetizione infinita dell’inseguimento nella cava non significa sfuggire al presente e al futuro, ma riconquistare un potere sulle cose, il potere per chi guarda di immaginarle e di cambiarle. Ci sono altri lavori in cui invece l’entropia si è definitivamente insediata, in cui il tempo è consumato, come le fotografie che intitolo “Suolo”: ritratti in scala 1:1 di terreni, paesaggi mobili, franosi su cui si accumulano scorie, detriti minimi, indifferenti e privi di malinconia…
LB: E anche la scultura La vie à crédit (2006), con quel movimento circolare che incide poco a poco lo spessore della superficie e finisce per sabotare il suo stesso funzionamento…
EB: Sì, è un meccanismo costruito per essere imperfetto e per autodistruggersi alla fine. Ma per tornare al potere di evocazione delle immagini, al desiderio di nuove possibilità, ti vorrei fare una domanda. C’è un mio lavoro che non mi è stato alla fine possibile realizzare, un intervento sul campo di calcio sul Colle Oppio, di fronte al Colosseo; il titolo è 459 metri circa di campo arato. Il progetto prevedeva l’aratura delle linee di gioco del campo di calcio con due buoi guidati da me. Dell’azione resta solo un’immagine, una specie di visione interna. In questo senso è un lavoro compiuto o no?
LB: Non considero quel progetto “non realizzato”. L’azione è stata immaginata come se fosse avvenuta realmente: d’ora in poi si potrà vivere e pensare quel luogo in maniera diversa. Quel gesto esiste perché esiste la sua ipotesi condivisa, e, anche se solo raccontato e immaginato, il gesto di arare sulle rovine ha prodotto il suo effetto. È un modo per creare una leggenda che alla fine risulta vera proprio perché è un desiderio condivisibile, perché concretizza una possibilità, come girare in moto per Roma con Pasolini… ci crediamo, è vero. È anche un modo per mettere l’accento sull’attesa che diventa realtà, su un vuoto che si fa pieno, qualcosa che torna in altre tue opere recenti.
EB: A quali stai pensando?
LB: A Mario (2005) ad esempio, l’uomo con un falco pellegrino posato su un braccio e una valigia in mano che si aggirava sperduto per le sale di Castel del Monte esponendo la sua fragilità, la sua meraviglia. Era l’opera e l’osservatore insieme, la cosa osservata e chi guarda, anche se poi del passaggio di Mario restano alla fine delle tracce, alcune Polaroid e una vecchia valigia. Del resto, la traccia è una chiave importante per tutto il tuo lavoro, ciò che gli fornisce il potere di muoversi negli interstizi fra documentazione, performance, video, scultura, e in ultimo il suo potere evocativo e desiderante.
EB: Sì, della capacità delle tracce di materializzare un “possibile” abbiamo parlato molto per la mia mostra “Abandoned in Place” a BASE a Firenze nel 2005. Lo spazio lo avevo concepito come una specie di “deposito” di immagini che si svuotava e consumava progressivamente nel tempo dell’esposizione per tornare allo spazio bianco, al suo vuoto iniziale in cui solo la voce del merlo di Lapsus riempiva l’ambiente. Era anche un modo per riflettere sul rito della mostra, sul vuoto di un mondo dominato dal paradigma della produzione, su ciò che minaccia e consuma i nostri spazi di libertà. Ti avevo affidato il compito di togliere giorno per giorno una o più immagini. Quali erano le tue sensazioni nel farlo?
LB: Eliminando le immagini, togliendole materialmente, la sensazione era contraddittoria: creavo degli spazi vuoti ma la perdita era compensata dal potere evocativo dei buchi delle puntine sulle pareti. Immaginare le foto mancanti — la macchina coperta di cenere, i bunker implosi, tutte cose appunto abbandonate a se stesse ma che si trasformavano in “prototipi” di nuove identità — le faceva riapparire immediatamente, era quasi come sfogliare una versione contemporanea dell’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg… La mostra l’ho vista anche come un modo per misurare la nostra paura di perdere contatto con ciò che ci circonda, con l’eterno presente della comunicazione. I diversi tempi al suo interno (quello dell’opera, degli oggetti e della mostra) focalizzavano l’attenzione sull’esperienza di ogni visitatore, sul suo incontro con le cose, casuale, ma anche unico e irripetibile.
EB: Sì, c’è l’incontro casuale, ma la sorpresa può essere anche guidata, programmata in un certo senso. Nel video Mirage #3 c’è ad esempio il sorgere di un sole ingannatore che si rivela un banale lampione d’illuminazione stradale e l’apparizione di due grandi navi pronte per essere varate ma che non hanno mai lasciato la terraferma…
LB: In quel caso mettevi lo spettatore nella condizione di stupirsi nello scoprire la verità. Sembri dirci che la realtà cambia aspetto a seconda dal punto di vista da cui è osservata, e l’apparizione magica e sorprendente è in realtà al tempo stesso un’immagine fedele e senza compromessi del mondo che ci circonda. Il tuo lavoro affronta l’utopia e insieme il suo fallimento. Le tue opere non parlano di sogni, ma di immaginazioni possibili… Per concludere, vorrei farti io un’ultima, obbligatoria domanda. Quale sarà il tuo prossimo progetto?
EB: Potresti essere tu! Con il tuo girare a briglia sciolta… Il titolo sarà Lorenzo a giro. Ci rivediamo alla fine del 2007 con tutti i tuoi biglietti di viaggio… sarà il ritratto di qualcuno destinato per scelta ma anche per obbligo a girare il mondo. Nei miei ultimi lavori io non sono più il mezzo, la scintilla dell’azione: ora mi interessa parlare attraverso le cose, staccarle da me, affidarmi alla loro autonomia per far percepire un’esperienza più radicale, quello spessore che si accumula e cambia di continuo la faccia del mondo. Entrare nel cerchio con la macchina rossa, finire tutta la benzina, e poi uscire, ricominciare, ma dopo aver visto cosa c’è in fondo. Mi torna in mente il corvo parlante di Uccellacci e Uccellini, che chiede a Totò e Ninetto: “Amici dove andate?… Visto che dobbiamo fare un pezzo di strada insieme volete dirmi dove siete diretti?”. Dove andremo, Lorenzo?