Marco Tagliafierro: A mio modo di vedere, sia per quel che concerne le tue composizioni bidimensionali, sia per quel che riguarda le tue aggregazioni tridimensionali, tu inserisci simboli comuni che giustapponi, sovrapponi, stratifichi in concrezioni nelle quali, appunto, motivi e stili si distruggono a vicenda in un eclettismo in continuo evolversi, fuori da ogni organicità prestabilita, in un accumulo che, di volta in volta, cambia i moduli stilistici.
Enza Galantini: Solitamente preferisco incominciare il discorso da un punto apparentemente più lontano. Inspiegabilmente poi tutto torna, nel senso che le problematiche affrontate con il mio lavoro finiscono con l’affiorare spontaneamente, un po’ come se l’approccio trasversale fungesse da setaccio. Ma l’aspetto imponderabile è quello che detiene il nocciolo della questione. Il resto è appunto quello che, affiorando, viene restituito. Si tratta di una “restituzione filtrata”, e quindi, come tale, ne contiene i limiti. Questi limiti fanno da cornice al rifiuto iniziale. L’opera pone dei confini e il superarli risulterebbe un’interferenza. Riguardo al termine concrezione, sì, lo ritengo opportuno, ricordo che a un nostro primo incontro mi parlasti proprio di questo. Considero il processo di concrezione coincidente con il tempo di sedimentazione del percepito (quello che vedi, quello che accade, quello che vivi). Esso riguarda tutto quanto avviene molto prima del contatto con il medium scelto per l’occasione. Un accumulo intenso, che quando esplode innesca un altro processo, su un altro piano. L’eclettismo di cui parli lo intendo strettamente relazionato all’aspetto percettivo di interscambio con il vissuto.
MT: Per il tuo lavoro conta molto la capacità di distribuire i dati in una situazione che rispetti la natura linguistica dell’arte, fuori da impulsi mimetici e dentro l’arbitrio di uno stile intenso e pieno di slittamenti.
EG: Sì, l’istinto che si manifesta nell’acquisire nuove tecniche, nell’adoperare materie, per me, non ancora definite, nel senso che lasciano ancora un margine di possibilità conoscitiva, è importante, ma subordinato all’aspetto di elaborazione dei dati che avviene all’inizio. Lo considero più un aspetto consequenziale. Diciamo che la zona rilevante, dove avviene tutto, fa da terreno fertile all’esplosione, che poi è il momento in cui si agisce direttamente con la materia. Gli slittamenti mi interessano molto, li considero collegati all’attenzione che reca implicito lo spostare continuamente i punti d’osservazione. Quindi pittura per addizione, per acquisizione dati. Sì, l’altra realtà che emerge reca in sé una certa autonomia, proprio perché il percorso di concrezione presuppone una definizione altra, e i conflitti possibili si riducono all’interno di essa. Gli altri, quelli che l’hanno determinata, rimangono dove sono.
MT: Il ricorso fantastico all’immaginario pittorico nella realizzazione delle tue sculture è quasi allucinato, esso è volto a imprimere particolari effetti luministici propri dell’arte pittorica? Una forza tragica e visionaria le pervade: un’espansione emozionale in cui dolore, angoscia, esaltazione, ebbrezza, si uniscono con straordinaria intensità. A volte monocromi, altre volte policromi, questi elaborati esprimo un tormento. Quando passi dalla pittura alla scultura, anche in questo nuovo contesto la figura umana è documentata come se fosse pervasa da un turbamento profondo.
EG: Non intenzionalmente, in modo naturale, le due modalità si intercettano e avviene uno scambio. L’espansione emozionale di cui tu parli, io la relaziono al momento in cui l’accumulo di dettagli percepiti diventa troppo intenso. Quando la sedimentazione di partenza esplode, essa si concretizza attraverso dei “derivati”, che mantengono le stesse specificità di questa stratificazione iniziale, seppure alterati. La definirei una “anomalia ulteriormente distorta”, e forse, sì, anche allucinata. Esattamente quello che dicevo a proposito del processo di concrezione, a proposito di quando si amplifica e si innesca un altro processo, su un altro piano. Il disturbo di fondo: una costante, che in entrambi i contesti attinge sempre dalla stessa banca dati.
MT: Tu arrivi a considerare ogni quadro e ogni scultura come un’interpretazione libera del materiale usato nel quadro o nella scultura precedente.
EG: Ho il lavoro in testa e voglio che si materializzi proprio come l’ho pensato, per cui sono spinta a cercare quello che serve per farlo. Quando scelgo una materia mai utilizzata, incomincio a conoscerla, se possiede potenzialità non ancora esplicitate e se coincide con l’esigenza del lavoro successivo, continuo a coinvolgerla per indagare, fino a quando si esaurisce, magari solo per un periodo di tempo, oppure per sempre, a volte è una sfida. Diciamo che l’intuizione riguardante la scelta di una materia piuttosto che un’altra incide significativamente sul risultato finale, ma questa è una scelta guidata dalla concrezione avvenuta tempo prima, quella che non si esplica su un piano visivo. Posso dire che i lavori successivi risultano un’interpretazione libera del materiale usato nei precedenti, nel momento in cui mi prendo la libertà di “ridimensionare” il materiale alla nuova esigenza. In un certo modo i lavori precedenti risultano, allo stesso tempo, un punto di arrivo e partenza nuovo, quindi, sì, in questo senso anche l’aspetto, come dici tu, interpretativo del materiale già utilizzato trova un corrispettivo.
MT: Il blocco della scultura si apre in erompenti violenze esplosive, in virate fulminee, in slanci divaricati e violenti, che strutturano lo spazio e lo invadono.
EG: Lo spazio che accoglie l’opera è un elemento molto importante, a cui guardo sempre con attenzione. Addirittura ci sono luoghi che invitano a pensare a un’opera. In altre situazioni invece l’opera nasce con una sua interna connotazione di spazio, che si mantiene autonoma, al di là del contesto in cui verrà presentata. Per alcuni lavori è determinante “sentire “ il luogo che accoglierà il lavoro. Mi fai pensare al lavoro presentato a DNA projectbox a Venezia. Lì il luogo è uno spazio vivo, si muove impercettibilmente. Se rimani in silenzio all’interno è facile avvertirlo. L’acqua muove e passa sotto. Il lavoro, quasi dal centro dello spazio, si sviluppa con andamento abbastanza indefinito, seguendo delle “traiettorie” percepite e indicate proprio dal luogo stesso. Come un gioco mai terminato, avrebbe forse potuto espandersi ulteriormente.