“Quando tutto è stato detto e scritto, mi trovo ad avere più di una faccia. E non so quale delle due stia ridendo all’altra”. [i]
L’opera d’arte è fatta di apparenze, che alla stregua di figure guida, sono come ritirate all’interno dell’oggetto. Per questo motivo, può esserci uno iato tra come un qualcosa appare e le sensazioni che questo qualcosa ci suscita. Questa tensione, o persino divergenza, tra apparenza e sentimento è l’orizzonte nel quale l’opera si mostra nei suoi tratti distintivi. E questi tratti, a loro volta, danno all’opera una specifica sfumatura.
Nelle sculture di Enrico David sono sempre ravvisabili i corpi, gli oggetti e le teste che le compongono, ma in esse, al contempo, vi traspare il carattere liminale che scaturisce da una tale composizione. Allungate, fatte a pezzi, abbandonate, schiacciate, messe in alto, fatte sporgere, sparpagliate, incorporate o irrigidite, questa serie di liminalità si sviluppano in maniera inevitabile. Non si acquietano mai, banalmente, in un posto ma è come se gli venisse richiesto di esplorare il concetto di relazione come se fosse qualcosa di esterno a ciò che è già dato. Pertanto, queste sculture esistono in forma di tensioni apolidi, di vuoti privi di un determinato sviluppo o di una determinata origine. Qualcosa è come bucato, spazzando via così ogni residuo di continuità poiché la temporalità viene ad allinearsi con la dimensione dell’arresto; quell’intermezzo rappresentato da un qualcosa che sta per accadere o che è già accaduto. Questo è il motivo per cui ogni traccia di esperienza del quotidiano si trova qui a essere recisa.
Una tale idea di limite suggerisce come il corpo non corrisponda all’involucro fisico essenziale di un individuo, ma sia piuttosto un gioco di forze in grado di riunire al suo interno congiunzioni e disgiunzioni. Un singolo corpo può dare origine a una moltiplicazione di teste, o far nascere numerosi arti, le teste possono essere unite con delle viti, i fossili possono trasformarsi in carne viva, le nuvole a loro volta in dei corpi così come in delle figure fulminate da un cielo epilettico. Lo scenario è rappresentato da una temporalità impazzita che, rallentando fino a raggiungere uno stato di stasi, si spinge così in là da confondersi con l’istinto di morte, il quale è di per sé un qualcosa di puro e impersonale.
Se è l’Eros a comporre la musica, l’avanzata della morte è silenziosa e allora questi corpi si trovano a non essere più posseduti dall’Eros, esistendo in un punto situato di là del suono stesso. Si frammentano all’esterno di ciò che era in armonia, ma non si tratta qui dell’unione della dissonanza o della stessa frammentazione, quanto piuttosto di uno stadio che deve essere ancora attraversato. Ecco perché i tappi sono usati da David per colmare le aperture del corpo in modo da impedire che dei suoni vengano emessi. I tappi alle orecchie, alla gola e quelli anali possono non essere visibili, ma abbiamo comunque a che fare con dei corpi occlusi. Questo si ricollega anche al mistero dietro all’opera di Alberto Giacometti le cui sculture sono prive di suono, e anche se potenzialmente abbiamo a che fare con delle figure pulsanti, i loro battiti sono relegati al regno del silenzio. Anche quando sono stese, gettate a terra, non sono mai finite perché l’avanzata della morte è ancora all’opera. Questo è ciò che implica il loro non ridursi a essere la congiunzione della dissonanza e della frammentazione, proprio in forza del fatto che i corpi rappresentano un passaggio, la loro idea di realizzazione travalica cioè il concetto di “finito”. Al di là della finitudine, restano tuttavia immobili; alla stregua di codici cifrati dei ricordi che ci pongono il problema dell’esistenza di un vasto archivio della memoria di un tempo finalmente ricostituitosi.
L’atto del disegnare non è altro che un sospendersi tra il desiderio e l’osservazione, ed è per questo che il disegno pare registrato attraverso il lavoro di due occhi separati; anche se la linea, di per sé, è sintomatica di entrambi gli stati. Questo fa sì che il disegnare consista sia in un atto di disegnare “verso qualcosa” ma anche in quello di disegnarne “il fuori” in modo tale da far rivivere il processo d’iscrizione attraverso entrambi i registri. Lo scrittore Antonin Artaud dichiarò come l’arte fosse un qualcosa prossimo all’essere privo di vita, un rifiuto, “una scrostatura dell’anima”. L’arte per Artaud era una forma di azione corrispondente alle passioni generate dalla mente, non proprio quello che Joseph Stalin intendeva quando dichiarò che gli scrittori erano “gli ingegneri dell’anima umana”. Non c’è mai nulla di scontato quando ci riferiamo all’anima, ma di certo la nozione di “camera oscura dell’anima” [ii] coniata da Julia Kristeva ci apre a una potente relazione con l’opera di David. Invece di rapportarsi con immagini che sono comunemente disponibili nella nostra cultura, questa nozione ci getta in una regione dominata dall’oscurità in cui la vista non è una dimensione data all’essere, ma dove si tratta piuttosto di rompere la relazione esistente tra il vedere e il conoscere. Siamo quindi come catapultati in un palcoscenico di cecità metaforica, nel luogo della ri-(dis)figurazione in cui l’anticipazione di quello che sta per succedere è essa stessa sul punto di potere accadere. Se il concetto di anima è evocato è in forza del fatto che sta ad indicare ciò che eccede, che va oltre, e nel fare ciò resta alle nostre spalle sotto forma di una figura oscura che conserva al suo interno un passaggio; un passaggio che ci attraversa, piuttosto che essere un qualcosa di attraversabile dal soggetto. Dall’interno di questa camera oscura, gli arti vengono spezzati o moltiplicati, i corpi riallineati, il linguaggio estratto, i volti striati e rigettati a terra, le ossa ammorbidite pronte per essere deformate piuttosto che piegate su loro stesse, gli occhi rimodellati, le cose trasmutate, gli oggetti solidificati, gli impulsi distesi e i nervi polverizzati in modo che nuovi configurazioni plastiche possano essere realizzate.
“Figure, espressioni e volti, materiali e forme che si battono per una loro presenza. Questi sono i parametri per il mio processo creativo. Qualche volta questo può diventare una processione di dolore o almeno un modo per prenderne le distanze”.[iii]
Questo competere per accaparrarsi un posto, un interstizio, produce delle intensità o dei “sovraccarichi d’intensità” che secondo Lyotard sono sintomatici del palesarsi dell’istinto di morte.[iv] Per Lyotard quello che provoca piacere, crea al contempo sconcerto, dando origine nel corso del processo a un’alterità o a una qualsivoglia dimensione fuori dal tempo. Questo si potrebbe interpretare come uno spostamento di senso o “l’assenza di un locus”. All’interno di una tale cornice l’idea di “processione di dolore” come modo di comprendere le distanze presenti all’interno delle opere ci porta a riflettere sul concetto di catarsi e, di conseguenza “sull’idea dell’arte come mezzo di sublimazione dei confini (psichici)… caratterizzati da uno stato di fragilità”. [v] Questa logica del “confine” in Kristeva implica il dominio della non-identità sull’identità, in cui, a sua volta, nulla è al sicuro in nessun luogo e pertanto, inevitabilmente reso fragile.
Lo scorso anno David è stato invitato a insegnare per una settimana al Central Academy of Fine Arts (CAFA) di Pechino. Non c’erano indicazioni riguardanti il materiale giornaliero del corso né eventuali precisazioni sugli obiettivi finali prefissati. La sua idea guida consisteva nel dar vita a un processo di liberazione dai manuali d’istruzioni e da ogni tipo di definizione al fine di arrivare al punto in cui tutto ciò che restava non fossero nient’altro che gli impulsi che portavano a iscrivere e costruire le cose. In una lezione di disegno, iniziò citando una sua frase: “Il disegno è lo spazio tra un qualcosa che non c’è e il suo apparire”. [vi]
Lui, semplicemente, chiese agli studenti di scoprire proprio questo spazio tra il non essere ancora o l’assenza e la presenza, specificando come in ciò risiedesse l’impulso fondante di ogni singolo disegno. L’aula cadde nel silenzio, poi a un certo punto qualcuno chiese cosa dovesse disegnare in quanto erano stati abituati al fatto che qualcuno gli desse indicazioni su cosa disegnare: un corpo, una faccia, piuttosto che un oggetto. E lui semplicemente rispose che quello che voleva era che disegnassero lo spazio prima degli oggetti, o una sorta di istruzioni che permettessero agli oggetti di aprirsi al mondo; si trattava di scoprire qualcosa in un posto al quale, fino ad allora, non era mai stata data attenzione. “Ogni volta che inizio a disegnare non ho piani e quindi inizio dal nulla; questo è quanto. Si tratta di scoprirlo per se stessi. È lo stesso per ciò che concerne la domanda sulla libertà, sia che questa resti seppellita o che esploda”. Lentamente iniziarono a disegnare. Ci si guardava intorno, ma nel frattempo che le cose si stabilizzarono, il processo creativo prese il via. Alla fine David chiese agli studenti cosa gli fosse parso. Uno disse che era stato doloroso, un altro che era stato come essersi smarriti, poiché non sapeva cosa fare. David allora rispose che poteva trattarsi dell’indicazione di un qualcosa che stava per accadere. E gli studenti ripartirono da quel punto.