Dagli inizi del 2000, la ricerca di Eugenio Tibaldi (1977; Alba) gravita intorno al complesso nodo che lega marginalità, periferia, informalità. Per sviluppare tali riflessioni, l’artista ha vissuto a Napoli e nell’hinterland per sedici anni, alternando soggiorni in Egitto (Il Cairo e Alessandria), Istanbul, Salonicco, Bucarest, L’Avana, Caracas. In questi luoghi, Tibaldi si è dedicato allo studio delle peculiari dinamiche sociali, economiche, geopolitiche e dei loro relativi riflessi estetici.
Simone Ciglia: Mi piacerebbe che tu spiegassi come sei arrivato a definire questo campo d’indagine e quali sono gli strumenti che hai scelto per condurla. Quali sono le “logiche poetiche” che orientano il tuo processo di traduzione formale?
Eugenio Tibaldi: La costruzione del mio lavoro varia di progetto in progetto, e la formalizzazione finale resta uno dei capisaldi della mia ricerca. In questo senso mi sento molto italiano, erede di una tradizione che conferisce valore alla continua ricerca di una possibile maestria compositiva. Per questa ragione, ogni elemento trova una dimensione tanto nel suo aspetto concettuale quanto in quello estetico. Il margine ha una sua estetica e una sua poetica, fragile e spesso guidata da parametri diversi: l’emergere di queste forme rappresenta una parte importante del mio lavoro. La comprensione delle dinamiche che le regola mi permette di realizzare lavori che seguono quelle istanze e guidano verso possibili forme alternative, parallele a quelle formali, generando chiavi di lettura diverse rispetto alla macro-narrazione. Forse proprio la narrazione di storie mai sistematizzate potrebbe rappresentare un ruolo per la mia ricerca, una funzione.
S.C.: La tua analisi attraversa una molteplicità di prospettive – sociale, economica, politica, geografica – che trovano una sintesi in quella artistica. In quale modo ti servi della commistione di diverse discipline e come queste si rapportano all’arte?
E.T.: Da sempre amo studiare, leggere e informarmi: non per accumulare nozioni o raggiungere traguardi ma perché sono un curioso e, come tale, quando incontro una dinamica voglio capirla e – quando mi piace – essere in grado di ripeterla. La mia curiosità mi porta a rilevare dettagli che sembrano inutili ma possono diventare risolutivi quando gli strumenti narrativi che posseggo diventano insufficienti. Per questo, nel processo di traduzione formale mi trovo a chiedere aiuto a meccanismi che s’innescano attraverso discipline altre – dalla filosofia alla fisica, dalla meccanica alla politica – in un andamento claudicante e ondivago che alla fine mi conduce da qualche parte.
S.C.: Nel 2012 hai inaugurato una linea di ricerca fondata sul concetto di creazione attraverso l’inclusione estetica e la partecipazione attiva della società: ciascun progetto indaga un contesto, coinvolgendo – attraverso varie modalità – determinate categorie di persone. Il tema dell’abitare è al centro di Architettura minima (2012-in corso), studio sui ricoveri dei senzatetto, e Questione di appartenenza (2015), una ricerca sull’informalità edilizia nel centro storico di Napoli, che ha visto studenti di scuola intraprendere derive urbane alla ricerca di varie forme di abusivismo. L’anno successivo, sei tornato a vivere a Torino in occasione di Seconda chance (2016), il progetto presentato presso il Museo Ettore Fico in cui hai invitato gli abitanti del quartiere Barriera di Milano a donare oggetti che hai raccolto in un’architettura grandiosamente precaria di tubi innocenti. Due anni dopo, ti sei avvicinato alla questione dell’inclusione sociale nel progetto concepito per la cooperativa sociale Società Dolce di Bologna (Inclusio, 2018), coinvolgendo i dipendenti e gli utenti dei servizi attraverso lo strumento principe dell’indagine sociale, il questionario (dispositivo di cui ti servi di frequente recentemente). Le dinamiche costruite in queste circostanze si collocano volutamente al di fuori delle pratiche artistiche partecipate, piuttosto abituali nell’orizzonte estetico contemporaneo: pur appellandoti all’altro, non abdichi al tuo ruolo di artista, perché il processo di formalizzazione è sempre saldo e coerente, evitando così il rischio più grave di questa linea estetica, la retorica. Quali sono state le ragioni che ti hanno condotto a intraprendere questa traiettoria e quali i passaggi fondamentali che l’hanno caratterizzata?
E.T.: Sono due gli aspetti che hanno cambiato il mio approccio alla ricerca. Intorno al 2011, nel pieno della crisi economica, cominciava a sfaldarsi il mondo che conoscevamo, e con esso anche il mondo dell’arte: l’apparenza effimera, criptica e distante che l’arte indossava iniziava a sembrare la strada verso l’abisso. Così ho pensato che la colpa fosse anche mia, che volevo invertire la direzione attraverso azioni e scelte indirizzate al coinvolgimento di ambienti e professionalità altri rispetto alle solite che compongono la platea contemporanea, con un atteggiamento inclusivo. Il secondo aspetto riguarda invece un cambiamento di natura tecnica. Fino al 2012 mi sono sempre mosso attraverso un incedere solitario, cercando le tracce dell’informalità tramite chiavi di lettura che arrivavano dai luoghi stessi e dalla loro frequentazione. Nel 2013 ho deciso di mappare la complessità dei micro-abusi che caratterizzano le facciate del centro storico di Napoli (lavoro che mi ha impegnato per circa due anni) e mi sono reso conto che non sarei mai riuscito da solo. Così ho collaborato con 30 assistenti e 9 docenti del luogo, cui ho dato precise istruzioni. Il risultato inizialmente mi ha disturbato: non sopportavo di vedere una foto non fatta da me, con un’angolazione diversa da quella che avrei scelto io. C’è voluto un po’ di tempo per capire che quella pluralità di sguardi era un’evoluzione in grado di arricchire il progetto. Attraverso la condivisione della domanda avrei ottenuto una risposta con infinite sfaccettature, priva di mestiere e della fascinazione “dell’ospite” temporaneo, in quanto sarebbe passata attraverso persone che da quel territorio provengono e ne conoscono dettagli a me inaccessibili. Così ho deciso di dividere le mie ricerche in due fasi: la costruzione in modo condiviso di una banca dati intorno al concetto che ho scelto di indagare – una sorta di tavolozza in cui porre i giusti toni – seguita da una fase in studio in cui ricostruisco un ipotetico percorso, come un puzzle composto da tessere che non s’incastrano, e proprio per l’assenza di precisione assomigliano allo sguardo reale. Questo metodo mi permette di andare in luoghi sconosciuti, conservando i bordi sfrangiati dell’informalità senza cadere nella storicizzazione e nella patinatura.
S.C.: Nel corso dell’ultimo anno abbiamo lavorato insieme a Più là che Abruzzi, un progetto dedicato alla realtà della regione presentato da gennaio a marzo presso il Museo Michetti di Francavilla al Mare (CH). L’indagine sul territorio, resa possibile grazie alla residenza presso l’hotel Villa Maria nella stessa Francavilla, era basata sul bando regionale “Abruzzo include”, emanato nel 2016 e indirizzato a soggetti socialmente svantaggiati, coinvolti in tirocini lavorativi presso aziende del territorio. A un campione del bacino d’utenza del bando è stato somministrato un questionario di tua ideazione: dalle risposte ricevute in forma anonima, per molti versi sorprendenti, hai tratto materiale per realizzare cinque nuove installazioni che aprono una direzione inedita nel tuo lavoro. Qual era l’intento della tua indagine, in che modo hai pensato di articolarla e quali sono i risultati emersi?
E.T.: Da un po’ di tempo volevo raccontare un altro margine possibile, quello dettato dalla provincia. L’Abruzzo, con le sue caratteristiche, risulta un termometro perfetto in grado di restituire un’immagine limpida e precisa, scissa da un lato a una fedeltà al territorio, dall’altro testimone di una condizione comune a molte aree del mondo. Questo aspetto diventa un paradosso fondamentale: provinciale diventa internazionale, in un’accezione che non indica uno scontato aspetto di modernità positiva. I risultati dell’indagine condotta negli otto mesi che hanno preceduto la mostra mi hanno permesso di rintracciare sentori lontani, colori e temperature che da troppo tempo non riconoscevo: più indagavo, più scalfivo la corazza di sovrastrutture che ho creato durante questi anni di viaggi, trovando segni profondi nascosti sotto i miei abiti cittadini; ero parte della dinamica che narravo e mi sono sentito investito di una responsabilità estetica nuova che ho cercato di tramutare in forma. L’aspetto di maggiore interesse non risiede a mio avviso nel reale ma nel percepito: la percezione è la dinamica che costruisce il reale privato di ognuno di noi, che sommato a quello di altri determina la costruzione di un territorio e la sua identificazione. La provincia è il territorio più diffuso al mondo e allo stesso tempo quello che restituisce la sensazione di maggior isolamento.
SC Quest’anno sei invitato alla Biennale di Venezia nel padiglione cubano “Entorno aleccionador (A Cautionary Environment)”, cui partecipi come unico artista italiano. Conosci la realtà dell’isola da ripetuti soggiorni, soprattutto in occasione della tua presenza alla Biennale de L’Avana nel 2015, quando hai esposto Informal Poker Room: una sala da gioco costruita secondo un progetto informale e dedicata al poker, in cui le partite erano disputate utilizzando mazzi di carte di tua ideazione, contenenti simboli legati al mito e alla realtà dell’isola. Declinata nel contesto cubano, l’indagine sull’informalità si concentrava qui sullo iato fra ideologia e realtà. Alla Biennale presenti un’antologia di opere degli ultimi anni: secondo quali criteri le hai selezionate e in che modo interpretano il contesto di Cuba?
E.T.: Il mio contributo al Padiglione Cuba sarà una riflessione sulla transizione vissuta dai paesi che hanno investito in ideali sociali affrontando periodi di regime durissimi e si trovano oggi di fronte alle scelte del neoliberismo. Mi concentrerò quindi su un concetto di margine che non sarà geografico ma temporale: considero questa transizione come la periferia dei grandi momenti storici…Le opere che presenterò provengono dalle ricerche svolte in passato a Bucarest, L’Avana, Caracas e Tirana. A queste si aggiungerà un nuovo lavoro, dedicato a tutte le persone che vivono momenti di pressione nei periodi di transizione sociale.
S.C.: Recentemente hai vinto – ex-aequo con Ettore Favini – il bando che il Comune di Milano ha dedicato alla realizzazione di un’opera nell’ambito delle celebrazioni per il cinquecentenario della morte di Leonardo Da Vinci. Il progetto prevede la realizzazione di un Giardino abusivo (questo il titolo del lavoro) costituito da vari elementi di riciclo collegati da un sistema di tubazioni per l’irrigazione. L’installazione, presentata a settembre presso il Museo del Novecento di Milano, si ramifica in diversi spazi dell’edificio. L’opera sembra proseguire la tua ricerca sul tema dell’abusivismo, estendendola alla realtà naturale e aprendo una direzione per te nuova, legata all’interazione fra i paradigmi tecnologico ed ecologico. In quali termini si è svolto il confronto con il genio leonardesco e come hai interpretato questa commissione?
E.T.: Non è stato un vero e proprio confronto: ne sarei uscito con le ossa rotte. Ho cercato invece di ragionare per assonanze: prima di essere un artista e uno scienziato, Leonardo era un grande curioso e un ricercatore, elementi che ci accomunano. Ho immaginato quindi di abbinare le nuove tecnologie di coltivazione indoor alle estetiche di oggetti e arredi esausti, ri-funzionalizzandoli e rendendoli nuovamente attivi. L’installazione, che parte dai bagni del museo, ricicla l’acqua dei lavabi attraverso un processo di fitodepurazione che la rende utilizzabile per innaffiare verdure, aromi e fiori. Si tratta di una sorta di macchina che prova ad annullare la distanza fra il luogo museale e i visitatori, offrendo la possibilità di fruire dell’opera sotto molteplici punti di vista – primo fra tutti quello di raccogliere e mangiare le verdure prodotte.