La distanza di oltre trent’anni dalla nascita della Transavanguardia ci consente di verificare quali sono i valori che si sono cristallizzati nella storia e di trovare in quella tendenza dell’arte delle possibili contiguità con il presente nel loro portato teorico e culturale. Il punto di partenza più preciso è il termine stesso, “Transavanguardia”, che appare ufficialmente per la prima volta nel saggio di Achille Bonito Oliva “Trans-avanguardia italiana” pubblicato su Flash Art nel 1979 (n. 92/93, ottobre-novembre). Da allora è entrato nel vocabolario dell’arte e si è attestato come un ambito ampio, che attraverso il tempo ha definito delle specificità. Il passaggio di trent’anni ha cristallizzato quel manifesto della Transavanguardia in un insieme di punti teorici che classificano una delle più profonde rotture all’interno della cultura visiva occidentale. La Transavanguardia, in quella teoresi, segnala il cambiamento di passo dell’arte dal suo principio evoluzionistico, insito nei progetti delle avanguardie, a un movimento laterale di carattere “creazionista” (per rimanere nel linguaggio darwiniano), dove la piramide della storia non si muove più dalla cima, ma si dilata alla base, assestando le proprie radici. È una risposta, questa, che s’allinea perfettamente alle condizioni dell’Europa e degli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta intesi come prosecuzione della spinta avanguardistica degli anni Sessanta, e in particolar modo del ’68. Si allinea alla serie di questioni centrali per la cultura artistica del ventennio precedente, quali la “fine della storia”, la “morte dell’arte”, la “sclerosi della critica”, e la crisi del mercato, cui risponde con uno sguardo più ampio alla “geografia dell’arte” (o meglio sarebbe, le geografie dell’arte), ai suoi componenti minimi costitutivi intesi come espressioni del genius loci; e inoltre, alla citazione di stili, alla critica creativa, e si inserisce fatalmente in un momento di circuitazione internazionale che favorisce la nascita della globalizzazione dei mercati come antidoto alla saturazione dei mercati locali. Sul piano espositivo, l’epos della Transavanguardia è ormai notoriamente associato al lavoro di cinque artisti: Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino e a una serie di mostre (curate da Bonito Oliva già prima di quel saggio, come “Tre o quattro artisti secchi” da Emilio Mazzoli a Modena, “Opere fatte ad arte” ad Acireale, “Le Stanze” a Genazzano). La consacrazione del gruppo di artisti avviene quando questi espongono alla Biennale di Venezia, nella sezione “Aperto 80”, il Padiglione allora curato da Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann.
A posteriori, l’aspetto storico più interessante è certamente il rinnovato protagonismo della pittura italiana nel mondo, oltre a quella affinità elettiva venutasi a creare con il mondo tedesco — come indica lo storico Irving Sandler — che nel Padiglione tedesco vedeva esposte le opere di Anselm Kiefer e Georg Baselitz, e con “Aperto ’80”, che includeva gli artisti della Transavanguardia: esso si assesta proprio su quell’onda di pittura che era già protagonista in Germania (con Helmut Middendorf, Rainer Fetting e Salomé — studenti dell’Accademia di Belle Arti di Berlino e allievi di Karl Horst Hödicke — cui si aggiunsero Hans Peter Adamski, Elvira Bach, Peter Bömmels, Luciano Castelli, Walter Dahn, Jiri Georg Dokoupil, Gerhard Naschberger, Maarten Ploeg, Otto Zitko, Bernd Zimmer, e in Svizzera Martin Disler, in Austria Siegfried Anzinger, oltre alle opere di Jonathan Borofsky, David Salle, Julian Schnabel, Miquel Barceló). Mentre l’eredità storica, quella dell’Espressionismo e della pittura di figura di Gerhard Richter, Anselm Kiefer, Georg Baselitz, Markus Lüpertz, A. R. Penck e Jorg Immendorff produce una continuità nel linguaggio nel mondo tedesco, in Italia, il bacino della Transavanguardia, e quindi l’organizzazione teorica di Achille Bonito Oliva, sposta la questione stilistico storica alla base delle teorie che determinano la fine del Moderno, e quel passaggio in un territorio indefinito determinato dal postmoderno. La Transavanguardia, quindi, trova espressione nella pittura, ma è sostanzialmente la registrazione di una trasformazione culturale in atto, che negli Stati Uniti, in particolar modo, assume un ruolo di rilettura culturale. Il legame tra il lavoro di Bonito Oliva e questo slittamento Moderno/Post-moderno si ritrova negli scritti di Fredric Jameson, uno dei guru del postmoderno, il quale identifica nella Transavanguardia la fine della storia intesa come progressione dialettica tra presente e passato. Secondo Jameson è soprattutto l’arte a trovarsi omologata a un procedere lineare della storia, in cui ogni opera nuova è intesa come il superamento di quella precedente. Transavanguardia, nel suo principio di mobilità posta tra parentesi, incarna perfettamente le teorie del postmoderno, soprattutto per le corrispondenze con cui segue il postmoderno in architettura (e poi nel cinema e in letteratura) negli Stati Uniti, il decostruttivismo in linguistica e il pensiero debole in filosofia. In tal senso, il lavoro degli artisti cosidetti della Transavanguardia (Cucchi, Chia, Paladino, De Maria, Clemente) anche se in modo profondamente diverso negli esiti individuali, propone un carattere intersoggettivo dell’opera, le cui potenzialità comunicative esprimono inquietudini personali. Come riconobbero Norman Rosenthal, Christos Joachimides e Nicholas Serota, nella storica raccolta “A New Spirit in Painting”, la Transavanguardia è “un’arte attenta a rappresentare l’esperienza umana, in altre parole le persone e le loro emozioni, paesaggi e le nature morte e a riattivare aree dell’esperienza che sono a lungo rimaste sopite”.
È proprio quel mondo privato, intimo, fatto di piccoli sogni formalizzati nel colore e nella freschezza di un immaginario che sfida l’ingenuità — che si contrappone al rigore epistemologico precedente — a caratterizzare la Transavanguardia ancora oggi, nel lavoro degli artisti che hanno interpretato al meglio le istanze preposte al superamento del Moderno. I cinque artisti hanno trasformato il codice della Transavanguardia, ovvero quell’immediatezza originaria, in uno stile individuale composito. Francesco Clemente ha proseguito il suo lavoro sul ritratto, generando nel tempo una sorta di autoritratto multiplo di un sé fatto ad arte, assurto dalla pittura stessa, e ha raffinato il suo sguardo bifronte, tra la pittura italiana dei “primitivi”, la pittura di figura indiana e gli arabeschi di tradizione afgana: tra intarsi di colore, immagini costruite su strati narrativi incoerenti, la pittura di Clemente si è arricchita attraverso una serie di collaborazioni trasversali e interculturali con la poesia, con la letteratura, con la musica, partecipando a progetti con Robert Creeley, Allen Ginsberg, John Wieners, Rene Ricard e Salman Rushdie. Sandro Chia prosegue il suo viaggio attraverso il caleidoscopio delle citazioni tra gli stili dei protagonisti delle avanguardie, tra Boccioni, Picabia, Picasso, Matisse, aggiungendo un suo immaginario ironico che si alimenta attraverso una rinnovata iconografia fatta di piccole storie; Paladino, partendo dal mondo arcaico, e dalle koiné culturali italiche, ha differenziato il proprio lavoro assorbendo nel proprio lavoro la scultura e l’architettura come manifestazioni di non luoghi di un immaginario fatto di archetipi. Nicola De Maria ha proseguito la sua articolazione del segno astratto trasformandolo in progetto spaziale, in cui le cifre dell’astrazione sono astri che puntellano i “punti cardinali” di un immaginario in continua ebollizione. Il lavoro di Enzo Cucchi ha generato più vie. Quel grumo di colore ha continuato a generare forme e immagini affidando alla gestualità del disegno la traduzione più congrua del proprio universo iconografico: un atto artistico totale che nella pittura come nella scultura dimostra un livello di concentrazione in grado di sfidare ancora l’interpretazione e di rifuggire i limiti di una collocazione in un unico ambito disciplinare chiuso e limitante.
Il mondo dopo la Transavanguardia si è liberato del dogmatismo culturale e ha aggiunto una predisposizione per la realizzazione di un pensiero visivo puro, costruito con maggiore raffinatezza fino a giungere a una sorta di “ben fatto” (opposto al ready made) nel Neo Pop angloamericano prima, e poi nel grande turbine dalle grandi dimensioni dell’arte contemporanea cinese, indiana e africana. Su questo fronte, la vastità della geografia dell’arte, ha superato le dimensioni del bagaglio lineare della storia e ha proposto un fronte di avanguardie individuali fondate sull’opera di nuove star che hanno elevato il principio dell’intersoggettività insito nella Transavanguardia a un livello supersoggettivo, come testimoniano i casi eclatanti di Maurizio Cattelan e Damien Hirst, dove la ricerca non trova più delle affinità di squadra, ma cortocircuiti autonomi che si declinano ogni volta su progetti diversi, sempre inseriti in questioni centrali assunte dal mondo del reale. Il nuovo passaggio, oltre la Transavanguardia (se questo principio di transito consente il superamento), è proprio nel ritorno al reale. Ovvero, l’uscita dall’affabulazione individuale del racconto proprio del Postmoderno, verso la costruzione, anche in termini architettonici, di spazi in cui l’arte si propone con oggetti delle meraviglie ma al contempo affronta il quotidiano (le questioni civili, sociali, economiche) con una ricetta propria, secondo una fenomenologia che corrisponde alla rapidità della trasformazione dei media, alla complessità delle scoperte scientifiche e alla globalità degli scambi, in un nuovo mondo che assume dimensioni performative e spettacolari. L’arte esce dal racconto ed entra nel presente fino a trovarsi coinvolta nei suoi risvolti più caldi, come la crisi economica in atto. Un esempio su tutti: è stato un quadretto meraviglioso vedere la manifestazione degli operai della CGIL davanti a Piazza Affari, a Milano, sostenuta dall’icona del “dito” di Cattelan, dove quella scultura, in bilico tra il mondo antico e la realtà del presente, scolpisce con precisione un monumento ai nuovi caduti ignoti, cui le questioni dell’attualità si attaccano istantaneamente e lo eleggono a portavoce involontario. Il reale costruito su un progetto solido anticipa la realtà, anche nella sua rapida trasformazione, e se ne fa interprete rendendola autoevidente. Il ritorno al reale è ormai il dibattito più scottante che attraversa la cultura corrente, e propone la crisi di quel “pensiero debole” (altro costrutto teorico del Postmoderno in filosofia), dove anche il suo mentore, il filosofo Gianni Vattimo, si trova coinvolto in una ridefinizione dei valori forti che mettono in crisi la leggerezza vagheggiata negli anni Ottanta con il postmoderno (egli stesso si trova paradossalmente protagonista di un partito che si chiama l’Italia dei Valori, si batte con i No Tav, contro il populismo, il provincialismo, la telecrazia). Il New Realism in filosofia, come predicato da due filosofi, di non nuova generazione, quali John Searle e Umberto Eco, arriva dopo una lunga stagione dell’arte in cui gli artisti già hanno indicato con precisione, o meglio in “alta definizione”, la via verso un rinnovato coinvolgimento nel reale. Nel reale dell’arte, nella sua oggettività e oggettualità, fuori dai generi, dalle ricerche formali, dagli stili, dalle citazioni, su una strada che vuole uscire dal ready made, dalla tautologia linguistica, per assorbire la pienezza di un mondo nuovo da costruire.