Piccolo prologo: elogio dello schermo
A Roma Fabio Mauri si trasferisce nel 1956. Alla fine del ’57 realizza il primo schermo. Non è solo una versione del monocromo. “È un’affermazione complessa presentata come elementare”. Lo schermo è a tutti gli effetti la nuova vera forma simbolica del mondo e Mauri coglie questo fatto tempestivamente. Dopo lo sbarco della Pop americana alla Biennale di Venezia nel ’64, Mauri riflette sulla specificità della cultura europea e la individua nell’ideologia.
La performance come esercizio spirituale
“Ho ripensato la mia biografia e ho pensato che avevo conosciuto una realtà storica forte, la guerra. Avevo rimosso come un grande incidente tutto questo dolore, l’ho riaffrontato”, dice l’artista. “Invitato da Pressburger a tenere una serie di lezioni all’Accademia Silvio D’Amico e a concludere con una performance, feci nel ’71 Che cosa è il fascismo”. La prima versione è agli studi Safa Palatino. Si tratta della simulazione di una cerimonia rituale di giochi, esercizi ginnici, competizioni verbali e sportive. Il pubblico è invitato a prendere posto nelle tribune. Le armoniche azioni della “bella gioventù” sprigionano un ammaliante incanto rotto alla fine dal rumore di una pioggia di bombe. Il bombardamento finale dà corpo sonoro all’ansia sottile generata dalla lapidaria scritta “The End”, presagio di un crollo finale. “Un tipo di teatro sperimentale, iniziato nel Settecento, può fornire un’indicazione pratica di questo evento. Alludo agli ‘esercizi spirituali’. Per nutrire l’orrore dell’inferno ci si concentra sui suoi mali, sperimentando fisicamente qualche attimo l’ustione del fuoco, ecc.” (Mauri). Una delle novità che Mauri apporta è quella della performance complessa, non un’azione di pochi minuti, di una sola persona o di pochi individui, ma la corale evoluzione di una trama mentale, una drammaturgia agita da tanti. “È un teatro che non è teatro”, commenta Mauri. Parallelamente a Che cosa è il fascismo Mauri prepara una performance di diverso tipo, Ebrea (Galleria Barozzi, Venezia ’71, ripetuta varie volte). Una figura femminile abita un piccolo spazio organizzato come il museo di un campo di concentramento fatto di oggetti-sculture che “simulano una provenienza umana” (Maria D’Alesio). Qui la performance si combina con l’installazione. L’opera costituisce anche un’agghiacciante analisi critica del design: “Intralcio di sfuggita la sicurezza laica del ‘design’ contemporaneo così fiducioso nel progresso”. Una figura femminile è protagonista anche di Natura e cultura: la giovane si spoglia dell’uniforme elegante e lo “svelamento di ogni costume ideologico” (D’Alesio) restituisce il resistente stato di natura della nudità. Se Ebrea, con la figura femminile sola tra oggetti muti, è una melanconica performance della solitudine, Che cosa è il fascismo e Gran serata futurista sono performance della moltitudine dove l’accento è sull’aspetto pubblico e meno intimo, dove il timbro è la vitalità (reale nella seconda, apparente nella prima), dove non solo molti performer affollano la scena, ma molti collaborano. Con gli allievi dell’Accademia de L’Aquila dove insegna “Estetica della sperimentazione” Mauri affronta un tema cruciale: il Futurismo. Lo spettacolo, ricco e articolato nella durata di circa quattro ore, viene rappresentato più volte. In scena 150 persone tra attori e musicisti. Oltre a essere interpreti dello spettacolo, gli studenti, sotto la direzione di Mauri, realizzano le scene, i costumi, le attrezzature. Per l’artista il Futurismo era un grande, inesplorato deposito, un rimosso rinascimento italiano contemporaneo. Qui la finzione è un ulteriore mezzo di complicità con gli spettatori nell’intento di ricreare una rete di sensazioni tra palcoscenico e pubblico. Se Marinetti incitava a invadere la platea e Boccioni voleva portare lo spettatore al centro del quadro, Mauri coinvolgerà sempre più lo spettatore all’interno delle sue azioni complesse in una presa diretta tra arte e vita che non solo si riallaccia alle istanze del Futurismo e alla mentalità Fluxus, ma anticipa le più recenti aperture alla dimensione antropologica. L’idea di complessità è comunque fondamentale da tutti i punti di vista nell’opera di Mauri. Per rendere la complessità del mondo e del pensiero sono necessarie complesse installazioni e performance, è anzi necessario combinare più linguaggi, far interagire più temi (come nei più attuali procedimenti culturali di crossing over). Da questa esigenza nasce anche la particolare (e in anticipo sui tempi) tipologia di allestimento adottata da Mauri, accostamento di cose, fatti e stili eterogenei che combinandosi si potenziano e producono un positivo corto circuito.
Critica della cultura manipolata
Manipolazione di cultura, lavoro grafico iniziato nel ’71, è tra le più importanti opere dell’artista per la comprensione del problema dell’ideologia. È la dimostrazione che per Mauri il lavoro può prendere ogni forma, anche quella del libro. Le tavole (tratte dagli originali) hanno una struttura tripartita: nella parte alta c’è l’immagine fotografica tratta dalla documentazione storica dei fenomeni del nazismo e del fascismo; nella zona mediana il monocromo, schermo dipinto di nero; in basso, sul bordo, poco evidente, c’è la didascalia apposta dall’artista, una brevissima frase, a sinistra in italiano, a destra in tedesco. La zona oscura non è uguale in tutte le tavole, dipende dalle proporzioni della foto e varia continuamente, provocando un ritmo ineguale di differenti livelli, il nero che sale e scende, una marea di male. Nel ’90, alla mostra “Due acquerelli” allo Studio Bocchi di Roma, Mauri intitolerà un’opera Cosa c’è in un monocromo nero? La risposta era già qui: c’è la Storia. Il libro inizia con un rogo, contemplato da Goebbels: “bruciano libri” è la scarna proposizione. È inquietante il fatto che nelle didascalie il soggetto non è mai espresso: è sottinteso il riferimento al gruppo di potere ma, non essendo esplicito, si apre una catena potenzialmente estensibile persino all’osservatore dell’opera. Il riferimento assume un valore universale, anche se Mauri ci parla di fascismo e nazismo, e non di altre dittature come lo stalinismo, poiché di questo egli ha esperienza, coincidendo completamente la parabola del fascismo con la sua giovinezza e il periodo di formazione. Le scritte sono tautologiche, paradossalmente descrittive, non fanno che doppiare l’immagine, ma in effetti dicono altro, producono uno scarto che è il giudizio dell’artista, spazio dell’interpretazione. Un impassibile commento incluso nell’immagine. Si tratta dunque di una critica dell’ideologia, dell’immagine che una società ha di sé, ma nel momento stesso in cui essa si formula diviene oggetto d’interpretazione. A un certo punto una chiave di lettura: “manipolano la cultura” appare sotto una monumentale scenografia. La manipolazione è dunque il concetto fondamentale: la più palese, compiuta dall’artista, di tipo linguistico e critico, allude a quella, ben più profonda, interna alle immagini stesse. Rimanipolando la loro manipolazione Mauri svela il meccanismo ideologico. Il mito del cinema è un tema tipico di Mauri, non a caso l’ultima immagine è quella di Leni Riefenstahl con la macchina da presa: il cinema fu una formidabile arma di propaganda, il libro si conclude con le parole “filmano tutto”. Dalla metà degli anni Settanta in avanti prende avvio il complesso lavoro delle “Proiezioni”, presentate in varie occasioni con vari titoli. Il concetto di proiezione si rivela sempre più centrale nell’opera di Mauri. Questa serie di lavori viene messa in atto per capire il meccanismo della conoscenza del mondo. Riusciamo a decifrare perché abbiamo una cultura che proiettiamo sul mondo come una sorta di esternità plastica. La luce, che costituisce l’immateriale sostanza della proiezione, non interessa l’artista di per sé, ma per ciò di cui è potenziale veicolo. Proiettata sulle cose del mondo, non solo le illumina, ma le trasforma, rendendoci spettatori dell’origine e delle metamorfosi del significato. “Il pensiero è una luce con una trama, cioè un film. Si proietta su un oggetto seminuovo che è il mondo e ne nasce un nuovo ibrido. L’operazione è un esperimento quasi fisico sulla nascita del significato e delle variazioni di senso”, dice l’artista. Con le “Proiezioni” assistiamo a un processo di plasticizzazione del pensiero. La prima proiezione è a Roma nell’ambito di Oscuramento, un’azione articolata in tre fasi: allo Studio Cannaviello nel ’75 il film Salmo rosso viene proiettato sul corpo dell’autore Miklós Jancsó. La più famosa proiezione è quella de Il Vangelo secondo Matteo su Pier Paolo Pasolini, pochi mesi prima della sua scomparsa (GAM, Bologna 1975). Il film fa largo uso dei primi piani ed è proprio questa la parte che emerge nell’opera di Mauri raggiungendo lo straordinario effetto di trasformare il poeta in un corpo corale, abitato dall’altro. Mauri definisce l’operazione una radiografia dello spirito. L’autore perde il controllo sulla propria opera (Pasolini era inquieto perché non riusciva a capire a che punto fosse il film), però “l’identità d’autore resa materialmente evidente, si riconferma in modo efficace ed elementare. Autore e opera formano una scultura di carne e di luce, una unità compatta. Dimostrano, con la forza di una ‘visione’, d’essere una cosa sola”. Una scultura di carne e di luce, una messa in trasparenza dell’interiorità dell’artista, del suo pensiero visualizzato, della sua opera ancora dentro di sé. I supporti che il raggio luminoso lambisce sono i più disparati: una casa di ringhiera a Milano, una nave che passa a Venezia, un ventilatore per Westfront di Pabst, un secchio di latte per l’epica purezza dell’Aleksandr Nevskij di Ejzenstejn… Comunque la proiezione avviene, come dice Mauri, “su una dinamica delle cose”. Le materie infatti sono fluide o aeree (latte, vento, fumo…), ma la cosa più interessante è che la bilancia su cui viene proiettato Gertrud di Dreyer segna un peso: l’immagine, sintomo di pensiero, ha un corpo e perciò un peso. Perché un pensiero può intossicare una stanza (come recita il titolo di una serie di schermi del ’72 con scritte in caratteri gotici)? Perché è fisico, occupa uno spazio, è una sostanza, velenosa o salvifica. “Il linguaggio dell’arte”, scrive Mauri, “conferisce oggettività al pensiero e a ogni apparenza”. L’arte è dunque il più adeguato strumento di indagine dei processi di formazione del pensiero, può renderlo concreto, solidificarlo quasi, come Mauri ha fatto con il raggio delle pile. Recentemente (Centro S. Giusta, L’Aquila) Mauri ha accostato versi evangelici e cose quotidiane come pane, acqua, olio, elementi simbolici del mistero della transustanziazione, in fondo l’operazione alla base dell’arte. Intanto si era precisata la riflessione sull’Europa alla Fondazione De Appel di Amsterdam nel ’79 con Muro d’Europa. Nel testo che accompagna l’opera Mauri conia una definizione quanto mai adeguata e pertinente per la sua operazione di critica all’ideologia: “arte saggistica”.
Filosofia da tavolo
Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo (1989) è un’intensa e suggestiva performance che adombra il clima all’interno del quale matura il “tradimento” del filosofo Heidegger e di altri intellettuali. Heidegger, interpretato dal filosofo Giacomo Marramao, si concede un giro di valzer con la borghesia e con il nazismo. Lo spettacolo, recitato in larga parte in tedesco, è reso comprensibile dal movimento scenico. Le interpreti femminili recitano testi della poesia tedesca. Il saggio di Heidegger Che cosa è la filosofia è il tema conduttore del concerto alternato a brani di Bach, Mozart e musica dodecafonica eseguiti da una violoncellista per allietare la festa. Come uno stridente contrappunto una voce recita il conteggio economico delle parti del corpo di una vittima, uno spiazzante estratto del processo a Eichmann. L’allestimento, ancora una volta, combina il sistema del museo delle cere con quello degli esercizi spirituali, come nota lo stesso autore, al fine di “ridare vita a figure immobili”. La forte invenzione scenica di Mauri riguarda la scansione dello spazio: l’artista colloca gli attori e gli arredi su un palcoscenico costituito da un tavolo attorno al quale sono seduti gli spettatori cui vengono serviti tipici cibi tedeschi, birra e salsicce con crauti. “Il concerto di significati si muove sul tavolo, poco più in là del cibo” (Mauri). La scena, che coinvolge anche il pubblico nell’atmosfera d’epoca, è ripartita su un doppio livello: al piano di sopra un salotto alto borghese, al piano di sotto una taverna. Si è circondati da due Germanie. Come ricorda lo stesso artista, il tema della Germania è quello dell’Europa. “Il bene e il male parlano la stessa lingua”, e parlano tedesco. Il tavolo è un microcosmo, un recinto, uno spazio ritagliato e selezionato, un campo di concentrazione fisica e mentale. Nello stesso periodo Mauri mette in scena un epos borghese attraverso brani della propria casa traslocati alla Galleria D’Ascanio (Interno, Roma 1990). L’opera è un luogo d’identità, una casa. I quadri hanno un tetto, i tappeti formano una scultura mobile ed effimera, il lampadario è illuminato da un filo elettrico che parte dal quadro, come dire che l’arte illumina la realtà. “Viene messo in vendita qualcosa di reale, non metaforico: il mobile ereditato, la collezione di libri raccolta in vent’anni”, dice Mauri, “ogni mostra è un caso personale, è una casa personale”. Come recitano i versi di Hölderlin, citati da Heidegger “poeticamente abita l’uomo”. Se arredi e suppellettili indicano la tematica dell’identità, la valigia allude a una identità più instabile, in pericolo, messa a rischio. Il muro di valigie presentato alla Biennale di Venezia nel ’93 (nell’ambito di una riproposta di Ebrea) riprende il tema delle drammatiche divisioni del mondo del Muro d’Europa. L’installazione è chiaramente legata alla tragica storia ebraica come indicano non solo il titolo, Muro del Pianto, e l’indizio dell’immagine di Ebrea dentro l’unico baule aperto, ma anche la biografia dell’artista, il dramma degli amici partiti e mai più tornati. Tuttavia l’opera diventa emblema universale di ogni migrazione, di ogni esilio, di ogni “dolore del mondo”.
I casi del mondo
Alla Nuova Pesa di Roma Mauri presenta Murato vivo, consistente nella proiezione de La ballata di un soldato su una parete della galleria dove è stata realizzata una messa a nudo delle tracce elettriche attraverso uno scavo in corrispondenza dei fili, come se venissero allo scoperto le vene di un edificio-organismo, un corpo pulsante. Alla Galleria Milano è presentato il lavoro relativo alla proiezione di immagini su alcune scaffalature in ferro provenienti dal carcere di Rebibbia. Qui venivano riposti gli oggetti di valore, dei detenuti o dei visitatori. Rebibbia si è liberata di questi arredi carichi di memorie, poi recuperati dall’artista.
In questo caso l’oggetto della proiezione consiste in filmini, uno dei quali girato da uno zio dell’artista, filmaker dilettante: ritrae la società aristocratica veronese in viaggio per l’Europa, la vita felice prima dell’incipiente catastrofe. Accanto alla cassettiera, animata e ibridata dalle immagini luminose, I casi del mondo e la signora Matisse del ’91. “Quando facevo quadri drammatici, pensavo a quanto sarebbe stato bello essere Matisse, il pittore della joie de vivre, pensavo ai ritratti della moglie, l’ho riprodotta in un angolo in alto tra frammenti di pellicola”. Mauri ripresenta anche i primi schermi del ’57. “L’allestimento di una mostra è come l’esecuzione di uno spartito”, dice Mauri. Attraverso le modalità di presentazione passa un discorso e la modalità espositiva tipica di Mauri evita di accentrarsi su una sola opera (in questo, come in altri aspetti, Mauri si trova in maggiore sintonia con l’arte degli ultimi anni che con quella della sua generazione). Alla Galleria Il Ponte di Roma la proiezione del film La ballata di un soldato si inquadra nello scaffale, viene fuori e si insinua nei cassetti, alcuni chiusi, altri aperti. La cassettiera è un esemplare identico a quello esposto a Milano, la differenza è nelle aperture che sembrano schiudersi sulle memorie dei differenti casi della vita di cui sono impregnate, sulle tracce di “dolori diversi e ugualmente forti” che hanno ospitato. “Finora ho proiettato su persone e oggetti, i più svariati, ma non su mie opere; lo faccio nella mostra ‘Il futuro del Futurismo’ alla GAMeC di Bergamo, dove espongo opere improntate a simultaneità, dinamicità, e strutturate in più livelli di lettura e plastici come un nuovo quadro che sembra essere scandito da tre tetti nella parte superiore e tre tetti in quella inferiore”. Lo spazio pittorico è una casa dell’identità. Qui viene effettuata la proiezione che dona al quadro dinamismo e vitalità. È un’opera chiusa, pronta però a riaprirsi nella proiezione: “È come avere due opere”, dice l’artista. Alla mostra “Emergenze” all’Hangar Bicocca di Milano, Mauri ci fa sperimentare la sensazione di entrare in un’immagine, ci fa vivere la formazione di un pensiero visivo, ci trasporta all’interno di un’immagine inverosimile. Entrando sulla sinistra stanno “spezzati” (termine teatrale che indica elementi di scena ricoperti da teli neri) su cui si proiettano film come La battaglia di Algeri. Un uomo sembra venirci incontro. Quattro volte in simultanea viene proiettato Metropolis come in un polittico cinevisuale. Qui non assistiamo a una proiezione, ma la abitiamo. Qui sono messi a nudo i meccanismi di costruzione delle immagini nella nostra mente. Il centro è occupato da una struttura di elevazione, tra ascensore e pulpito, da cui l’attore Luigi Lo Cascio predica brani dell’Apocalisse. Si è circondati da immagini le cui misure si distinguono con difficoltà e coinvolti nella compenetrazione tra luce, struttura, gesto, proiezione, riflesso. Su altri spezzati appaiono brani fotografici ripresi all’esterno della Bicocca, una città sbadata, cresciuta senza un piano generale. L’idea iniziale è proprio quella di portare l’esterno nell’interno. L’opera della Bicocca costituisce il più radicale esito di quel percorso che è iniziato all’esterno dello schermo, ci ha portato nella Luna a oltrepassarne la soglia e poi al suo interno con le proiezioni. Pur avendo operato con i più diversificati mezzi (pittura, installazione, performance…) e avendo messo a fuoco, spesso con grande anticipo sui tempi, le più disparate tematiche (l’ideologia, il cinema e gli altri media, la Storia, la filosofia, la religione, la guerra…), Mauri non si sente affatto un eclettico: “Ho sempre lavorato a un’unica cosa: la comprensione linguistica del mondo”. Questa fondamentale unità di intenti emerge chiaramente in trasparenza dall’intera opera, mutante nei multiformi aspetti, ma attraversata da profonda coerenza. Per paradosso, questo pioniere delle relazioni tra arte e cinema, una delle vie più praticate dagli artisti contemporanei, non ha prodotto, tra le tante forme in cui il suo lavoro si è concretizzato, film o video. La spiegazione di Mauri sembra suggerire come motivazione quello stesso sguardo eccentrico che lo spinge a fare quinte teatrali degli spaccati del quartiere: “Non ho fatto cinema, perché ogni volta che vedo attraverso una macchina da presa distolgo l’occhio dall’obiettivo e guardo quello che c’è intorno”.