Marcello Smarrelli: Con La bozza del punto (1994) cerchi di dimostrare che gli uomini non sono altro che punti di un’ipotetica linea del tempo e della Storia. Un lavoro mai completato, rimasto alla stato embrionale di progetto. Una pratica dell’arte che già dall’esordio si pone come attività di introspezione e “cura”, come si intuisce anche dall’intervento realizzato per Fuori Uso ’97, Luisa, nella ex Colonia Stellamare a Montesilvano.
Ettore Favini: Seguendo il mio rapporto alterato con l’idea di ordine/disordine — una fobia che mi investe ogni volta che il caos mi sembra diventare ingovernabile — ho deciso di riordinare completamente una stanza della clinica piena di water, bidet, lavandini e una quantità innominabile di cocci di sanitari, rimettendo tutti i pezzi, accuratamente ripuliti, nello stesso posto dove li avevo trovati. Il risultato era di nuovo un caos, ma stavolta pulito e ordinato, confuso in un miscuglio di odori che sfumavano dalla candeggina all’ammoniaca all’essenza di lavanda.
MS: Nel 1998, per La stanza dei mille progetti, nell’ambito della mostra “La ville, le jardin, la mémoire” presso l’Accademia di Francia-Villa Medici a Roma, prende il via la tua riflessione sul paesaggio. Il progetto prevedeva un vialetto antiprospettico all’interno del giardino. In pianta era una specie di cono e i lampioncini laterali crescevano allontanandosi, in modo che allo sguardo tutto apparisse senza prospettiva.
EF: Lavorando a quel progetto non avevo ancora acquisito la piena consapevolezza di lavorare sul paesaggio e il mio interesse era piuttosto per la percezione, come se lo spazio circostante non fosse importante, un non-luogo estraniante.
MS: Dopo un lungo periodo di inattività sei tornato a lavorare sui temi di infinito e di ordine, ma le tue opere, per dimensione e materiali usati, appaiono molto diverse rispetto al passato. C’è stato un cambio di direzione?
EF: Non so ancora se questi nuovi lavori abbiano segnato un qualche punto di svolta, ma sicuramente so di aver maturato una diversa consapevolezza. Adesso ho dei nuovi indizi sui cui ragionare.
MS: Quali sono?
EF: Mi sono confrontato con un tema molto rischioso, l’autoritratto. Temevo di produrre un lavoro troppo personale, ma era importante per me farlo. Ho cercato di rendere i miei autoritratti universali, filtrandoli attraverso la memoria delle persone che ho conosciuto in questi anni. È stato come mettere ordine in una stanza piena di cose: trovi qualcosa di cui ti eri dimenticato, lo spolveri e l’oggetto che tieni in mano richiama delle memorie. Sono tornato a visitare i luoghi del mio passato, volevo che diventassero amplificatori della memoria, un po’ come la madeleine per Proust. Questi ricordi, spesso dolorosi, sono diventati presenze fondamentali nelle mie opere.
MS: Dasein (2007) riempie lo spazio con una potenza visiva lontana dal minimalismo del passato. Un cambiamento di scala che lo avvicina piuttosto ai tuoi recenti progetti ambientali.
EF: Si tratta di una scultura che scende dal soffitto composta da circa 700 led rossi, ognuno collegato a un cavo elettrico, per un totale di 4 km di cavi. Questa tenda luminosa è la mia vita accesa che contemplo in una stanza buia. L’opera porta con sé un senso di sospensione e la tensione del non finito perché la sua forma è mutevole a seconda del luogo e del momento in cui viene installato. Da quando è stato pensato a oggi, alcune di quelle luci si sono spente, mentre altre nuove se ne sono accese.
MS: Il bisogno di scandire il tempo e le presenze della tua vita segnate su un calendario biologico, un grafico mnemonico o schedate in un archivio personale, caratterizzano, con forme e materiali diversi, anche Dendro (2007) e Ipotesi di finito (2007).
EF: Dendro è una rotella di rovere del diametro di 70 cm e dello spessore di 30 cm in cui ho praticato un foro per ogni persona che ho conosciuto, partendo dal mio anno di nascita, in ogni anello di accrescimento dell’albero corrispondente all’anno preciso in cui ho conosciuto la persona. Ho utilizzato lo stesso processo anche per Ipotesi di finito: una scatola in betulla aperta su due fronti che contiene 33 lastre in plexiglas. I fori assumono l’aspetto di bolle congelate in un fluido. In questo caso volevo riprodurre oltre che i legami di conoscenza anche il processo di rimozione della memoria. Infatti, guardando frontalmente la scultura, le lastre di plexiglas contrapposte creano un “effetto nebbia” che impedisce allo sguardo di avanzare oltre una determinata soglia, come in un ricordo annebbiato.
MS: Nel passato avevi fatto uso di materiali e tecniche tradizionali, mi riferisco alle carte da spolvero forate simili ai cartoni preparatori utilizzati per l’affresco. Nei tuoi, però, non c’è nessun disegno da seguire e le forature sembrano solo la ripetizione di un gesto ossessivo che segna un tempo psichico.
EF: Le forature sono un gesto inutile, compulsivo e ripetitivo, che mi offre la possibilità di tracciare le mie “ipotesi di finito”. Il concetto dell’opera parte dal Paradosso di Zenone secondo il quale 1+1 = 3, perché tra un numero finito e il successivo può essercene un terzo. Cerco di rappresentare questo paradosso, forare all’infinito la carta, fino a non avere più materia perché il foglio a mia disposizione ha dei limiti fisici, come la vita.
MS: Questo desiderio di dare forma all’infinito è una costante nella tua ricerca.
EF: Il concetto di infinito mi segue da sempre, è come uno spazio che implode, come quando sei sull’ottovolante e stai scendendo a 300 all’ora da una discesa con una pendenza del 50%. Quando ci penso mi manca il respiro. Lavoro su questo tema non per esorcizzare la paura della morte, ma per il senso di vuoto che ne consegue. È come una cura.
MS: Nel tuo lavoro si individua un dualismo che contrappone immagini fissate nella memoria — che seguono un principio di ordine nella confusione indiscriminata dei dati immagazzinati — e la concretizzazione di questo pensiero nella realtà attraverso oggetti e azioni che si oppongono all’entropia. Alla produzione di oggetti simbolicamente complessi si affiancano azioni rivolte alla soluzione di problemi pratici, realizzati con una chiarezza progettuale esemplare. Nel novembre del 2006 hai vinto il “Premio Artegiovane” e quest’estate il “Premio New York” con progetti che coinvolgevano l’ambiente. Cosa lega l’intimismo del tuo lavoro “da galleria” a questi interventi decisamente pubblici?
EF: Il tempo. Nei miei lavori il concetto di tempo è una costante. Nel lavoro per il “Premio Artegiovane”, Verdecuratoda (2006), questo concetto è presente nella ricerca sulle origini del quartiere Falchera, un’area periferica di Torino storicamente agricola, divenuta poi città satellite FIAT, abitata prevalentemente da ex braccianti agricoli emigrati dal sud. Il mio progetto vuole celebrare il quartiere stesso attraverso la piantumazione di antiche essenze arboree da frutto piemontesi, collegando così il passato storico del quartiere a un presente ecologico e sostenibile. L’area stessa infatti sarà alimentata da un sistema fotovoltaico. Per il “Premio New York” ho coniugato l’idea di tempo con l’idea di paesaggio: i giardini precari del Lower East Side, ogni giorno minacciati dalle real estate. Vorrei semplicemente offrire la possibilità di fruire di un’opera impalpabile, l’emozione di uno sguardo. Voglio realizzare e donare ad alcuni community garden una seduta/panca che il fruitore può prendere e spostare per godere della sua private view, per registrare con la mente e il ricordo un attimo piacevole, di un verde che forse domani potrebbe non esserci più. Nella galleria dell’Italian Academy realizzerò invece dei lavori che, per sensazione, riassumeranno la mia private view...