Edith Jeřábková: Ciao Eva, che fai stasera?
Eva Kot’átková: Sto finendo una serie di questionari sociometrici per gli alunni di una scuola di Praga. Ci lavoro da più di sei mesi, ogni volta che ho una sera libera, ma mi sembra che ci siano ancora delle imperfezioni. È stimolante perché il destinatario e l’utilizzatore finale saranno i bambini; il formato quindi deve essere ludico, ma non sciocco, e deve introdurre qualcosa di nuovo nei test sociometrici, in genere molto noiosi.
EJ: Ultimamente non ti ho vista spesso in giro per inaugurazioni a Praga.
EK: Ho trascorso la maggior parte dell’estate in residenza a Budapest; subito dopo sono partita per Vienna, per partecipare a un’altra residenza presso il MuseumsQuartier. Negli ultimi mesi ho vissuto in tante abitazioni temporanee.
EJ: Che importanza hanno per te le residenze d’artista?
EK: Non mi sento assolutamente un’artista da residenza. Non sono abbastanza flessibile per adattarmi subito a nuovi contesti e sviluppare rapidamente dei progetti. I miei lavori non nascono in assenza di ostacoli e considero la mia casa come il luogo più naturale dove creare le mie opere. Trovo infatti che il mio ambiente domestico (che altri troverebbero probabilmente piatto e demotivante) sia il posto più stimolante e una fonte di ispirazione. Tuttavia, il temporaneo cambiamento di luogo e l’incontro con contesti sociali differenti spesso mi aiutano a scoprire nuovi aspetti di una determinata problematica e, talvolta, persino a trovare la giusta soluzione e a portare a termine un progetto. Mi rendo conto che parlare della necessità di mantenere di tanto in tanto una certa distanza dal proprio lavoro sia una sorta di cliché, ma penso che una residenza (in dosi moderate) o anche un breve viaggio possano essere molto utili e rigeneranti.
EJ: I tuoi progetti spesso mirano a modificare la percezione dello spazio circostante e il modo in cui viene utilizzato. In particolare hai indagato la natura di quei comportamenti stereotipati dovuti, per esempio, all’educazione familiare e scolastica. Su quali temi ti stai attualmente concentrando?
EK: Il rapporto tra l’individuo e certe strutture sociali — con le relative consuetudini, regole e strategie comunicative — resta il fulcro della mia ricerca. Tuttavia, ho preso le distanze dai lavori basati soltanto sulla mia esperienza personale, per orientarmi progressivamente verso l’esplorazione di tematiche più generali, concentrandomi sugli esiti di un particolare problema anziché sul mio coinvolgimento diretto, anche se naturalmente il punto di vista soggettivo su alcune problematiche non può essere soppresso del tutto. Il lavoro che sto affrontando in questo momento ha a che fare con le possibili forme del vivere. Punto di partenza sono i modi di vivere più standardizzati e stereotipati e da questi mi muovo per scoprirne di più alternativi, lontani dagli schemi consolidati o tipici di certe situazioni difficili e di confine. Una parte di questo progetto si intitola “House is not a Home” ed esplora il concetto di casa — il significato che assume a seconda delle diverse tipologie di individuo — e la capacità di creare un ambiente domestico partendo da poche cose.
EJ: I sentimenti e le esperienze traumatiche sono ancora motivi dominanti nel tuo lavoro?
EK: Affronto le cose che mi disturbano o mi spaventano, quelle con cui mi trovo in disaccordo o semplicemente ciò che ho bisogno di capire e di chiarire a me stessa. Credo sia un processo abbastanza naturale. Non sono ossessionata dagli aspetti positivi della vita, sono semplicemente felice che esistano. Nell’arte è opportuno evidenziare determinate problematiche; anche se probabilmente non troveremo delle soluzioni, possiamo almeno suggerire delle proposte o mettere in rilievo il problema.
EJ: Hai un approccio quasi archeologico nei confronti del passato individuale e collettivo. Ciò si riflette anche nella tua abitudine di collezionare e conservare materiali (abiti o accessori della tua infanzia, per esempio) e nel tuo modo di combinare i ricordi con certi motivi e immagini del presente. Pensi che questo modo di operare rimarrà una costante nella tua ricerca?
EK: L’approccio archeologico mi permette di utilizzare diversi espedienti attraverso cui esaminare, ricostruire e rivalutare il passato e comprendere il presente. Si tratta anche di un modo per fare i conti con ciò che mi circonda, con gli schemi prefissati e i modelli comportamentali. Credo che sia l’unico sistema per giungere all’origine delle cose, per capovolgerle e vederne il lato più nascosto. Mi interessa soprattutto capire il funzionamento e l’impatto dell’educazione e della formazione su un individuo, dunque penso che questo metodo sia uno strumento molto utile a tal proposito. Ma, come ho già detto, in questo momento sono la memoria collettiva e i temi sociali di carattere generale a interessarmi maggiormente, anche se ovviamente la mia storia personale e ciò che mi accade esercitano una forte influenza.
EJ: Quali tra le tue mostre trovi personalmente più interessanti e perché?
EK: Non sono in grado di scegliere una mostra in particolare. Spesso sono molto critica nei confronti delle mie mostre; le considero come il risultato di un progetto, di una serie, di una lunga esplorazione, ma non le percepisco come l’unico esito dell’attività artistica. In futuro spero di presentare i miei progetti anche attraverso altre modalità, dal momento che a volte ho la sensazione che la classica modalità espositiva non si adatti a loro. In ogni caso, per rispondere alla tua domanda, trovo molto interessante la collaborazione con singoli curatori.
EJ: Quali progetti ti hanno dato maggiore soddisfazione e perché?
EK: Più che di soddisfazioni parlerei di nuovi punti di vista su determinate questioni. Un grande cambiamento nella mia attività è senz’altro avvenuto quando mi sono resa conto che non soltanto traevo ispirazione dal mio ambiente domestico e dalle situazioni quotidiane, ma ho iniziato man mano a interessarmi anche alle attività familiari e comuni, che sono poi diventate tema principale del mio lavoro. Il primo grande progetto appartenente a questo filone si intitola “Behind Between Over Under in (the Room)”: per alcuni mesi ho usato il mio corpo esclusivamente in relazione ai pochi elementi presenti all’interno di una stanza. Ho scoperto, dopo diversi frammentari tentativi, come sia importante concentrarsi su un unico tema, quante diverse soluzioni possa offrire e quanto sia cruciale andare alla ricerca di un proprio motivo personale, anche se talvolta può culminare in un fallimento, come ogni progetto a lungo termine.
EJ: Lavori con diversi media, dal disegno al video, dalla performance alle installazioni. Esiste una gerarchia prestabilita nel modo in cui li utilizzi? Per esempio, i disegni servono come studi?
EK: Cerco di non creare una gerarchia. Ogni parte gioca un ruolo importante all’interno del progetto e fornisce un supporto alle altre. A volte un disegno o uno schizzo sono più precisi di un lungo processo di creazione. La ragione per cui utilizzo così tanti media non è la volontà di mostrare quanto sia complesso il progetto o di andare incontro allo spettatore che potrebbe capire meglio un medium rispetto a un altro. Si tratta piuttosto del tentativo di trovare la forma migliore per esprimere un determinato concetto; talvolta, infatti, tendo a escludere alcuni elementi o a utilizzare soltanto l’opera che rappresenta al meglio il progetto.
EJ: Potresti descrivere il tuo processo creativo?
EK: Il mio modo di lavorare include tutte le fasi possibili, dall’indagine intuitiva e caotica a momenti più organizzati e metodici, sempre alla ricerca del momento o della questione chiave. Spesso il lavoro portato avanti fino a un dato momento si disgrega (uno scenario molto ricorrente) e quanto fatto in precedenza sembra inutile; poi appare una via nuova e più semplice e allora mi domando come mai non ci abbia pensato prima. ?