Vedere la pittura è costruire un dialogo senza che nessuno faccia le presentazioni. È ricevere uno stimolo percettivo diretto, avulso da preconcetti esperienziali, basato quasi esclusivamente su elementi trascendenti, sulla percezione di una materia pittorica, del colore o della forma. Un’attuazione della regola visionaria di Gustav Fechner, che cercò di misurare il rapporto tra stimolo e sensazione senza badare alle infinitesime variabili di una coscienza. Vedere la pittura significa inventare una propria grammatica essendo abbandonati dall’artista nel processo di scoperta e comprensione. Forse è per questo motivo che negli ultimi decenni si è assistito a un approccio pregiudiziale verso questo metodo espressivo, l’uomo sembra esser più rapido nell’atto apercettivo che percettivo. Neanche la riconoscibilità di una buona tecnica soccorre al processo cognitivo. Se Picasso osannava un percorso a ritroso, pittori contemporanei attribuiscono il gusto della propria creazione all’applicazione di un mandala orientale, alla scarsa vista o all’incapacità di dipingere. Anche la figura del pittore ha da sempre un carattere molteplice, c’è chi si sente pittore puro e chi si sente un’artista capace anche di esprimersi attraverso questo media e il risultato è sempre differente. Ma come si riconosce un quadro “bello”? L’allora trentenne Enzo Cucchi rispondeva a un ignaro intervistatore Rai, “dalla puzza, anzi dall’odore”, il quadro “bello” doveva avere un buon odore. Ed è nel 1979, in un periodo storico segnato dalla crisi economica occidentale e dal vacillamento di precise ideologie politiche che gli equilibri dell’arte contemporanea subiscono un contraccolpo. “Cade nell’arte il mito della sperimentazione a qualunque costo, l’arte di avanguardia si era mossa sotto questa tensione ottimistica di accompagnare le trasformazioni del mondo con la trasformazione del linguaggio […]”.
Nasce così un progetto “nomade” non asservito a un filone artistico preciso, definito Trans-avanguardia “[…] gli artisti si rendono conto di non poter operare più in termini di sviluppi lineari sulla storia del linguaggio… bisogna sconfinare da questo grande solco che sono le avanguardie e spandersi in maniera libera e frammentaria”1. Tale intento sarà perseguito principalmente da cinque artisti cooptati dal critico Achille Bonito Oliva che definirà dei “ciechi-vedenti”: Francesco Clemente, Sandro Chia, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino e Nicola De Maria dal differente e dichiarato approccio anacronistico. Si assiste a una vera e propria riabilitazione del linguaggio pittorico che dichiara “l’impossibilità di darsi come misura di sé e del mondo”2. Un espressionismo allegorico, un’elevazione verso forme ancestrali, segni, figure ed echi cromatici che non sembra registrare né il presente né la tradizione; un disinibito immaginario trasversale che unisce cultura alta a popolare. Il valore intellettuale dell’operazione riecheggia in campo internazionale contrapponendosi all’allora inarrivabile Arte Povera. Spinto così dalla “legittima reazione”3 di abilitare quei pittori “orfani” della Transavanguardia, Renato Barilli nel 1980 costituisce il gruppo dei Nuovi Nuovi che annoverava tra gli altri il siciliano, torinese d’adozione, Salvatore Mangione, passato dalle sperimentazioni poveriste della scuderia di Sperone a una pittura di forme e colore scaldata da un’aurea rasserenante. Il processo di riabilitazione a un figurativismo spinto, se pur di altra natura, si era già avviato dalla metà degli anni Settanta grazie a Maurizio Calvesi, che sotto l’appellativo Anacronisti, associava l’estetica di alcuni autori legati a un’idea Sarfattiana di un post ritorno all’ordine. A questi due gruppi si sommeranno quelli della Metacosa e il Magicoprimario che nati più per intuizione critica che per un vero matrimonio di intenti avranno una eco di pochi mesi. In controtendenza alle logiche di gruppo emerge il lavoro decentrato e autonomo di Ettore Spalletti che spinto da figure intellettuali quali Mario Pieroni, Lucrezia De Domizio Durini e Cesare Manzo si concentra su un’opera in cui luce, colore forma e spazio si equilibrano in una infinita serie di variazioni su tema. Ben presto, si formano spontanee aggregazioni artistiche basate non necessariamente su precise assonanze estetiche o teoriche o per l’idea di un critico che ne formalizza i principi ma in preda a uno stato di grazia, come i pittori Piero Pizzi Cannella, Marco Tirelli, Giuseppe Gallo e Gianni Dessì della Scuola di San Lorenzo. Amici e studenti di Toti Scialoja, scelgono di insediarsi negli spazi di una fabbrica dismessa in via degli Ausoni a Roma, lavorando a poetiche autonome che confluiscono spontaneamente “in una comune mentalità estetica e visione morale dell’arte”4 tutt’oggi in atto. Dopo un periodo di dominio concettuale la pittura finalmente c’è. In Italia si assiste all’epoca d’oro del riconoscimento internazionale della Transavanguardia, in Germania si respira l’espressionismo della Neue Wilden e l’America risponde con le grandi tele della New Painting. Il collezionista di pittura non deve più trovare conforto nei maestri del passato ma può scommettere su un lavoro contemporaneo internazionalmente riconosciuto. In una Bologna permeata di anti-accademismo e cultura low, la pittura si fonde con il fumetto e con il disegno. Supportati dalle ripercussioni di personalità oltreoceano come Basquiat e Haring, personaggi come Massimo Mattioli, Marcello Jori e Andrea Pazienza dettano nuove regole estetiche dalle pagine dell’editoria suburbana. Di altra matrice Gian Marco Montesano, poco più grande di età, sfuggito a una vita ecclesiastica per amore dell’arte e del teatro, approfondisce una pittura che attraversa nel tempo tutte le sue immortali classificazioni; dalla figurazione popolare a quella di genere, da quella politica a quella religiosa, dagli omaggi alla sua Torino a quelli per il padre “eccentrico” dell’avanspettacolo. Un sincretismo culturale che ha tutto il sapore di un’analisi sulla realtà e le sue memorie.
Montesano viene inserito dalla fine degli anni Ottanta e per tutti i Novanta nell’ambito della corrente Medialista, teorizzata dal critico Cristiano Perretta e basata su un recupero pittorico, neopop e fumettista, della quale sarà un precursore. Ed è proprio nella città d’origine di Montesano che fiorisce una scuola pittorica torinese accolta negli spazi della galleria Carbone e tenuta a battesimo da Corrado Levi, intellettuale a tutto tondo e artista. Si tracciano così le figure di Pierluigi Pusole che dalle tele raffiguranti tv in stallo passa a una costante ricerca sul paesaggio artificiale, di Bruno Zanichelli col suo stile in tecnicolor fortemente simbolico e di Raffaello Ferrazzi. Seppur il clima italiano è effervescente e Milano vede l’apertura di nuove gallerie, l’affluenza di giovani artisti e l’attuazione di esperienze culturali autogestite, come quella della fabbrica Brow Boveri e di via Lazzaro Palazzi, l’artista Marco Cingolani commenta il suo ingresso nel mondo dell’arte così: “abbiamo cominciato… quando il film era già finito”5. Replicare i fasti dell’epoca transavanguardista è impossibile e con la voglia di imporsi senza santi in paradiso, Cingolani, unico pittore puro di questa scena indipendente, propone un immaginario frammentato, attivato da alcuni eventi italiani di cronaca quali la vicenda di Aldo Moro e l’attentato al Papa. Nebulose cromatiche e figure stilizzate si intrecciano e ritraggono le icone di una società dai valori ormai in disgregazione. Approda alla pittura anche il compagno di avventure Massimo Kaufmann che traduce su tela un’evoluzione delle sue iniziali opere concettuali. Da contraltare a questa libertà espressiva i pittori Giovanni Frangi, Marco Petrus, Luca Pignatelli e Velasco Vitali, uniti nel 1998 come gruppo delle Officine Milanesi, abbracciano una figurazione legata al paesaggio urbano e a una iconografia di estrazione classica. Lo scenario all’inizio dei primi anni Novanta si presenta costellato di molteplici episodi che mancano però di centralità geografiche e di una direzione teorica corale. A causa di questo clima di rarefazione e di un interesse maggiore per le potenzialità economiche piuttosto che intellettuali della pittura, si delinea un’attenzione crescente nei confronti di altre esperienze provenienti dall’estero, complice anche l’appuntamento torinese del Post-human. L’Italia per la pittura è diventata un “non-luogo”, adottando il termine del filosofo Marc Augé e la forzata, solitaria, individualità degli artisti, genera pochi ma rilevanti esempi come quelli di Daniele Galliano, Marco Neri, Andrea Salvino e Alessandro Pessoli. Da segnalare anche le esperienze pittoriche di artisti quali Manfredi Beninati, Gabriele Di Matteo, Margherita Manzelli, Luca Pancrazzi e Simone Berti, quest’ultimo parte integrante del collettivo milanese di via Fiuggi 12/7 composto dagli studenti dalle classi del poliedrico Alberto Garutti. Se fenomeni artistici “isolati” si sviluppavano principalmente al Nord, in Sicilia Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Andrea di Marco e Fulvio Di Piazza formano la cosiddetta Nuova Scuola Palermitana che più che un codice estetico unanime sembra portare avanti una situazione di collettività. Il nuovo millennio si è ormai affacciato presentandosi con la tragedia delle Torri Gemelle. Nuovi scenari creativi si prefigurano, registrando le mutazioni di una società globale che appare per la prima volta traballante. A Milano si assiste all’irruzione della scena pittorica chiamata Nuova Palestra Artistica Milanese dei critici Alessandro Riva e Maurizio Sciaccaluga, ben sostenuta dal mercato ma poco da una critica diffusa. Quella del 2000 è una generazione coinvolta in un processo di dislocazione convulsa e pendolare. Artisti eruditi, spesso provenienti da piccoli centri periferici, hanno la possibilità di esaminare coscientemente lo spirito del tempo e le opportunità promosse dalle grandi città rimettendosi alle innumerevoli, feconde potenzialità della rete. “Ora le idee hanno un respiro planetario. Partono dal tuo giardino, hanno il profumo dei tuoi fiori, e devono essere scambiate con tutto il mondo”6.
La pittura risponde a questo iper-stimolo informativo con una meditata architettura dell’eklektekós. Si distinguono subito Pietro Roccasalva e Valerio Carrubba, di cui si analizza un complesso lavoro basato sui concetti di costruzione e resistenza della figura umana. Laura Pugno e Alessandro Roma, che focalizzano l’indagine sul rapporto interno-esterno in un equilibrio instabile tra architettura e natura mentre Gabriele Arruzzo, Manuele Cerutti, Valentina D’Amaro e Gianluca di Pasquale, più affini ai processi del quotidiano, spingono l’immagine alle sue estreme conseguenze. Proiettata verso una nuova figurazione espressionista, Lorenza Boisi si perde nel processo estatico della mente, l’occhio smarrisce la percezione della figura e si sposta sul gesto e su un impegnato senso di protezione verso l’arte. A Roma al percorso dell’outsider Alberto di Fabio, sedotto dalle microscopiche danze cosmiche e organiche della scienza naturale, si affianca l’esperienza di alcuni artisti come Mauro Di Silvestre, formatisi negli studi della Scuola di San Lorenzo. Dall’estero arriva la cultura pop-surrealista, nata a Los Angeles nel 1970, che vede in Nicola Verlato il suo attuale portavoce. La seconda metà del primo decennio si distingue per un clima di smarrimento diffuso, la crisi economica colpisce duramente l’Italia e i primi “tagli” investono la cultura. Chiudono gallerie, crollano numerose istituzioni e non s’investe più, almeno sul nuovo. “Dal letame nascono i fior” scriveva De Andrè e gli artisti stufi di aspettare soccorrono loro stessi. Gli Artists Run Spaces, spazi non profit indipendenti, unitamente a molteplici operazioni autogestite, diventano la cellula prima da cui far partire una rigenerazione. Il lavoro di giovanissimi pittori emergenti quali Riccardo Baruzzi, Matteo Bergamasco, Luca Bertolo, Marco Bonafè, Rossana Buremi, Patrizio Di Massimo, Sara Enrico, Giulio Frigo, Ivan Malerba, Andrea Kvas, Francesco Joao Scavarda viene sdoganato. Al loro lavoro si somma quello più radicale e puro di Pierluigi Antonucci e Michele Tocca, che insieme al più maturo Angelo Mosca, sembrano tendere verso “un’inconscia nostalgia per una tradizione inafferrabile”7 e per una tensione sensibile verso l’esperienza oggettiva. Sebbene la questione pittura non sia mai stata un diretto problema dei pittori, oggi questo linguaggio non sembra essere più un tabù, spingendo anche artisti di diverse nature a praticarlo con alternanti fortune — la pittura non bleffa — il pittore compie un atto generoso, imprime un’alchimia in un momento estatico di riflessione davanti all’horror vacui della tela vuota, certo che “né espressionisti, né confessionali, i dipinti sono intesi a ribadire l’urgenza di ripensare criticamente la pittura” come afferma in uno scritto recente Michele Tocca. Bisogna voler bene ai pittori: far pittura in questi ultimi decenni è equivalso a una militanza e la scelta consapevole e coerente di appartenere a una minoranza va premiata.