Helena Kontova; Giancarlo Politi: Lavori contemporaneamente su più quadri?
Enzo Cucchi: Non riesco mai a lavorare su un quadro solo, su una sola idea.
HK; GP: In genere sono una serie o un medesimo soggetto? O sono legati tra loro?
EC: Diventano tutti un po’ una famiglia, una covata. Io lavoro a gruppi. In genere alcuni quadri nascono assieme, legati a un progetto.
HK; GP: Hai quindi un’idea precisa? Sei ossessionato da qualche idea prima di cominciare a lavorare?
EC: Con progetto intendevo un’occasione per dipingere un gruppo di opere come può essere una mostra personale. Io posso lavorare solo quando ho la testa completamente vuota. Il problema sono tutti i fantasmi che tu hai intorno, e questa è una cosa di tutti i giorni, è un piccolo problema quotidiano. Lavori sempre attorno a te. Allora attorno a te cosa puoi fare? Più di tutto per me conta dove io sono, e lavoro attorno a queste cose. Diventa un fatto fisico, un po’ come un pollaio, diventa un luogo di battaglia. Cioè un’idea di grande economia, in un certo senso. L’arte è un’idea di economia, di economia spirituale. Non si può pensare di discutere o parlare sull’arte o guardarla o studiarla. Come guardi un pugile? Dove vai a guardare un pugile? Devi guardare come si muove e come comincia a ronzare attorno alle cose mediocri di tutti i giorni, capisci? E come si sa muovere in un piccolo territorio. Che poi diventa una proiezione all’esterno, fuori; però in realtà è un piccolo problema attorno a sé. È un problema di meraviglia, quindi. Una bella donna la vedi come si muove, è una nuvola, è quello che lascia dietro di sé, quello che descrive.
HK; GP: Il titolo dell’opera viene sempre dopo?
EC: Ne metto cinque, sei, che poi diventano per me un piccolo racconto intorno alle cose.
HK; GP: Ma questo racconto non anticipa mai l’opera?
EC: L’opera non è mai anticipata da niente. L’opera è qualcosa di miracoloso, un problema di meraviglia per chi la fa. E tu la fai solo perché ti devi meravigliare. Perché non ci sono altre cose che ti meravigliano a sufficienza.
HK; GP: Ma sono solo le cose visive che ti meravigliano?
EC: Ma certo! Perché questo è il problema del mondo, all’infuori di questo cosa altro c’è? Anche se il mondo in un momento di debolezza si sta aggrappando all’immagine e di nuovo vi si riaggrappa in modo sbagliato.
HK; GP: La tua opera ha riferimenti a immagini che hai visto da qualche parte?
EC: No, se mai c’è la meraviglia di quell’immagine. È come guardare una montagna. La montagna è una cosa noiosissima perché è statica e sempre uguale, ma nello stesso momento è una cosa incredibile per quello che contiene e ti crea stato di meraviglia. Potrebbe essere un problema realistico quando vedi qualcosa, ti chiedi se descriverla oppure se è più importante questo problema interno. Io credo che sia più importante il problema interno perché quello che vedi già c’è e non è così importante descriverlo; invece c’è tanta pittura che fa così. Deraglia un treno: c’è subito un pittore che fa un quadro sul treno che deraglia, oppure un terremoto. Deve sempre succedere qualcosa per fare qualcosa, invece non è vero, anzi è esattamente il contrario. Ma lì diventa un problema di energia.
HK; GP: Perché pensi che queste tue immagini che nascono qui ad Ancona dalla meraviglia della quale parli, ma sono pur sempre un’ossessione personale, abbiano tanto successo in tutto il mondo? Come credi che vengano lette?
EC: Perché è un problema di leggenda! È chiaro che il mondo in crisi deve aggrapparsi a qualcosa, a un sano portatore di immagini, capisci? Come dire? È normale che sia il pittore ad avere questo problema. In questo incredibile stato di debolezza che il mondo vive con l’esterno l’unica grande ancora di salvezza è l’immagine. Ricordi Coppi quando correva e c’era la gente che impazziva lungo le strade? È la stessa cosa. Anche se il problema di Coppi, l’anima, la spiritualità di quell’uomo, come si fa a descriverli? E quel problema continua a rimanere. È come l’arte: una piccola macchia nel mondo che stranamente fanno diventare un problema che riguarda tutto il resto del mondo. Invece non è vero niente, perché è una cosa selezionata in una piccola isola. Pensa a questa arte che noi conosciamo e di cui il mondo parla. È un’arte selezionata dalla spiritualità e dalla cultura di un certo popolo di un piccolo angolo mediterraneo. Però stranamente l’aggressività di questo mondo ha preso questa arte e la sbatte in tutto il mondo. Ma allora vuol dire che tutta l’altra arte non è niente? Eppure anche loro hanno prodotto e selezionato un certo tipo di spiritualità e un certo tipo di cultura valida quanto la nostra. Eppure si dice sempre che non c’è più la pittura, e che poi un giorno ritorna. Invece la pittura c’è sempre stata perché lo spirito dell’uomo è sempre quello.
HK; GP: Tu sei intellettualmente molto curioso delle diverse culture eppure sei molto spesso qui ad Ancona. Perché non ami viaggiare di più, perché non ti trasferisci per qualche mese in Oriente o in USA?
EC: Cosa vado a fare? Un artista non ha necessità di niente. Di che cosa ha necessità? Perché allora siamo alla solita storia. Un pugile lo potresti costruire, se vuoi: invece non è vero. È un talento naturale che puoi abbellire e raffinare. Ma prima è un talento naturale. È un’energia che c’è o non c’è.
HK; GP: Ti piace New York?
EC: Sì, mi piace, ma niente più, mi lascia indifferente e quando debbo andarci le cose che mi interessano di più sono quelle fuori dall’arte.
HK; GP: Magari per vedere incontri di pugilato?
EC: Sì, anche. Ti ho già detto che amo molto il pugilato e sponsorizzo un pugile qui ad Ancona?
HK; GP: Perché ti interessa la boxe?
EC: Perché i pugili e le prostitute in questo secolo sono gli unici rappresentanti selezionati spiritualmente, in loro c’è una selezione sana della vita, delle difficoltà. Loro sono i veri restauratori morali.
HK; GP: Hai la tentazione di andare a vivere in una grande città qualche volta?
EC: No, io vado a Roma ogni tanto quando sento il desiderio di vedere gli altri, di stare in mezzo agli altri. Perché Roma è la città più incredibile del mondo. Vado a Roma e mi siedo da Rosati: l’altare della patria, la tomba di Nerone che voleva incendiare la città. Roma la città della pazzia, la città cristiana e pagana insieme. Ma dopo due giorni che sono a Roma mi stanco e debbo partire e torno ad Ancona.
HK; GP: Quando dipingi o lavori cosa senti?
EC: Niente. Sono un falco, sono come una tigre. A Roma, quando dipingevo la gente diceva: guarda la tigre di Torpignattara. Io non mi accorgevo, ma per fare un quadro occorre velocità, forza: loro scherzavano, io non so, non me ne accorgevo. Invece non è altro che un problema fisico, un problema di essere in forma, di essere a posto. Un quadro lo fai quando stai bene. Per me non è come per certi pittori che fanno i quadri quando stanno male, quando soffrono! Io quando soffro, sto male, sto a letto, non posso dipingere. Quando hai mal di denti non puoi pensare ad altro, e questo mal di denti è la tua ossessione. Cosa debbo dirti? A me lo studio fa schifo, spesso non ce la faccio più a stare qui dentro, spesso esco, anzi quasi sempre, poi mi alzo di notte e vengo qui senza far niente, capisci? Una cosa orribile, schifosa, però ci stai.
HK; GP: Non ti fa dunque piacere dipingere?
EC: Ma no, è una cosa orribile, una cosa schifosa, perché dovrebbe far piacere?
HK; GP: E allora perché lo fai?
EC: Va be’, perché non riesco a pensare a un’altra cosa. Perché c’è un problema di meraviglia: tu fai una cosa perché vuoi assolutamente quella cosa. Fare un quadro è una cosa ossessiva, come un vizio assurdo, come un grande pregiudizio.
HK; GP: Quante ore dipingi al giorno?
EC: Non lo so, è sempre diverso, dipende appunto da come mi sento.
HK; GP: Ti affatichi a dipingere?
EC: Non è una cosa disumana. Poi lo faccio quando sto bene, quindi non me ne accorgo. Eventualmente dopo mi sento stanco.
HK; GP: Tu sei stato anche un artista concettuale.
EC: Andavo a scuola. Non sono mai stato un artista concettuale, quelle prime esperienze a cui ti riferisci erano studi, andavo a scuola.
HK; GP: Che scuola hai frequentato?
EC: A scuola mi hanno cacciato perché ho lanciato un libro contro un insegnante. Eppure amavo l’idea di studiare, l’idea di andare a scuola. Poi ho frequentato saltuariamente l’accademia di Macerata.
HK; GP: Ma l’arte concettuale ti ha insegnato qualcosa?
EC: Io penso che ogni attività passi attraverso il corpo di altri artisti, la spiritualità, l’idea del mondo che ogni artista ha. Questa è una cosa importantissima, qualunque tipo d’arte si faccia. Io devo tutto a tutti. Io forse devo più di tutti a tutti quanti. La mia vita è un po’ qualcosa di leggendario. Io mi vedo da sempre, anche da ragazzo, mi vedo un po’ dopo, non so come, come in un dormiveglia; non so se è bello, o brutto, però è una cosa leggendaria. La mia vita è piccola ma un po’ come la leggenda, un po’ come vedersi dopo, come stare in un dormiveglia. Io sono un raccoglitore terribile.
HK; GP: Quando hai cominciato a fare l’artista?
EC: Quando ci siamo incontrati, io e te, avevo vent’anni. A diciotto anni ho partecipato a una mostra estemporanea qui ad Ancona in cui vinsi il primo premio con un quadro figurativo intitolato Combattimento tra Dei ed Eroi e in commissione c’erano artisti noti come Purificato, Breddo, Cantatore. Ma a diciotto anni non pensavo di fare l’artista. Pensavo a tutt’altro, come ancora oggi. Lavoravo presso un vecchio restauratore, ma in realtà andavo dietro alle ragazze.
HK; GP: A dieci anni cosa facevi?
EC: Stavo in campagna con i miei genitori che sono contadini.
HK; GP: Cosa pensano i tuoi genitori del tuo successo? Del fatto di esporre in tutto il mondo, di essere uno dei protagonisti dell’arte di oggi, di viaggiare, andare a New York o ad Amsterdam, essere sulle prime pagine dei giornali, di essere diventato ricco?
EC:Nulla. Non gli interessa niente. A mia madre interessa se ho freddo, se mangio tutti i giorni, se porto la maglietta e basta. Non le interessa altro.
HK; GP: Le tue immagini nascono un po’ da una cultura contadina e popolana?
EC: Io credo che bisogna muoversi con le immagini che conosci, che sono le tue presenze, quelle in cui ti muovi, ma in modo naturale. Mai applicare un metodo a un’idea, come hanno fatto i surrealisti, che è una cosa allucinante e ha partorito la più brutta pittura e i più brutti quadri del secolo.
HK; GP: Sei molto legato alla tua terra?
EC: Legato no, perché io non la guardo nemmeno. Non riesco a guardare attorno a me, non ci riesco, non mi interessa, perché io non guardo niente di ciò che mi circonda; mi interessa a livello di razza, di sapore, a livello di presenza, ma non per guardarla.
HK; GP: Chi è stato o chi sono stati i personaggi o gli avvenimenti determinanti per il successo della transavanguardia?
EC: Se vuoi raccogliere il sapore di questa mia risposta, per me, è incredibile ma vero, i personaggi determinanti sono stati Fred Buscaglione e Fausto Coppi! Perché no? Come sapore per me, personalmente. Poi è chiaro che se andiamo ad analizzare il particolare è normale che vi sia stato il mercante che ci ha dato una mano, che ha comperato i quadri subito, che ha avuto coraggio. Ma se tu vuoi raccogliere il mio messaggio spirituale, intimo, è questo: questi due personaggi sono quelli che mi hanno dato il sapore delle piccole cose di tutti i giorni e attraverso loro un giorno ho capito che la mia pittura era diventata qualcos’altro.
HK; GP: Ma più precisamente, in senso concreto?
EC: Noi ci conosciamo da sempre, ho incontrato questi artisti a Roma quando ho fatto la prima mostra da Giuliana De Crescenzo (1978), prima non conoscevo nessuno. Loro, Checco [Clemente], Sandro [ Chia] vivevano a Roma, io ad Ancona ma spesso ero anch’io a Roma, e Achille [Bonito Oliva] aveva fatto vedere in giro i miei disegni e loro dicevano scherzosamente: “chi è questo presuntuoso che non viene nemmeno alle nostre mostre?”. Poi ci siamo conosciuti alla mia mostra. Quindi è nata questa amicizia. E da lì con Sandro abbiamo fatto dei disegni a quattro mani coinvolgendo anche Achille. Lì nacque anche l’idea di un libro, l’idea di fare una cosa strana, incredibile, senza nomi, non personale, dunque, ma raccogliere ciò che era nell’aria, questa situazione impalpabile ma di cui si avvertiva l’atmosfera. Prima c’era stata una mostra mia e di tutti agli Incontri Internazionali d’Arte, sempre organizzata da Achille, ma in questo spazio si formalizzarono lavori che erano ancora concettuali.
HK; GP: Lo scorso anno hai realizzato una scultura insieme a Sandro Chia. Una volta mi hai raccontato di aver fatto un’opera con Mario Merz. Cosa significa lavorare in due a un’opera? Comporta forse limitazioni, sottrazioni e anche frustrazioni? È necessaria una forte autodisciplina oppure può rappresentare una liberazione totale, si lavora in totale libertà come facendo un’opera da solo?
EC: Io penso che tutto sia possibile quando c’è la disciplina: una disciplina spirituale, la più feroce, la più cattiva e anche quella che permette di dare un giudizio sul mondo, in un certo senso. Fare un’opera a quattro mani diventa veramente l’omaggio a un’idea; all’interno c’è questa disciplina e questo eroismo di trovare una strada, non dico comune, ma di saper sdraiarsi, di saper riposare.
HK; GP: In che senso riposarsi?
EC: È come pensare a un museo, capisci? Tu trovi che in un museo ci sono i quadri buoni, la gente si preoccupa perché nei sotterranei ci sono moltissimi quadri che non vengono esposti. Invece è giusto così perché ci sono quadri che non riposano, non dormono, non hanno un sonno buono. Verranno alla luce quel giorno che saranno tranquilli, che saranno addormentati e allora il mondo li potrà vedere.
HK; GP: Ma lavorare a due non potrebbe essere il tentativo di infrangere un isolamento personale per comunicare con qualcun altro?
EC: Questo è molto vero e molto bello e questo conferma ancor più la nostra incredibile solitudine e aiuta a prendere coraggio, prendere coraggio per accettare questa solitudine.
HK; GP: Nel lavoro ti fai aiutare anche da qualcuno, hai un assistente che ad esempio ti prepara la tela?
EC: No, lavoro da solo, non in solitudine però, spesso quando lavoro c’è molta gente che mi guarda, che sta assieme a me. Questo mi diverte.
HK; GP: Lo spazio in cui lavori è importante per te?
EC: Assolutamente no! Non mi interessa il luogo. Anzi lascio spesso gli studi perché diventano insopportabili dopo un po’ Non ho niente in casa mia come vedi. Non ho quadri di amici, non ho niente perché non sopporto niente intorno a me. E posso dipingere in qualunque posto. Ma lo ripeto: dipende dal mio stato fisico.
HK; GP: Che differenza ha per te lavorare su un’opera grande o piccola?
EC: Il quadro piccolo è un fantasma e te lo lavori tra le mani; è una cosa che non controlli, è un tuo piccolo fantasma, è il prolungamento delle braccia, capisci? Il quadro grande è veramente come una quadriglia (4 cavalli eccezionali) e allora c’è questa incredibile meraviglia di dover tenere saldamente le briglie, di controllarla, di stabilire un rapporto con il tempo; per questo prima parlavo di energia, di energia e di economia spirituale, tua, personale. Il piccolo quadro, per quanto mi riguarda, è qualcosa che abbracci, è tutta una cosa tra le mani, come il disegno d’altronde. I grandi disegni sono una cosa e non c’è molta differenza con i grandi quadri, la tecnica è differente. Il piccolo disegno è la malattia del corpo.
HK; GP: Succede spesso che inizi con un disegno sulla tela e successivamente questa immagine si trasforma?
EC: Sempre.
HK; GP: Ti capita quindi di dipingere sopra un altro quadro?
EC: È sempre così. Ma non solo dipingo su un altro quadro, oltre tutto continuo a fare sempre gli stessi due o tre quadri; si continua a dipingere lo stesso quadro, lo stesso no, ma due o tre, perché un pittore non ha mai più di due o tre idee circa il suo lavoro, dei materiali che lavora. È una ossessione su due o tre problemi.
HK; GP: E la grafica?
EC: Io odio i mezzi. Non amo la tecnica. Io adopero i mezzi per le mie ossessioni, per una mia immagine, perché con certi materiali mi è possibile e con altri no e quindi passo attraverso questo corpo con totale indifferenza e anche con un senso di malessere nei confronti di questa meticolosità, di questo feticismo di oggi per i mezzi.
HK; GP: E chi sono i grandi artisti del passato che ami?
EC: Per un fatto di tranquillità, di serenità, mi viene in mente Masaccio, perché mi dà un grande sollievo. Il sollievo di capire come quest’artista aveva niente in testa anche lui, ma solo due o tre idee, sempre quelle, fisse, poi così banali, ma così incredibili, così legate all’universo, come l’idea di mettere un uomo per terra, in piedi, cioè quello che faccio io la mattina quando mi sveglio, cioè di posare i piedi per terra. Mi sembrano cose molto semplici, molto vere. Ecco, se guardi le sue teste così allucinanti, con questo incredibile rapporto con l’universo, fortissimo, eppure sono cose così naturali, semplici. Voglio dire, parlando di questo maestro del passato, mi interessano queste piccole certezze quotidiane. Se pensi a Carrà chiaramente non è stato un buon pittore, cosa vuoi che rimanga del suo lavoro? Però è stato importante come supporto pittorico; non si può dire che è un gran pittore però è stato veramente importante. Come Boccioni, che ha detto due o tre cose sull’arte, fantastiche, su Picasso e il picassismo, così incredibilmente importanti e ancora attuali, ma come pittore ha dato poco, niente, il suo lavoro non vale niente, formalmente non è buono; però ha detto due o tre cose importanti sull’arte! Allora Boccioni è un santo, un grande personaggio, una persona che non possiamo non amare. Invece in un altro senso, se pensi a Caravaggio e a El Greco forse hanno detto delle cose poco interessanti ma il loro lavoro è incredibile.
HK; GP: Come si svolge la tua giornata? A che ora ti alzi la mattina?
EC: Mi alzo la mattina verso le otto o nove e la prima cosa che ho voglia di fare è di uscire di casa a tirar su un po’ d’aria; poi vado al mercato, viaggio qui intorno. Il problema della mattinata è di tenere il passo, tenere il passo con il tempo, essere sicuri di essere in piedi. La mattina non dipingo mai, la mattina cammino.
HK; GP: Ti piace mangiar bene?
EC: Sì, ma non più del necessario. A me piace star bene fisicamente. Un buon pittore deve essere sano, non riesco a pensare ai pittori malati.
HK; GP: Esiste una divisione tra il tuo lavoro e la tua vita privata?
EC: Non c’è nessuna divisione perché il mio lavoro è la mia vita privata. lo non tendo a enfatizzare il mio lavoro, fa parte della mia giornata, come qualsiasi altra cosa.
HK; GP : Ami partecipare alle mostre?
EC: Sì, è per me come una difesa morale, come un guerriero.
HK; GP: No, ma io intendevo dire se ami fare delle mostre.
EC: Sì, mi piace fare le mostre.
HK; GP: Sei ambizioso?
EC: Ambizioso? Non so bene cos’è l’ambizione, capisci? L’ambizione è una cosa un po’ moderna che io non capisco. Se mi chiedi una cosa più precisa, se sono coraggioso, se ho paura, allora ti posso rispondere, ma l’ambizione, cosa vuol dire?
HK; GP: Ti reputi un grande artista?
EC: Un grande artista? Io penso di essere l’unico. Cioè come artista leggendario sicuramente l’unico, ma questo è vero, non è presunzione, perché se tu guardi con molta naturalezza i lavori, penso che alcuni quadri che io ho fatto possono essere necessari dentro la storia dell’arte. Ciò non rappresenta una disistima per i miei amici artisti, perché ognuno di loro è importantissimo per il contributo che porta, l’uno per l’ironia, l’altro per un’altra cosa e io ho una grande stima per loro; però stranamente vedo anche che in giro c’è molta immagine che non è tanto necessaria per l’arte. Vedi, la letteratura parla sempre della donna, non c’è romanzo che non parli della donna, penso invece sia allucinante che la pittura abbia questi problemi, come dire, di ordine narrativo; il problema del pittore è che vuole invece essere una donna, che è diverso, non la sua descrizione, cioè una donna come rapporto con l’universo, con il mondo.
HK; GP: Cosa intendi tu per leggendario?
EC: Leggendario? Le leggende sono le uniche cose vere, le uniche cose vere che esistono, che continueranno a esistere. Il resto è storia, ma la storia è falsa, come tu sai. Di un fatto ci pervengono dati, non l’anima. La leggenda ci dà anche l’anima, l’odore dei fatti.
HK; GP: Tu pensi di restare nella storia dell’arte quindi?
EC: Questo non è un mio problema. Io non voglio pensare a questo, anzi mi fa poco piacere pensare a questo, non è una presenza piacevole. Ma per tornare a quello che ho detto prima, alcune delle mie immagini sono necessarie e possono benissimo riposare vicino ad altri quadri del passato.
HK; GP: Cosa pensi della situazione dell’arte degli altri paesi? La Germania, gli Stati Uniti, per esempio?
EC: La Germania vive ancora sull’eredità di Beuys come gran parte dell’Europa, i giovani artisti tedeschi, essi stessi lo riconoscono, stanno lavorando, anche se in modo diluito e a livello narrativo, sempre attorno ai materiali di Beuys.
HK; GP: E Kiefer? Non pensi sia oggi un artista molto importante, l’interprete delle inquietudini e dei sogni irrealizzati della grande Germania?
EC: Kiefer è un bravissimo pittore degli anni ’60, e come lui Baselitz e gli altri. I più giovani sono ottimi artisti ancorati però a dei problemi esistenziali, radicali, non formali; però il loro problema esistenziale non è risolto. E anche il loro rifiuto attuale di Beuys ne testimonia il punto di riferimento. Beuys è un deposito di guerra. Il suo lavoro sui diversi materiali attraverso cui cerca di formalizzare un’immagine è enorme. Noi lo possiamo stimare, amare, ma difficilmente conoscere, come il rumore del Reno, sappiamo che è una cosa indescrivibile, meravigliosa, ma quelli che lo possono conoscere sono solo loro, i Tedeschi, noi possiamo conoscerlo solo in un certo modo. Per questo Beuys è il grande mistero ed è l’unico vero depositario del mistero. Kiefer è molto vicino a Beuys ma il suo limite è che sia costretto a narrare, a identificarsi con un filone narrativo. Salomé e Castelli, che mi piacciono molto, sono legati a un problema esistenziale, una specie di forma di liberazione, creando un’immagine. Però ritorno a ripetere che il deposito, la necessità, il luogo necessario è Beuys.
HK; GP: Chi ti interessa di più in questo momento, gli artisti americani o tedeschi?
EC: Julian Schnabel ha un bel sogno, una grande energia, ma il suo è un sogno un po’ aperto, un sogno globale, totale, vuole passare attraverso il corpo di tutto e di tutti e lo capisco. Ma io penso che l’arte si debba interessare a una piccola, piccolissima cosa, non può interessarsi a un sogno globale. Non ritengo dunque che il sogno di Schnabel sia un sogno possibile, ma gli riconosco una grande energia. David Salle è un ragazzo molto intelligente, ma la sua mostra da Mary Boone è stata disastrosa, ripetitiva, senza futuro. L’arte non ha bisogno di persone intelligenti bensì di strade aperte; un lavoro deve aprire una strada, deve sfondare, però stiamo sempre parlando di artisti interessantissimi. Robert Longo non lo conosco molto, ho visto una sua mostra dalla vetrina. Mi sembra molto americano però. Se vuoi conoscere la mia opinione, il grande problema del mondo è l’arte italiana. Io penso che in questo momento la fonte di luce è l’arte italiana. Forse non è vero questo, ma è meraviglioso che tutti lo pensino. Il mondo dell’arte vive in uno stato di bagliore che è dato dall’arte italiana. Se non ci fosse l’arte italiana non ci sarebbe niente. Noi conviviamo con artisti come Guttuso, con grande stima, ma pensa tu se possiamo capire. Per noi è come una cosa silenziosa, sappiamo che esiste, ne prendiamo atto ma finisce lì. È un altro livello parallelo. È quello dei treni, che dicevo prima: deraglia un treno, arriva un temporale e fa cento morti, lui sente la necessità di fare un quadro. Invece io sono per il terremoto, per le catastrofi, ma in quanto tali, per l’energia che portano. Adesso io credo che succederà una catastrofe generale, grandissima, come mai è successa, tutto andrà alla deriva, i critici, la gente che parla dell’arte, perché saranno costretti a ristudiare per trovare finalmente in sé stessi un minimo di energia per poter lavorare. A New York ne parlavo con qualcuno e nessuno voleva credere quando dicevo che tra poco resteranno non più di cinquanta gallerie perché di più sono inutili, perché non c’è spazio per più di cinquanta. Invece adesso sono duemila.
HK; GP: Non ti sembra di essere un po’ apocalittico?
EC: Guarda che il mondo cambia da un momento all’altro. Succedono cose incredibili da un momento all’altro. Io te lo dico. Ecco, il mondo deve ascoltare gli artisti ma in questo senso, non solo per quello che fanno. Quando noi abbiamo incominciato a lavorare, al di là del nostro lavoro, se tu parlavi dell’atmosfera, di quello che noi avevamo raccolto, la gente si metteva a ridere, capisci? Qualche volta se ne parlava tra noi, ti ricordi, si diceva di quando si pensava che non sarebbe potuto succedere e invece poi è successo? Così può succedere ancora di nuovo qualcos’altro. Guarda, sono due anni che Leo Castelli mi chiede una mostra, direttamente o indirettamente attraverso Gian Enzo Sperone. E io spiego a entrambi che non è possibile. Io stimo molto Leo Castelli ma non posso fare una mostra in due gallerie. Se Gian Enzo insiste perché io faccia una mostra da Castelli gli dia la sua mostra, a me non interessa, per me una galleria vale l’altra. Ma vedi, in questo caso una galleria deve rinunciare a parte del suo programma se l’altra vuole la stessa mostra. Ma vedi il problema è un altro: se accettassi di esporre in entrambe le gallerie invece di quattro lavori o cinque diventano forse di più. E in questo caso diventa impossibile, capisci? E quando diventa impossibile sai cosa succede? Succede il caos.