Ho incontrato Fabio Mauri a casa sua, a Roma, nel gennaio del 2007. Stava lavorando all’opera che avrebbe poi esposto all’Hangar Bicocca di Milano nella mostra “Not Afraid of the Dark”. Era la prima volta che lo intervistavo, anche se avevo ascoltato molte volte dalla sua bella voce profonda i racconti di una vita fuori dal comune, trascorsa a stretto contatto con i più importanti artisti e intellettuali nei decenni chiave del dopoguerra italiano. Artista, critico, editore, docente, fondatore di riviste ormai storiche (Quindici, La città di Riga), a quasi 82 anni non aveva perso nulla della curiosità per le cose nuove, del rigore e anche della cifra personale e inconfondibile, fatta di precisione e di acutezza di sguardo, che lo aveva sempre accompagnato. Fabio Mauri ha rappresentato in Italia un modello di artista-intellettuale largamente in anticipo sui suoi tempi, impegnato in un dialogo senza remore con la storia, la cultura moderna e le sue contraddizioni. La sua opera multiforme, irrequieta e sempre rinnovata è ormai affidata alla sua posterità, a tutti noi.
Stefano Chiodi: Una valenza esplicitamente politica è apparsa nel tuo lavoro solo a partire dagli anni Settanta; cosa ha preparato questo mutamento?
Fabio Mauri: Fino al 1964 avevo fatto parte del gruppo di giovani artisti attorno a Piazza del Popolo. Si pensava che cambiando la lingua si migliorasse il mondo, si aprissero le porte di un’arte nuova. L’espressionismo astratto era stato alla base dei nostri primi tentativi, della nostra riflessione sul rapporto con la realtà. Poi ci fu il 1964 e la Biennale con la rivelazione della Pop Art. I pittori americani facevano le stesse cose che avevamo cominciato a fare dal ’57-’58, ma in dimensioni che noi non avevamo mai raggiunto.
SC: Per quale motivo?
FM: Gli americani erano più brutali, più diretti. Noi avevamo un retaggio classico, non riuscivamo ad affrontare la realtà, non saremmo stati capaci di fare una scultura con la Coca-Cola. Era necessaria una presa di posizione di fondo; volevo capire. Da quando, e dove? Ho iniziato dalla mia biografia. C’era stato il fascismo, la guerra, lo sterminio degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare i disastri, il freddo, la fame, la paura, i bombardamenti. Impresso nella memoria trovai un raduno, i Ludi Juveniles a Firenze, nei giardini di Boboli. Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto politico e storico del destino, a come la storia incide sulla vicenda dei singoli. Sembra un incidente, ma è la sostanza di una vita.
SC: Come si trasformò il ricordo in un lavoro artistico?
FM: Decisi di rimettere in scena con gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica il raduno di Boboli, cercando di ricostruirne esattamente l’atmosfera, togliendo il cowboy o la pin-up dalla gestualità dei giovani, insegnando alle ragazze a sedersi con le ginocchia chiuse e ai ragazzi a stare diritti, a marciare e ubbidire subito agli ordini… Il primo insegnamento consisteva nell’essere di un’epoca per loro sconosciuta. Nacque così Che cosa è il fascismo.
SC: Era pensato come una messa in scena o come una performance?
FM: Era teatrale perché avevo inventato una scena, una sintesi spaziale di ciò che avevo vissuto, ma la scena era anche un’installazione, orientata come un tunnel. Non c’era una trama, ma un percorso mentale. Le tribune nere, intorno al grande tappeto, disegnavano l’unico punto di una certa consistenza della dottrina fascista: il corporativismo. C’erano, ironicamente, le tribune dei familiari, dei giornalisti, degli ingegneri, dei grandi proprietari terrieri. Il pubblico assumeva, o meglio subiva la sua parte, sedendosi in tribuna. Erano perfetti attori involontari, ignari, stupiti, divertiti o offesi.
SC: E c’era anche la tribuna “razziale”…
FM: Sì, due tribune, piccole, con la stella ebraica. Era un modo per rendere la “normalità” iniziale delle leggi razziali che furono anche la fine dell’identificazione della mia dolce vita giovanile con la vita fascista.
SC: E quale visione volevi far emergere in quella e nelle altre tue performance che hanno come tema il fascismo?
FM: Avevo trovato il fondo di un carattere critico, il mio. E il possibile inganno delle idee. La performance doveva essere una specie di termometro della storia italiana, di un fascismo diffuso, del suo essere classista, del privilegiare i più forti, della sua essenziale superficialità.
SC: La performance era anche un modo per politicizzare l’arte?
FM: Per me l’arte che si politicizza è in realtà un’arte che approfondisce la coscienza e la conoscenza del mondo, che scopre il destino formato da caratteri interiori e personali, persino fisici, e da elementi esterni ed eterogenei, estranei.
SC: In che rapporto ti ponevi rispetto alla tradizione del teatro politico, a Brecht per esempio? Ti interessavano le sue idee sul teatro epico, didattico?
FM: Sì, ma non ero d’accordo sull’epicità…
SC: Sullo “straniamento”?
FM: Nemmeno. Nel mio lavoro non c’era straniamento, anzi l’opposto, c’era l’assunzione di una natura in un luogo, in un costume databile.
SC: L’esperienza di Tadeusz Kantor ti interessava?
FM: Mi appassionava, era molto vicino alla mia idea di performance teatrale come manifestazione della sovranità totale dell’io d’artista, della sua libertà, priva di ogni regola di genere. Il mio lavoro lo chiamai performance complessa. È una forma chiusa, quasi privata. Espongo ciò che il mio io sa. È teatro e performance. Ho tolto e aggiunto qualcosa a entrambi.
SC: Per tornare all’aspetto storico, come giudicavi la scelta di Pasolini con Salò o le 120 giornate di Sodoma, cioè mettere in scena il testo di De Sade in un contesto fascista? È un’operazione che somiglia alla tua da questo punto di vista?
FM: Me lo sono chiesto più volte. Alcuni mi hanno detto che ho suggerito a molti molte cose, avendole fatte una volta sola. Può darsi. Ma di sicuro non ho mai pensato di sommare De Sade e Salò. Il fascismo è concettualmente orribile, per me, senza l’aggiunta di orrori. Rappresenta una retorica ideologica che conduce alla morte.
SC: Nell’agitata atmosfera del Sessantotto quale era la tua posizione?
FM: Io non facevo politica, ma “coscienza”; è una cosa identica e insieme profondamente diversa. Sentivo che la volontà di “fare politica” poteva diventare presunzione. Molte volte sono stato invitato a far parte di gruppi, ma ho sempre detto di no: io non faccio arte politica, dicevo, non sono un militante di partito, non mi calo in una postazione, o se lo faccio, lo faccio già attraverso la moralità dell’arte. La mia arte è frutto di un’elaborazione di coscienza, le mie opere sono operazioni pubbliche ma fortemente individuali, quasi private. Diventano politiche nella lunga durata.
SC: La “coscienza” di cui parli ha a che fare con un principio etico?
FM: È coscienza storica e politica del bene e del male, sociale e individuale. E parlando di coscienza, fornisco evidentemente indicazioni sul mio concetto di arte e di artista. Cos’è l’arte? È molto vicina a un’idea di vita, è la stessa cosa. Ho fatto arte come rapporto di giudizio tra me e il mondo. Ho scelto il mondo come interlocutore per capire dov’ero, e ho avuto un rapporto conflittuale ma dialettico con l’esistenza. Questo procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce anziché di buio è il mio personale “Not Afraid of the Dark”. Niente ancora mi immobilizza, sono stato sempre a disposizione dell’ultimo esperimento. Ora, il mio ultimo esperimento è la vecchiaia, che arriva per conto suo ed è di un’altra epoca, è curioso… Somiglia nella sua novità a qualcosa che ho già vissuto in un’età disadatta.
SC: Si potrebbe dire allora che il tuo costante oggetto di studio sia stato la forma-ideologia?
FM: Ho visto il terrore dell’ideologia, come l’ideologia possa dare un’idea di un mondo interamente falso e mascherare le potenzialità distruttive, perché l’ideologia, ahimé, è un modo in cui l’uomo pone attorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo. L’ideologia totalitaria pensa il mondo per te, obbligatoriamente. L’uomo apprende tutto per cartolina, cambia il suo vestito con la divisa, prende il moschetto invece che l’ombrello. L’ideologia gli insegna come dare la mano, come salutare. Io mi sono messo a pensare cos’era l’ideologia e in che cosa l’ideologia tendeva a fare a meno o a diversificarsi dall’esperienza, proprio sul versante della critica della coscienza: la “coscienza critica” per me è il salvacondotto di ogni attività, anche artistica.
SC: Il pensiero ideologico è davvero finito, siamo alla fine entrati in quella che è stata definita la “post-storia”?
FM: Per me tutta la storia è “post-storia”. Il modo di pensare ideologico non è finito: è ineliminabile. In un certo senso è un sottoprodotto del pensiero. Dopo la caduta del Muro di Berlino tutti hanno pensato che l’ideologia fosse morta. Io non l’ho pensato nemmeno per un secondo. Anzi. La maggioranza cerca l’ideologia. L’ideologia assoggetta l’uomo a un’identità centrale, non individuale. Sopprime con atteggiamento fermo e feroce ogni idea contraria.
SC: Quindi da un certo punto di vista toglie l’ansia, cura.
FM: Può togliere l’ansia, ma non cura, perché ritorna più grave nei fatti.
SC: Ma la religione, tutte le religioni, direbbe un illuminista, non hanno proprio questa funzione?
FM: Anche la religione può diventare ideologica. La religione è un tragitto verso Dio, complesso e oggettivo come l’Essere. Non è un botteghino in cui compri il biglietto una volta per tutte, né un conforto generico. È una passione su ciò che credi, che è Dio, e una discussione con lui.
SC: Sei o sei stato credente?
FM: Sono stato molto religioso, di una religiosità che mi ha condotto prima in cliniche dove cercavano di “guarire” le mie ossessioni, e poi dopo, per cinque anni, a occuparmi, in un paese vicino a Civitavecchia, dei ragazzi che la guerra aveva lasciato soli.
SC: Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
FM: La fede. Io ormai so che Dio c’è.
SC: Il punto focale della tua vita successiva, della tua attività artistica, non è stato però il bene ma il male della storia. In modo cosciente?
FM: Consapevolmente, certo.
SC: E la tua esperienza religiosa si è intrecciata con quella artistica? Hai intitolato una tua conferenza-performance Dio e la scena…
FM: Mi sono spesso chiesto se a Dio piacesse l’arte moderna e se per caso gli piacesse quello che faccio.
SC: Hai trovato una risposta?
FM: La risposta, col tempo, è che a Dio piaceva Picasso. Certe cose che ho fatto forse gli sono piaciute… Ma posso ingannarmi, certo.
SC: Per tornare al tuo percorso artistico, c’è una tua opera in particolare, Intellettuale, che affronta direttamente la questione del rapporto tra l’opera e il suo autore; avevi chiesto a Pier Paolo Pasolini di fare da “schermo” di proiezione per un suo film…
FM: Il Vangelo secondo Matteo.
SC: Sì, e in una foto famosa si vede Pasolini in camicia bianca con il film proiettato “addosso”; stavi visualizzando la relazione fisica dell’autore con la sua opera?
FM: Noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista la memoria si scontra con il mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che aveva decifrato, ma nella performance non capiva più a che punto era. Come se avesse perduto lo sguardo sulla propria interiorità, era sgomento. Io non sapevo bene cosa volevo ottenere con quel lavoro, era qualcosa che riguardava una sorta di scambio di coscienza. Lo sottoponevo a una prova, forse. O mi ci sottoponevo io. Volevo ritrovare la mappa della nostra amicizia, intensa sui temi generali, compreso Dio: quando si andava a cena con Pasolini, sembrava di cenare con Cristo. La sua arte cinematografica non era un testamento ideologico, ma una mimesis profonda: niente gli era estraneo, né Dio, né il sesso, né se stesso. Pier Paolo somigliava a Henri Michaux, che diceva: “Non sono mai stato tanto religioso come quando ho peccato”. È discutibile, ma può essere così.
SC: Usare il corpo come “schermo” potrebbe alludere al fatto che le immagini non appaiono mai semplicemente su una tela o su un muro, ma finiscono sempre per essere assorbite, digerite…
FM: Certo. Proiettare un’immagine su un corpo o su un’altra materia modifica la proiezione, produce un significato inedito. È una palese dimostrazione che il significato nasce da tutto ciò che noi conteniamo nella memoria e dall’immobilità apparente della realtà. Nell’incontro la somma crea un ibrido.
SC: Il tuo lavoro più recente continua a interrogare il totalitarismo?
FM: Il totalitarismo per me è stato giudicato. In realtà il mio interlocutore è oggi la vita in generale, non più solo la storia o la politica italiana. La natura della storia è quella del mondo. Dall’ovvio al profondo, dal bene al male, dal pacifico al sanguinario. L’uomo non è un incidente. È una coscienza protagonista. Anche se non ne è più il centro, resta un epicentro dell’universo, almeno visto dalla Terra.
SC: Si potrebbe dire che un senso del tuo lavoro sia riconoscere ciò che minaccia l’umano?
FM: Certo… Vorrei comunicare il senso di smarrimento che provo. Individuare lo smarrimento è già una difesa, tu devi capire cosa ti travolge, ma smarrirsi vuol dire essere attenti e anche ammonire a stare attenti. La vecchiaia è scoprire finalmente cosa è l’esistenza, e non azzardarsi a sapere senz’altro cosa sia. Una contraddizione piena di chiarezza. Non so chi voglio commuovere. Cerco di disilludere. Questo caos non è un caso.
SC: L’arte dal tuo punto di vista è cercare un passaggio, una via d’uscita, tra disillusione e smarrimento?
FM: In arte per raggiungere chiarezza si possono fare solo esempi sproporzionati. Il totale di un’opera d’arte, fuori da un’estetica concreta o pragmatica, è un’invisibilità che si stabilizza tra le cose, come un oggetto. Non bisogna descrivere un gesto artistico in modo troppo semplificato pur di farsi capire. Anche per l’arte, come dice Einstein per la relatività, la spiegazione è semplice ma non troppo semplice.